di Sandro Moiso
[Sandro Moiso, autore del romanzo “in tre canti” di cui iniziamo la pubblicazione, è piemontese ma vive da molti anni all’Isola d’Elba, dove insegna nei licei.]
Eravamo giovani treni lanciati in corsa.
Eravamo innocenti trickster, abili bricconi divini.
Eravamo surfisti incoscienti che cavalcavano onde grandi
più del mondo che ci aveva generati.
Eravamo la vita in tutto il suo fulgore.
Hanno fatto di tutto per ucciderci.
Estate 1975
Estate 1975.
La strada si apriva davanti a noi srotolando paesaggi che ci rimandavano a Sergio Leone, Sam Peckinpah e John Ford. D’altra parte la sacra triade del western era stata per noi la vera scuola quadri. Anche se, qualche anno prima, qualcuno aveva cercato di rinchiuderci in stanze grigie dove si parlava dei trionfi economici dei compagni cinesi o della guerra civile in Francia riletta da Marx.
Destinazione Lisbona, dove la rivoluzione c’era davvero.
Dove giovani militari dalle barbe incolte e dai capelli lunghi avevano smesso di far la guerra ai popoli dell’Angola e del Mozambico per girare i fucili verso il proprio governo.
Quello ci piaceva, sì. Più dei discorsi di coloro che là ci avevano inviati.
Simpatici quei compagni: scherzavano col fuoco, tanto a bruciare saremmo stati noi.
Poi dopo qualche anno sarebbe bastato chiamarsi fuori, dire “noi no, non c’entriamo, la guerra l’hanno fatta gli altri, quelli del servizio d’ordine, i violenti, gli incolti, gli indisciplinati”.
Già, i leader della sinistra extra e ultra: colti, di buona famiglia, con studi seri alle spalle.
Erano già, fin dall’inizio e senza saperlo, pronti a cogliere l’occasione.
Noialtri anteponemmo sempre, alle loro inutili carriere, un altro Seize the time, con il profumo delle pantere nere.
Carriere che poi non sempre pagarono.
E nemmeno le raccomandazioni.
Rinnegando la propria gioventù avrebbero finito col farsi male da soli.
Rua do Prior do Crato, 40 forse 41
Rua do Prior do Crato, 40 forse 41.Una grande villa appartenuta alla famiglia Espírito Santo.
Lo spirito santo delle grandi banche naturalmente.
Lo spirito santo era stato separato dal padre e dal figlio ed era stato esiliato, in Brasile.
Poi da lì sarebbe tornato a riprendersi tutto, con gli interessi.
Chiedetelo ai portoghesi di oggi, ve lo diranno.
Torino — Lisbona, 2500 chilometri, in tre su una Dyane 6.
La villa: quaranta stanze, scale in mogano, pavimenti in mogano, giardino e scalone ad anfiteatro.
Un gentile omaggio del COPCON (1) alla nostra organizzazione.
Ma necessitava di qualche restauro: quello avrebbe dovuto essere il nostro lavoro politico sul fronte occidentale. Lo striscione però c’era già, appeso al terrazzo.
Associação de Amizade Revolucionária Portugal — Italia.
Subito dopo il Monginevro i freni si erano rotti.
L’avventura iniziava, come sempre, sotto cattivi auspici. Ma noi non ce ne accorgemmo mai.
Tra il tempo degli dei e quello degli uomini c’è stato quello degli eroi.
Ed essi ridevano. Spesso e per qualsiasi motivo. Anche nell’ora più nera.
Se ci fu qualcosa che ci avvicinò quindi agli eroi fu il riso. Già, una volta ridevamo sempre.
Ridevamo anche durante i picchetti notturni alle porte della FIAT.
Il sindacato non ci vedeva di buon occhio, ma facevamo comodo. Se no dalle undici di sera alle otto del mattino, d’inverno, in quanti sarebbero rimasti ad attendere i crumiri?
Con i fuochi accesi, come le puttane lungo i viali periferici, attendevamo l’ora più buia che, come ci rammentava David Crosby, è sempre quella prima dell’alba.
Eravamo già in ritardo, appena partiti.
Torino — Lisbona: ci erano stati concessi tre giorni per giungere a destinazione.
