di Dziga Cacace

of41.jpg104-Lezioni di tango di Una Patetica Cialtrona, Gran Bretagna 1997

Entriamo nel Lumière e prendiamo posto davanti a due che iniziano a lamentarsi: “proprio qui davanti, con il cinema vuoto!”. Ma che credete, che il Lumière sia vostro? È mio! E ci sono un centinaio e rotti di spettatori, cazzo volete? Parte il trailer di Face/Off. Sto per dire “graaande!” ma rimango a bocca aperta mentre la babbea dietro di me esclama ad alta voce “che schifo!”. Il compagno risponde “Come si possano perdere due ore a vedere una porcata simile…” e l’altra: “che vergogna!”. Me ne sto zitto, anche se vorrei reagire in maniera scomposta. Parte il film e ‘sti due personaggi non stanno in silenzio per tre minuti consecutivi, sottolineando ogni scena del film con commenti entusiastici. E ve la meritate Sally Potter, perché questo Lezioni di tango è una stronzata senza eguali.


La prima mezz’ora scorre tranquilla; siam d’accordo: estetizzante, ma inoffensiva. La Potter, nonostante si possa dubitare, è una regista che, fulminata dall’amore per il tango e per il ballerino Pablo Veron, decide di accantonare un suo progetto sulla moda (evidentemente sconclusionato) per dedicarsi a un film che racconti il suo innamoramento. E qui iniziano i dolori. Immaginatevi ‘sta legnosa inglese che si riprende come se fosse una maliarda, stagionata sí, ma molto intrigante: neanche la Streisand è arrivata a tanto. Veron, invece, è un cafonaccio argentino dal capello unto, belloccio e cacirro. Cresce l’amore e la fotografia leccatissima di Robby Muller deve seguire il delirio narrativo che trova i suoi più coerenti rimandi cinematografici in Dirty Dancing, Flashdance e Staying Alive. Ma almeno questi film non erano presuntuosi: qui è un delirio assoluto e ci dobbiamo sorbire la Potter che si racconta sublime creatrice d’arte e che si crede anche una valente ballerina, dobbiamo affrontare slinguate col frullino, un reciproco battesimo artistico a una fontana di Parigi, la struggente identità ebraica comune, lacrime e addii. Si arriva alla conclusione con la Potter che canta, come una gallina scorticata, una canzone ovviamente scritta da lei. Grottesco, assolutamente grottesco. Ho un solo grande rimpianto: avrei voluto vedere questa immane cazzata in compagnia di Pier Paolo per schiantare dalla risate e ululare come ai bei tempi di Kramer contro Kramer. Ma per piacere… come fa Sally Potter a ballare con il 52 di piede? Come fa a credersi una regista dopo aver girato ‘sta micidiale puzzonata? E poi bisogna sopportarsi pure il commento delle spettatrici borghesi: “è un film al femminile che non puoi capire, maschio bastardo”. Ma andate a cagare! (Cineclub Lumière; 1/11/97)

105-Pasolini, un delitto italiano di Marco Tullio Giordana, Italia 1995

Ricorre l’anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini e RaiDue decide di dedicare la giornata alla memoria del poeta. Per quanto la cosa venga organizzata con il consueto scazzo che sembra prendere gli italiani non appena lavorano per un ente statale, non si può che apprezzare almeno l’idea. In pomeriggio e in nottata vengono trasmessi Il Vangelo secondo Matteo e Teorema e salta fuori che la Rai ha dovuto ricomprarli perché qualche geniaccio aveva dimenticato di rinnovarne i diritti per tempo. In prima serata va invece in onda il buon film di Giordana che ricostruisce il primo processo a Pelosi, l’assassino del poeta (presumibilmente in compagnia). È ben costruito e possiede un intrigante mordente narrativo. Tutti gli attori si comportano bene ma chi ruba la scena è Adriana Asti con un cameo di due minuti. Pura emozione anche la testimonianza commossa del giovane Bertolucci. Mi risulta invece insopportabile il nasale Moravia. Ma queste cose c’entrano poco. Il film, dicevo, prende, e gli si perdonano alcune cadute. Bravo Giordana e, una volta tanto, coraggiosa la Rai. E forse incosciente, seguitemi: a un certo punto, nella sede di un giornale fascista dell’epoca, è in bella evidenza un poster che Alleanza Nazionale ha utilizzato per le elezioni del 1994, sagace strizzata d’occhio del regista: come dire che nulla è cambiato. Dal momento che il film era finanziato dalla Rai, fortuna che quei caproni degli esponenti post-missini non abbiano visto il film, se no sai il casino… Evidentemente s’è contato sul fatto che Storace abbia una volta dichiarato “mi moje preferisce i film impegnati… chessò, Verdone. Io me diverto co’ robba più leggera”. Giuro: sentita con queste orecchie. (Diretta TV; 2/11/97)

