di Alberto Prunetti
Il coprifuoco è un ottimo modo per soffiare sul fuoco.
È questa la prima cosa che mi è venuta in mente sabato 4 luglio quando, in una sala d’attesa della caotica stazione degli autobus di Bangalore, India, ho sentito alla radio che nella città di Mysore erano in corso violenti combattimenti tra musulmani e indù. Tutto era iniziato qualche giorno prima, quando due militanti del BJP, il partito fondamentalista indù, erano stati accoltellati. A quel punto una massa di fanatici indù è scesa per strada, subito confrontata da un gruppo di musulmani. L’intervento della polizia, che ha aperto il fuoco contro i manifestanti, è servito solo a peggiorare le cose. Risultato: 4 morti, un uomo ancora in fin di vita, circa venti feriti e un centinaio di arresti. Non è chiaro ancora quali morti siano imputabili agli insorti e quali siano state causate dalla polizia.
Per “alleviare” la tensione le autorità hanno pensato bene di proclamare il coprifuoco notturno dopo le 21 con divieto totale della circolazione, di chiudere negozi e alberghi, di fermare ogni mezzo di trasporto pubblico mentre per qualche giorno verrà vietato il diritto di assemblea in un numero superiore a 5 persone. Un provvedimento che dopo tre giorni è stato ritirato, per poi essere reintrodotto giovedì 9 luglio, quando il centro è stato il teatro di scontri tra un migliaio di manifestanti e la polizia, che ha arrestato duecento persone.
La cosa non mi ha fatto piacere, perché avevo in mano proprio un biglietto per Mysore.
Inoltre, mi ha dato l’ennesima prova di quale tremendo gioco delle parti stiano montando i vari attori, organizzati in racket più o meno legali, che smuovono le braci dei meccanismi identitari.
Da una parte abbiamo i fondamentalisti del BJP. Non mi stupisce che qualcuno volesse regolare con loro qualche conto. Il BJP è un partito conservatore indù che sta praticando, su scala ampia e radicale, le tecniche delle nuove strategie identitarie di destra: invenzione della tradizione, revisionismo storico, forsennato localismo. Non lontano dalle loro posizioni si colloca il movimento dell’ Hindu Shiv Sena, i cui settari militanti qualche mese fa non si fecero scrupoli a entrare in un bar del centro di Mangalore, sulla costa del Mar Arabico, per tirare fuori le ragazze intente a bere trascinandole per i capelli, picchiandole e dando loro delle puttane. Sono forme di un fanatismo indù autoritario, intollerante, bigotto, che nasce dalla sensazione di crisi e di frustrazione della casta dei bramini, spesso sorpassati dalle trasformazioni neoliberiste del paese. Un fondamentalismo che lavora molto sulla costruzione di una identità fittizia, che nasconde il meticciato culturale di cui è stata protagonista per millenni l’India. Un revanscismo che non è altro che il rovescio della medaglia del fondamentalismo musulmano che i militanti del BJP pretenderebbero di attaccare.
Gli estremisti musulmani poi non brillano certo per il loro spirito libertario, ma probabilmente qui in India chi si riconosce nell’islam è più spesso vittima che carnefice: è la vicinanza dalle leve del potere quello che rende un racket religioso più o meno odioso (in tal senso andrebbe vista la situazione nella zona di Jammu e Kashmir, dove la presenza musulmana è più rilevante, su cui non ho informazioni dirette). Non voglio neanche cadere io stesso in una trappola identitaria: dividendo grossolanamente gli indiani secondo la loro affiliazione religiosa e poi magari separando alla buona il grano dal loglio, come si fa spesso quando si parla di estremisti e tolleranti. Di certo ci sono due elementi da considerare. Primo: il fatto che molti musulmani in India pagano sulla loro pelle le politiche di leader fondamentalisti che magari loro neanche riconoscono. Secondo: che l’appartenenza religiosa non è per molte persone un elemento fondante, ovvero che c’è gente che ancora si considera prima un calzolaio o un abitante del Bengala che un fedele di una religione monoteista rivelata da un profeta tanti anni fa. Ed è contro questa logica ibrida che i vari fondamentalismi si danno da fare. Perché avere un mondo di comunità chiuse – dove gli individui sono classificati prima di tutto come fedeli di un credo religioso e poi come muratori, o ristoratori, o sindacalisti – è un mondo che si governa meglio.