Altri americani ci accompagnavano verso ovest. Jack Kerouac, Dennis Hopper, Richard Sarafian.
La triade del viaggio senza ritorno.
Go West, young boy! Anche noi a correre verso il nostro punto zero.
I freni li riparammo il più avanti possibile.
Comunque non avremmo potuto percorrere tutto il Midi soltanto continuando ad aggiungere olio nell’impianto. Troppo costoso.
Eravamo militanti della rivoluzione a tempo pieno e i costi che ne derivavano erano tutti a nostro carico.
Nei mesi precedenti avevo lavorato temporaneamente come postino.
In sella a un vecchio ciclomotore, avevo percorso le strade della collina e del centro storico.
La gara di sopravvivenza ingaggiata con i cani da guardia delle ville sabaude e con le petulanti portinaie degli edifici del centro mi aveva permesso di racimolare ciò che sarebbe poi bastato a mantenermi come inviato speciale all’estero.
Quella prima notte dormimmo da qualche parte, nel buio, prima della frontiera.
Ci eravamo concessi una zuppa di mare e del muscat in qualche cittadina sul bordo di stagni salmastri. Il vino ci avrebbe accompagnato sempre. Nel viaggio, nell’amore, nel riso e nell’oblio.
Ancora per qualche tempo avremmo lasciato ad altri la marijuana, l’hashish, gli acidi e l’eroina.
Quest’ultima avrebbe costituito il vero punto zero per molti di noi.
“Mesa Verde, stazione di Mesa Verde!”
“Mesa Verde, stazione di Mesa Verde!”
Con quel richiamo, lanciato da Andrea, ci eravamo precipitati giù dal treno, un anno prima, nella tranquilla stazione di Monterosso.
Pavese ci aveva già insegnato che l’America è un territorio dell’immaginario, che può essere ovunque. Anche alle Cinque Terre.
“Giù la testa” ci aveva esaltati.
Chi leggeva Mao portava l’eskimo, chi si ispirava a Leone lo spolverino chiaro e la coppola.
James Coburn divenne allora, senza saperlo, l’esempio da imitare del dandysmo rivoluzionario.
E poi nel suo film Sergio Leone aveva fatto dire ad uno dei protagonisti che “la Rivoluzione non è un pranzo di gala”. Il cerchio era chiuso.
Lo sguardo triste da irlandese tradito ci aveva segnati.
Non potevamo però ancora sapere quanti tradimenti avremo poi dovuto affrontare.
Quanti amici sarebbero morti e quanti avrebbero preso un’altra strada.
Le nostre storie tra Mirafiori e il West. Non potendo ridisegnare le carte geografiche, ridisegnammo comunque le mappe dell’immaginario. Fu questo a renderci a lungo indomabili.
E poi le figure che ammiravamo di più sembravano uscite da un western.
Il Che e Camilo Cienfuegos, con le loro pistole, le barbe incolte e i cappellacci in testa ricordavano gli eroi del West riletti in chiave politica.
Gian Maria Volontè avrebbe potuto essere uno di loro.
Quien sabe? Fu un western a chiederlo nel ’66 e a invitarci ad acquistare dinamite.
Il campeggio di Mesa Verde, a picco sul mare, fu innaffiato dal vino.
Nell’oscurità della notte, in due, percorremmo di corsa i ripidi sentieri liguri per portarne altro agli amici, dopo aver finito la prima scorta. Le cantine di Corniglia e Manarola ci furono benigne.
La mano di un dio sconosciuto fermò la caduta di Mario nel vuoto sottostante, su un cespuglio.
Quella notte dormimmo tutti insieme, abbracciati, sotto le stelle di marzo.
El ejército del Ebro
“El ejército del Ebro…”
Non potevamo fare a meno di cantare la vecchia canzone della Guerra Civile mentre attraversavamo i Pirenei. Una valle stretta dopo le Perthus. Hole in the Wall (2).
Francisco Franco stava per morire, ma non lo sapeva ancora, mentre Carrero Blanco, il suo successore designato, era già volato via, sopra i tetti di una città spagnola.
La Guardia Civil sentiva che il proprio potere avrebbe cominciato a declinare da lì a poco.
Nervosi, i militi controllavano tutto e tutti.
Chiusi tra due rivoluzioni che quarant’anni di repressione non erano riusciti ad evitare.