106-L’anno scorso a Marienbad di un criptico Alain Resnais, Italia/Francia 1961

Pochi secondi di proiezione e capisco che anche stasera saranno cazzi amari: la pellicola è leggermente migliore di quella di Hiroshima mon amour (la “peggior pellicola mai proiettata al Lumière”), ma proprio leggermente. E il film, fin dall’iniziale soliloquio, si presenta molto ostico. La fotografia (o il sembiante della fotografia che la pellicola ci restituisce) e i fluidi movimenti di camera impressionano decisamente. Fa anche impressione, a livello di film horror però, il dialogo. Devo ammettere che più di una volta mi sono chiesto: ma che minchia stanno dicendo i protagonisti? Di cosa parlano? Boh, il fascino del film risiede sicuramente in questo mistero, ma non ero proprio nella serata per apprezzarlo: Albertazzi (“X”) vaga per i corridoi sterminati di un albergo barocco tentando di convincere “A” (Delphine Seyrig) che l’anno prima, forse a Marienbad, aveva avuto un affaire con lei. L’impegno era di rivedersi l’anno dopo nell’albergo in cui si trovano. Lei non ci crede e lui prova in ogni maniera a convincerla. Vero? Falso? Chissà. Intanto, fin dagli esordi del film, gli gironzola attorno quello che potrebbe essere il marito di “A”, tale “M”, che continua a sfidare al gioco “X” e puntualmente lo umilia, così come vengono umiliati gli spettatori che tentano di capire cosa cazzo succeda. In spregio di qualunque logica il film risulta eccezionale per Marco, mentre Mario mi ricorda puntigliosamente che è considerato un capolavoro. Lo so, ma vallo a dire al mio cervelletto che ancora annaspa. Io apprezzo parzialmente e noto soprattutto il grande debito stilistico di Bertolucci nei confronti di quei lunghi carrelli per i vuoti corridoi: sembrano le scene in cui Fabrizio e Gina si cercano al Regio, alla fine di Prima della rivoluzione. (Cineclub Lumière; 3/11/97)

of42.jpg107-Morte a Venezia di Luchino Visconti, Italia/Francia 1973

Il musicista Von Aschenbach, esaurito e malato, si prende una vacanza a Venezia e, di fronte allo splendore efebico di un sedicenne (il tizio di nome Tadzio, incubo di Pier Paolo), vede vacillare la sua composta morale. Intanto il morbo infuria e alla fine il compositore ci rimane secco. Tratto da Thomas Mann (Barbara: “Io l’ho letto… e tu, eeeeh?”. No, mannaggia), Morte a Venezia ci racconta la fine di un epoca, di un modo di vivere e di come una persona ormai al di fuori del suo tempo si adagi nel desiderio impossibile con voluttà e disperazione, in attesa di una morte liberatoria. Il film ha sostanzialmente poca trama e pochissimo dialogo: Visconti ci racconta tutto con ariose scene in cui spiccano una bella fotografia crepuscolare e un allestimento sontuoso. Fa rabbrividire, invece, l’indiscriminato uso dello zoom, ma si sa, quelli erano i tempi. A un certo punto appare pure Carole André e un brivido ha percorso la sala: la Perla di Labuan! A ogni modo Marco s’è lamentato tutto il tempo (quando Von Aschenbach schiatta s’è pure fregato le mani rumorosamente), mentre io, da decadente esteta, ho apprezzato la languida cinematografia. E poi, quanto è struggente e azzeccato quell’Adagetto di Mahler… (Cineclub Lumière; 4/11/97)