Altri amici, partiti in seguito da Torino, furono colti, nei pressi di Malaga, a dormire all’aperto con i soli sacchi a pelo. A botte e calci finirono in una cella e in Portogallo non arrivarono più.
“Ay Carmela, ay Carmela…”
Nei vicoli di Barcellona ci perdemmo in cerca di una paella.
Non vi fu altro tempo da dedicare alla città dai bagliori anarchici.
La Carretera Central ci attendeva. Srotolando ancora davanti ai nostri occhi giganteschi tori neri e filiformi profili di uomini col sombrero.
Per una volta, almeno nel ricordo, sia benedetta la pubblicità. E lo jerez.
Una strada diritta, su altipiani bruciati dal sole.
Traverse laterali, sterrate, che si perdevano nel nulla.
Un sole cocente. Visitammo molte cantine. Bevemmo molte cervejas.
Nella polvere alzata dal vento, lontana, vedevamo le ombre del Mucchio Selvaggio e dei combattenti di una guerra persa trentasei anni prima.
La destinazione per la notte era Guadalajara. Il mito della vittoria sui fascisti.
Le nostre palpebre si chiusero, mentre eravamo dispersi per terra, tra le auto di un grande parcheggio. Forse sognammo…
“El diez y ocho dia de julio, en el patio de un convento,
el Partido Comunista fondò el Quinto Regimiento…” (3)
Solo più tardi avremmo imparato, a nostre spese, la vera funzione dei comandanti Carlos.
I boschi prima di Madrid ci riservarono l’ultima ombra.
Poi non fu altro che calura, rocce rosse e terre gialle. Lo spettacolo era impagabile, ma non potevamo più fermarci.
Nel sole del tardo pomeriggio ci rotolammo nelle basse acque del Rio Guardiana, vicino ad un ponte romano. Alcuni bambini ci guardavano ridendo. Dall’altra parte si entrava in Portogallo.
Franco stava morendo
Franco stava morendo.
Ma non per questo smetteva di uccidere.
La bocca continuamente tesa nello sbadiglio, gli occhi costantemente lacrimosi, i movimenti rigidi e indecisi, nascondevano ancora una volontà vendicativa e omicida che nel corso del 1975 si manifestò al suo massimo grado.
Dopo le esecuzioni dell’autunno di quell’anno organizzò, per il primo giorno d’ottobre, un’adunata oceanica per festeggiare il trentanovesimo anniversario della sua nomina a capo dello stato. Prese un colpo d’aria che lo portò definitivamente alla tomba cinquanta giorni dopo.
Per protestare contro una delle tante esecuzioni di quegli anni, Roma si era riempita di bandiere rosse e proletari in divisa.
Per contrastare le cariche dei carabinieri in coda al corteo, dal palco degli oratori fummo chiamati, da futuri non violenti, a schierarci su Via del Corso: “Torino, Milano, Roma, andate!”
Come gladiatori di un tempo fendemmo la folla, in fin dei conti la forma della piazza era quella di un circo.
Per un tempo infinito fronteggiammo le divise nere.
Moschetti e lacrimogeni da una parte, manici di piccone e chiavi inglesi dall’altra.
Sull’altro lato della strada, inquadrata nei primi cordoni di Milano, rividi Cosetta.
Sua madre aveva scelto quel nome tra le pagine del romanzo preferito.
Senza volerlo diede un corpo al personaggio più dolce di Victor Hugo.
La prima volta l’avevo incontrata durante un capodanno sull’Appennino tosco-emiliano.
Aveva un grande colbacco grigio, di coniglio. Il corpo minuto, gli occhi ridenti.
Nella casa dove viveva con gatti e compagni passammo giorni d’amore e d’allegria.
Il lunedì mattina, prima che io rientrassi a Torino, andavamo insieme a distribuire volantini agli operai che si recavano al lavoro tra le nebbie di Lambrate.
Com’era naturale in quegli anni, ci prendemmo e lasciammo più volte, per poi ritrovarci ancora.
Quando partii davvero per l’America, senza portarla con me, lei se ne andò a Londra.
Non la rividi più.
I suoi occhi avevano visto il cervello di Zibecchi (4) nella polvere e nel sangue. Lo conosceva Giannino. Chissà cosa hanno visto, poi, ancora.