108-Partner di Bernardo Bertolucci, Italia 1968

Il Lumière non tradisce mai: Partner, saltato due settimane fa, viene recuperato e finalmente proiettato. Fin dai titoli di testa si è introdotti nel carattere fortemente politico del film: i colori genoani rosso e blu che campeggiano sullo schermo sono un esplicito omaggio al Vietnam in lotta, omaggio che verrà reiterato per tutto il film, quasi un leit-motiv cromatico. Dunque film politico, ma non solo. Partner ci racconta sconclusionatamente di Giacobbe, un borghese, accademico di teatro, che vede apparire il suo doppio, ribelle, anticonformista e violentemente rivoluzionario. Il Giacobbe sovversivo vuole stravolgere i rapporti sentimentali e sessuali, la politica, il teatro e il cinema… Non ci riesce, ma profeticamente annuncia che di lì a poco ciò finalmente accadrà (il film è girato nel 1968, prima che si sapesse che quello era il ’68), con buona pace del Giacobbe ordinario che è felice di avere un partner che possa sgravarlo di tutte quelle urgenze rivoluzionarie che lui non sa esprimere. Più godardiano di Godard, irrisolto, caotico, disordinato e narrativamente destrutturato, questo figlio degenere di Dr. Jeckyll e Mr. Hyde, Il sosia e Due o tre cose che so di lei, condito di non sensi e umorismo grottesco, è un film vitale ed energico, fiducioso in un futuro che invece non si sarebbe realizzato. Fotografato con gusto e recitato con convinzione da un Pierre Clementi schifosamente azzeccato, Partner è risultato addirittura divertente, se mi si concede il termine. E poi, avete presente la pubblicità del profumo Egoiste della Chanel, dove un prestante giovane boxa con la sua ombra? Era già qui, un quarto di secolo prima. Nella sala si sprecavano gli sbadigli a rischio di slogatura di mascella, alcuni dormivano come pietre, altri sbuffavano come locomotive a vapore… Mario e io, partner di questa serata bertolucciana, siamo stati, credo, gli unici ad apprezzare la “parentesi deliziosamente personale” del Maestro. Chiaramente tutti mi hanno accusato di essere accecato dal mio amore per BB. Forse è vero, ma, giuro, a me Partner è proprio piaciuto. (Cineclub Lumière; 5/11/97)

109-Il conformista di Bernardo Bertolucci, Italia/Germania/Francia 1970

E dopo il film più godardiano di Bernardo passiamo a quello in cui si concretizza il rifiuto di Godard e, metaforicamente, si rappresenta la sua uccisione, per iniziare a camminare in piena autonomia. De Il conformista esiste una copia restaurata di proprietà del Centro di Cinematografia Sperimentale, ma non è possibile vederla perché un altro cineclub, in passato, l’ha rovinata. Si sono offesi e non la prestano più, te capì? Dunque, siccome anche Francis Ford Coppola la sua copia non la presta, bisogna ricorrere paradossalmente a una videocassetta (privata, perché la videocassetta ufficiale non esiste) e a una videoproiezione, il che comporta una visione assolutamente irrealistica, con la fotografia scurita e orfana dei toni caldi (per la prevalenza della classica luce azzurrina del televisore) e con lo schermo grottescamente tagliato in formato televisivo. I pochi superstiti in sala, accettate queste mutilazioni, hanno retto con onore fino a mezzanotte e venti (ma faccio la spia: Mario s’è fatto anche un bel pisolone). Che dire? Finalmente un Bertolucci in full flight, estremamente soddisfacente e riuscito. E per quanto alla terza visione, ho ancora goduto di fronte alla bravura degli attori, alla sceneggiatura perfetta, ai fluidi movimenti di camera, alla bellissima scenografia e al ricordo del lavoro di Storaro. Il conformista è un capolavoro. (Cineclub Lumière; 5/11/97)

of43.jpg111-Miss Mend di Boris Barnet e Fedor Ozep, URSS 1926

Miss Mend consta di quattro ore e rotti di intrighi, uccisioni e furibondi inseguimenti, nell’abbacinante bianco e nero degli anni Venti. Per cui sovietico e muto. La trama è complicata: la farò breve. Siamo a Littletown, USA. C’è un’agitazione operaia al sugherificio Rocfeller (sic). Il reporter Barnet e il suo collega Foghel accorrono per documentare la repressione e incontrano Vivian Mend e l’amico Tom che difendono gli operai. Tutto il mondo è paese: fuga dalle bastonate dell’esercito. Nella fuga gli amici si perdono, ma miss Mend è aiutata a tornare a casa da uno sconosciuto gentiluomo, Arthur Storn, che si spaccia per un caporeparto dello stabilimento, ma che in realtà è il figlio del proprietario. Vivian, che vive con il piccolo nipote John, subisce il fascino del gentil signore e fin qui nulla di complicato. Poi arriva la notizia che il padrone, Gordon Storn, è stato avvelenato dai bolscevichi durante una missione commerciale in URSS. Scopriamo invece che è stato “addormentato” dall’infernale Cice, un diabolico figuro che dirige l’Organizzazione. Cos’è l’Organizzazione? È una società segreta che si propone di combattere in ogni maniera il comunismo che, come un virus, potrebbe abbattersi sugli Stati Uniti. Per farlo Cice vuole sterminare i bolscevichi portando la peste nera in URSS con un metodo molto fantasioso: l’epidemia letale sarà diffusa attraverso dei non meglio specificati “segnalatori” che verranno messi sulle antenne delle stazioni radio e contenenti migliaia di batteri. A una precisa frequenza elettromagnetica le fiale esploderanno e verranno irradiate su tutta l’Unione Sovietica. Gordon Storn viene ucciso non prima di avergli fatto firmare un falso testamento in cui lascia tutto il suo patrimonio all’Organizzazione, mentre al figlio Arthur e all’infida seconda moglie (innamorata di Cice) concede un semplice vitalizio. Arthur non sospetta assolutamente la truffa e, seguendo i falsi desideri testamentari del padre, si dedica a portare a termine il crudele piano di Cice. Ma il nipote di miss Mend è un figlio naturale di Gordon Storn, per cui lei decide di impugnare il testamento. In tutto ‘sto casino Barnet, Foghel e Tom tentano di capire cosa stia succedendo, fiutando che sotto questa strana eredità ci sia qualche intrigo che, se rivelato, potrebbe renderli giornalisti famosi. Riescono a scoprire i piani dell’Organizzazione, ma non possono evitare che il piccolo John venga avvelenato (e credo che nessuno spettatore se lo sarebbe mai aspettato: l’Organizzazione è veramente efferata). Poi Cice uccide l’ingegnere Berg che avrebbe dovuto andare a Leningrado per aiutare i sovietici: lo sostituisce Arthur Storn, con l’obiettivo di piazzare le capsule pestifere sulle antenne delle stazioni radio della città. A Leningrado intanto arrivano tutti i nostri eroi, intenzionati a smascherare il complotto. Rocambolesche avventure, botte da orbi, colpi di scena e alla fine la polizia sovietica riesce ad aggiustare tutto. Cice fa un orribile fine, così come il redento Arthur o la vedova Storn. Insomma, come tradizione vuole, i cattivi vengono fatti tutti secchi, mentre i vivi ritornano felici negli USA dopo aver manifestato la loro solidarietà al popolo russo. E il muscoloso Barnet corona il suo sogno d’amore con Vivian. E questo gran casino è solo il breve sunto, perché, per arrivare alle oltre quattro ore di proiezione (il film sembra in realtà un serial di tre puntate), tutte le vicende sono arricchite da altri accadimenti meno importanti. Miss Mend è un’opera interessantissima per molti motivi. Per quanto immatura e in taluni casi un po’ infantile, presenta temi che Barnet svilupperà meglio in seguito. A fianco di drammatiche e avventurose vicende convive spesso un umorismo sfrenato; la coerenza narrativa è talvolta tralasciata in favore del colpo di teatro; l’azione domina le vicende e il film risulta un formidabile pastiche di situazioni diverse che risentono molto del cinema americano, ma trattate tutte in maniera molto sovietica. Esemplare al riguardo la morte del piccolo John: ha tra le mani una mela avvelenata e se la palleggia per qualche minuto con un grasso poliziotto che sembra uscito da una comica di Chaplin. Lo spettatore trepida e sghignazza mentre la mela passa di mano: siamo tutti sicuri che, forse, al limite, sarà il ciccione a mangiarsela… No! E il pupo schiatta tra le urla dell’eroina Vivian. E poi la “ricostruzione” degli USA, la recitazione atletica di Barnet e quella nervosa di Foghel (attore feticcio dei primi film di Boris), la figura intensamente volitiva di Vivian Mend (un’americana che incarna gli ideali del socialismo: sana, coraggiosa e indipendente), la fratellanza internazionale, l’amore-odio nei confronti degli yankee, la tesi (romanzesca, ma è già un segnale) del complotto mondiale anti-bolscevico, la convivenza tra linguaggi alti e bassi (espressionismo e avanguardia a fianco di moduli narrativi del cinema “commerciale”)… Insomma, ce n’è per tutti i gusti e, anche se ho già scritto un mare di cazzate, non ho reso conto assolutamente della ricchezza di questo film incredibile. (Vhs; 7/11/97)