Qualcuno a Torino ci aveva dato informazioni sbagliate
Qualcuno a Torino ci aveva dato informazioni sbagliate.
Così girammo in lungo e in largo per Lisbona, dopo aver percorso avanti e indietro il ponte del 25 Aprile, incerti tra la rua do Prior e la rua do Prior do Crato.
Bussammo al portone a notte fonda.
Ci aprì Franchino. S’era preso la scabbia dalla polvere della casa.
La scala di mogano, priva di balaustra, saliva ai piani superiori avvolti nell’oscurità.
Altre ombre ci vennero incontro nella luce incerta.
Erano due compagne argentine: una militava nei Montoneros, l’altra nell’ERP .
Di là dell’Atlantico la Tripla A di Lopez Rega e Isabelita aveva già iniziato il lavoro sporco che, poi, i generali avrebbero concluso nei minimi dettagli.
Pinochet aveva cominciato in Cile il gioco del massacro.
Ma, al confronto di quel che avvenne poi in Argentina, il suo era destinato a sembrare solo un riscaldamento, prima della partita vera.
Il Cile fu il pretesto per il lancio del “compromesso storico”, per l’Argentina ci fu solo silenzio, imbarazzato.
Nei giorni seguenti le nostre conoscenze internazionali si arricchirono.
IRA e autonomi tedeschi.
Tutti a sperare che il Portogallo segnasse una nuova tendenza in Europa.
Il sogno e l’utopia hanno gli occhi grandi.
Sono sempre occorsi strumenti straordinari per chiuderli.
Arrivarono anche altri italiani.
Da Roma, Pisa e dal Canton Ticino. Dalla Germania giunse Carlo, ambiguo già allora.
Alla guida di una vecchia Mercedes color panna e dopo esser stato trattenuto a ogni frontiera che aveva attraversato.
Con tutti i nuovi arrivati avremo poi riso, con lui no.
Il nostro parco macchine si stava ingrandendo.
La Dyane, una 127, la Mercedes e un paio di Renault 4.
Solo Donato arrivò in treno.
Anche lui da Torino, ma con vent’anni in più. Falegname, comunista, gran giocatore d’azzardo, donnaiolo, sparaballe, falso partigiano, finto operaio, grandissimo cuore.
Sarebbe stato il capo cantiere, ma il lavoro per far assomigliare quell’enorme edificio a una sorta di sede politica sarebbe stato enorme.
Oggettivamente al di sopra dei nostri mezzi e delle nostre capacità.
Nello staccare dai muri la vecchia carta da parati, comunque, facemmo sempre molta attenzione.
Mia madre aveva sempre paura di tutto
Mia madre aveva sempre paura di tutto.
Soprattutto per me.
Anche nei suoi ultimi anni, quando il Parkinson e i medicinali a base di dopa avevano iniziato a distruggerle la mente, mi sentiva cantare e urlare nella via sotto casa.
Sapermi estremista e in Portogallo non l’aveva certamente rassicurata.
I temporali e i fulmini la terrorizzavano.
Così quand’ero piccino, durante i furiosi temporali estivi, chiudeva tutti gli scuri e mi diceva che stava passando il diavolo in carrozza.
Era nata in Pennsylvania, nell’emigrazione.
Visse poi nelle campagne piemontesi, in un mondo ormai scomparso.
Conobbe la guerra da vicino.
Un giorno passò ore in un fosso a lato della strada, cercando riparo dai colpi di mitraglia e mortaio che partigiani e tedeschi si scambiavano a distanza senza colpirsi.
Colpi che cadevano lì, vicino a lei.
Anche quella fu resistenza.
A giorni alterni partigiani e tedeschi prelevavano, senza pagare, ciò che serviva dal forno del nonno.
Si rischiava di finire come a Villadeati, dove i tedeschi infuriati avevano fucilato i capifamiglia e il parroco che si era offerto al loro posto.
La paura era scesa sui colli del Monferrato.
Forse da lì derivavano i suoi timori.
Eppure fu l’unica a recarsi da sola al comando tedesco locale.
“Con le gambe molli” come diceva lei.
Per ricevere notizie del futuro marito di mia zia, prelevato e torturato perché aveva “le mani belle”.
Mani non da contadino, ma da dongiovanni, mani che piacevano alle donne.
Lo avevano sfigurato.
Il Joe non era mai stato partigiano, amava solo curare il proprio aspetto fisico.
Nella logica impazzita della guerra ciò non poteva essere ammesso.
Era una colpa che andava punita.
Negli anni caldi tra il ’68 e il ’77, lei ebbe sempre timore che potesse capitarmi qualcosa del genere. Morì confondendomi con mio padre e suo fratello.
Tek e mogano erano i nostri materiali
Tek e mogano erano i nostri materiali.
Dalla caserma del Genio Militare il caporale Amparo aveva condotto con sé un autocarro carico di tegole e legnami provenienti dalle ex-colonie.
Con il legname avremmo finito col fabbricare le panche più pesanti del mondo, mentre le tegole furono accatastate sul solaio in attesa di una sistemazione generale del tetto.
Quando nel 1980 ritornai a Lisbona il peso delle tegole aveva trascinato con sé il solaio e i tre piani sottostanti.
Sulla facciata dell’edificio svuotato dal crollo il vecchio e scolorito striscione aveva però resistito.
Oggi, al posto di quell’edificio rosa e bianco, si erge un lussuoso condominio verdino.
Lo striscione non c’é più, ma nemmeno i nomi dei nuovi proprietari compaiono sui campanelli.
Hanno costruito appartamenti di lusso anche in quella parte di edificio che avevamo adibito a latrina. Dal fango nascono i fiori, dalla merda gli alloggi dei ricchi.
In realtà l’edificio prescelto come cesso si trovava in fondo al giardino. Era la ex-casa del custode.
Ora costituisce un’abitazione a sé stante ricca di uffici e signorilità.
Il dépliant che ne ha accompagnato la vendita sicuramente taceva la storia di quei pavimenti.
In quelle stanze buie, sporche e puzzolenti rinchiudemmo per una notte Paolo e Vittorio.
Erano due gran rompicoglioni e figli di papà che erano giunti in sede verso la fine d’agosto.
Volevano trascorrere qualche giorno di vacanza a Lisbona e ci avevano chiesto un posto per dormire.
Li accogliemmo di mala voglia.
Alle tre del mattino un compagno di Roma li svegliò e con aria da cospiratore li accompagnò nella casa in fondo al giardino.
Là li informai che era in corso un colpo di stato della destra e che avrebbero dovuto vegliare dalle finestre per poi avvertirci del minimo movimento sospetto.
Gli dissi anche che le armi sarebbero state consegnate più tardi.
Loro passarono la notte nel terrore, camminando al buio sulla merda.
Noi, ancora una volta, la passammo a ridere dello scherzo, senza immaginare quanto fosse ormai realmente vicina la fine dell’esperimento portoghese.
Le rivoluzioni degli anni sessanta e settanta vennero di primavera, i colpi di stato d’autunno.
Il mattino seguente, assonnati e sporchi, se ne andarono adducendo motivi d’urgenza.
Qualche anno dopo Paolo ricambiò lo scherzo.
Raccontò a quelli con cui si era dato alla latitanza in Francia che sarebbe andato ad arruolarsi nella Legione Straniera.
Invece li andò a denunciare, costituendosi. In realtà non era nemmeno sulla lista dei ricercati.
A ognuno il suo modo di scherzare.
1) Comando Operativo Continentale, posto sotto il comando del generale de Carvalho era di fatto il braccio armato dell’ala radicale del MFA, Movimento delle Forze Armate.
2) Nome del rifigio della celebre banda di rapinatori americani nota con il nome di Mucchio Selvaggio. Ne facevano parte Butch Cassidy e Sundance Kid.
3) Parole tratte da El Quinto Regimiento, inno del reggimento omonimo che combatté contro i franchisti agli ordini del comandante Carlos alias Vittorio Vidali, dirigente del PCI e stalinista di ferro, distintosi poi anche nell’eliminazione di militanti anarchici e della sinistra anti-stalinista.
4) Giannino Zibecchi, travolto e ucciso, da un mezzo della polizia, a Milano nell’aprile 1975 durante gli scontri seguiti all’uccisione di Claudio Varalli.
(1-CONTINUA)