115-Il sapore della ciliegia di un ostico Abbas Kiarostami, Iran 1997

Arrivo al cinema sentendomi come se avessi divorato una porchetta e dovessi essere giudicato da un tribunale islamico. Sono stanco, nervoso e preoccupato e non so come reagirò all’ormai annuale appuntamento con il film iraniano che ogni cinéphile occidentale deve subire. Da qualche anno, ormai, il cinema iraniano miete consensi nella critica mondiale e vince pure un sacco di trofei nei vari festival. Secondo me i giurati vedono questi film girati con due lire, pensano che con i loro compensi si potrebbero girare venti poetici film iraniani, si fanno prendere da lancinanti rimorsi e premiano l’incomprensibile prodotto. Durante il primo tempo ho avuto circa tre abbiocchi (il classico “abbiocco iraniano”, vedi la recensione n°241 de Lo sguardo mutilo) in cui ho sognato, nell’ordine, un pasdaran della rivoluzione che mi minacciava, poi Khomeini che mi ammoniva, infine Rushdie che mi esortava a scappare. La vicenda è presto detta: il signor Badi vuole suicidarsi e cerca qualcuno che lo seppellisca. Nel primo tempo tenta inutilmente di convincere tre persone: secondo la migliore tradizione di Kiarostami il dialogo è un rosario di domande insistenti e, non bastasse, uno degli interpellati è pure un po’ sordo e le domande se le fa ripetere. Devo dire che sono arrivato all’intervallo veramente esacerbato. Poi, un po’ perché ero più sveglio, un po’ perché secondo me il film cresce, ho apprezzato di più. Il signor Badi convince finalmente un tizio ad aiutarlo, ma il poetico racconto di quando anche il tizio stava per suicidarsi (per poi desistere a cospetto della bellezza della natura, di fronte al sapore della ciliegia), forse lo farà rinunciare. Dico “forse” perché dovete vedervelo fino in fondo: troppo comodo leggersi qui il riassunto e poi far finta di averlo visto. Bravi attori e stupenda la fotografia autunnale. Però pericoloso, eh. (Cineclub Lumière; 10/11/97)

of44.jpg116-Ratataplan di Maurizio Nichetti, Italia 1979

Che emozione! Ratataplan l’avevo visto una prima volta all’uscita e poi circa dieci anni fa. Da allora nisba e il ricordo s’era fatto nebuloso: era veramente bello o era la mia memoria a essere indulgente? Era un buon film, sí, ora ne ho le prove. A essere pignoli non è che sia scritto troppo accuratamente e si ha l’impressione (e la prova) che gli episodi che compongono il film siano appiccicati un po’ alla carlona, ma, detto tra noi, chi se ne frega. Nichetti interpreta Colombo, uno stralunato e ingegnoso tizio che fa il cameriere sul monte Stella e che ha appena sostenuto un fallimentare colloquio di lavoro: scartato perché troppo fantasioso e creativo. Vive in una vecchia casa di ringhiera milanese a contatto con un’umanità stramba; sul cortile si affaccia una scuola di ballo e c’è un andirivieni di personaggi osservati da un immobile vecchio perennemente seduto in mezzo al cortile; e poi una miriade di scatenati bambini figli di una madre puntualmente incinta e intenta a urlare “Salvatoreeeeh… Taninooooh…”. E ancora: la Finocchiaro che non fa altro che trafficare con stracci e roba usata, Quelli di Grock (di cui fa parte anche Colombo) che stanno allestendo uno spettacolo e infine Edy Angelillo di cui Nichetti è innamorato. La vita scorre tra un cocktail miracoloso che salva un capitano d’industria, uno spettacolo teatrale che finisce con una ingloriosa fuga e un catastrofico approccio tramite robot alla Angelillo. Poi, chi l’avrebbe mai detto, Nichetti trova l’amore con la Finocchiaro. Con una comicità memore della lezione di Chaplin, Keaton e Tati, Nichetti costruisce un racconto esile, ma ricco di trovate e situazioni. Non tutto è memorabile, ma esordi così freschi in Italia non se ne sono visti più per un pezzo. (Vhs; 11/11/97)

118-Britannia Hospital di un imbarazzante Lindsay Anderson, Gran Bretagna 1982

Questo Britannia Hospital, di quel maestro del free cinema che è stato Lindsay Anderson, è una gran bella rottura di coglioni. Siamo in un ospedale di Londra in fermento per molti motivi: una folla di dimostranti vuole la testa di Ngami, un ridicolo dittatore africano che nella clinica ospedaliera ha trovato un compiacente rifugio, e, mentre si attende la visita della Regina, un pazzo chirurgo tenta per l’ennesima volta l’esperimento di Frankenstein. Si ride a denti stretti due volte in un’ora e quaranta e non si capisce quali siano gli intenti satirici del regista dal momento che sfotte indistintamente tutti: i baroni della medicina, i politici, i dimostranti e le forze dell’ordine. Qualcuno dirà “è anarchico!”. E no, troppo comodo. In realtà un indizio Anderson ce lo dà: la scena del confronto tra pacifisti e poliziotti in assetto di guerra. Il tono narrativo, fino ad allora scanzonato, diventa drammatico e scarno, quasi documentaristico. Un manifestante porge un fiore a un poliziotto — pausa di sospensione — e PEM! Manganellata in faccia e serratissimo montaggio della carica che segue. Per quanto retorica, è l’unica scena decente del film e ha una chiara lettura politica: incredibilmente, nella guida telematica della videoteca dove ho affittato ‘sta porcata, c’è scritto che il film illustra gli inevitabili guasti cui porta lo stato sociale! Ma chi ha scritto i commenti, Pinochet? A proposito (di Pinochet): mi capita, dopo la già tediosa visione del film testé commentato, di incappare nel pelatone con le orecchie di Dumbo che lamenta: “Ué, mi hanno fatto il ribaltone, non mi hanno permesso di lavorare, sto facendo la migliore opposizione di sempre, la mamma m’ha sempre detto di diffidare dei comunisti…”. E ancora “consociativismo, lottizzazione del parastato, magistratura randello del PDS, ce l’hanno tutti con me…”. Wow: questo è cinema! (Vhs; 12/11/97)

of45.jpg119-Ultimo tango a Parigi di un Maestro che trascende il tempo, Italia/Francia 1972

Diciamocelo subito: Ultimo tango a Parigi m’è di nuovo piaciuto e molto, con alcune cose che potrei pure criticare, ma non ne ho nessuna voglia. Preferisco riferire alcune tra le lamentele del folto pubblico: è un film declamatorio, datato come stile e come enunciati… E io rispondo che è troppo comodo ricorrere sempre allo stesso ritornello: è “datato”. Zabriskie Point è datato, quell’altro è datato e bla, bla. Se Bertolucci, e tanta critica e tantissimo pubblico (altro che Il ciclone, conti alla mano), credevano in quello che si diceva nel film, se la società post-sessantottina credeva (o credeva di credere) nel libero amore – senza nomi ma solo con i corpi -, se la famiglia, memori delle teorie di Cooper, era vista come un’istituzione sodomizzante e se i figli di quell’epoca si chiamavano Rosa o Fidel… beh? E allora? Sono stufo dell’accusa di “datato” a qualunque film che non sappia reggere il peso degli anni e del mutare di una società in continua evoluzione. Cos’è “datato”? Tutto ciò che non si adegua al pensiero di oggi? Ma scusate: Giotto è datato perché non ha capito una beneamata minchia della prospettiva? Uno dei tanti valori di questo film straordinario risiede proprio nell’essere documento di un’epoca lontana e contemporaneamente, qui riusciamo ad essere anche avanti, giacché in questo paese c’è stata una regressione politica e sociale che fa sembrare Ultimo tango un film di fantascienza. È un film paradigmatico delle aspirazioni libertarie, delle confuse teorie, della sfrenata e disperata voglia di cambiare la società, la politica e il nostro mondo di relazioni. Ed è stupendo, perché sa restituirci perfettamente questo sogno negato (e il film non vuole essere per niente rassicurante, con il suo finale amaro). Ed è splendido per Marlon Brando stretto nel suo cappotto di cammello. Ed emozionante perché il sax bruciante di Gato Barbieri canta l’utopia e la Schneider, così ubertosa, carnosa e irsuta, è un prorompente e scontroso simbolo sessuale. E poi per Parigi, livida e bellissima, e per quella casa vuota da cui ammirare il mare di tetti grigi. Questo è un film immenso, fotografato scandalosamente bene (con la perdonabile chicca di un operatore riflesso in una finestra, nell’ultima scena… ma forse è una firma) e recitato superbamente. Poi, posso capire che Bertolucci sia da prendere o lasciare. Ma io non ho dubbi: prendo, altroché se prendo. Concluso il delirio, già che ci sono cito l’amata Zia Luisa che, all’epoca, vide il film due giorni dopo l’uscita, pensando con discreta lungimiranza “ora o mai più”. (Cineclub Lumière; 13/11/97)

122-Ovosodo di Paolo Virzì, Italia 1997

Durante la proiezione ho avuto dei momenti d’insofferenza, ho avvertito qualche sfilacciamento nell’impianto narrativo e non sempre ho apprezzato le svisate comiche di Virzì. Però, finito il film, ero soddisfatto. Forse per l’identificazione col personaggio, forse perché si vedono pochi film italiani decenti, forse perché, una volta tanto, avevamo davanti un prodotto con dignità internazionale. Dico “avevamo” perché con me, al Lumière, c’erano, al loro esordio di sempre, Pitta e Franzi, due vecchi compagni di liceo. In fondo, come fai a non voler bene a Piero, figlio della Livorno operaia, uno che ha vissuto il nostro mundial, i nostri anni scolastici e che è cresciuto con i fumetti di Andrea Pazienza e Corto Maltese. E poi c’è una regia che, finalmente, sa mescolare amarezza e humour nel racconto di un’adolescenza, una regia che ha il coraggio, un po’ fuori dagli schemi, di raccontare l’anticonformismo conformista di tanti figli di papà che ciondolano al liceo, all’università e nella vita, sempre al sicuro del protettivo cono d’ombra paterno. La sceneggiatura funziona e affronta tanti temi, alcuni meglio, altri più velocemente, ma costruisce un ritratto generazionale convincente, forse non condivisibile o già visto, ma “concluso”: si sente la temperie culturale giovanile, la puzza di piedi, il senso di amarezza per questi anni… Noi siamo piccoli, ma cresceremo: bravo Virzì, dài. (Cineclub Lumière; 16/11/97)
P.S.: sei mesi dopo la visione di Ovosodo mi capita tra le mani Sturiellet di Andrea Pazienza, che non rileggevo da anni. Sorpresa! C’è una storia disegnata dal nostro fantastico artista esattamente identica a un episodio che si vede nel film di Virzì… Come vogliamo considerare la faccenda: omaggio o furto?

(Continua – 4)