Quanto alla polizia indiana, si impegna a dar pessima fama a un mandato poco limpido in qualsiasi angolo del pianeta. In situazioni del genere la sua strategia è quella di lasciar correre o di sparare nel mucchio, probabilmente con un po’ più di riguardi per le componenti indù. Quello di Mysore non è comunque l’unico episodio per cui le forze dell’ordine indiane si ritrovano di recente sulle pagine dei giornali dall’Himalaya al Tamil Nadu. Proprio in questi giorni alcuni poliziotti di Delhi hanno fatto il tiro a segno contro uno studente di ingegneria di 22 anni, Ranbir Singh, ucciso a sangue freddo per divertimento mentre andava in bicicletta. Nel suo corpo sono stati trovati sette proiettili. Dopo aver giocato col bersaglio, gli agenti hanno montato una farsa: il ragazzo avrebbe rubato la pistola a un poliziotto, sarebbe poi scappato in bicicletta ingaggiando un confronto a fuoco, terminato con la sua morte. E non si tratta di un episodio raro. Proprio due giorni fa qui a Bangalore un autista di autorickshaw, Manjunath, è stato portato in un commisariato per un banale litigio collegato alla restituzione di un debito. È uscito dopo qualche ora, ormai cadavere, pestato a morte dagli agenti.
Tornando a Mysore, va detto che in passato situazioni simili sono scappate di mano ai vari imprenditori morali del fanatismo religioso. I communal riot spesso iniziano per una testa di porco lasciata sulla porta di una madrasa e finiscono con un pogrom di qualche migliaio di morti (come è successo nel 2002 nello stato del Gujarat). Per ora la situazione sembra stabilizzarsi. E va anche detto che l’India è comunque un esperimento multiculturale ben più radicato di quelli considerati da manuale, tipo il Canada o più recentemente la Gran Bretagna. L’India rimane, almeno per il momento, un laboratorio di identità plurime: architettura, cinema, politica, abiti, religione, filosofia, non c’è una dimensione culturale che non esprima un profondo sincretismo, un’intercultura vivente tra dimensioni permeabili in continua evoluzione. Rimane ineguagliato il caso del Kerala, dove convivono in tutta tranquillità ogni tipo di religione e a salvaguardia di tanto liberalismo c’è — horribile visu, almeno per i campioni italiani della fine delle ideologie — un partito marxista-leninista: è la falce e il martello quella che nel sud del continente garantisce sogni tranquilli a Krishna e Gesù Cristo, e a tutte le altre strane creature che condividono il loro strano olimpo.
Ma è proprio questo esperimento di dialogo interculturale ciò che gli imprenditori della paura vogliono interrompere. Ormai è evidente che per conquistarsi una fetta di potere il discorso del riduzionismo funziona benissimo. Di qui la produzione di discorsi identitari e securitari volti a una semplificazione manichea dell’esistente, su cui si fondano carriere politiche e partiti settari che si muovono con la logica di racket antagonisti più o meno legali. Un modo per fare egemonia culturale in tempi d’apocalisse.
Di certo, sono pessimi segnali. Ero andato via dall’India con le immagini dell’attacco di Mumbai, ritorno con queste scintille, piccole ma letali, a Mysore. Gli stravolgimenti imposti dal neocolonialismo finanziario, dal tira e molla delle delocalizzazioni, assieme alla distruzione delle microeconomie di villaggio nel nome della green revolution, stanno spingendo larghe masse di persone verso la disperazione. C’è chi si suicida, come i piccoli coltivatori distrutti dai debiti. C’è chi cerca la salvezza nell’emigrazione. C’è chi si rivolta contro il potere, bloccando i progetti devastanti del rampante capitalismo indiano (come i contadini che protestano contro la zona economica speciale che avrebbe dovuto ospitare una nuova fabbrica della Tata a Singur). C’è poi chi si attacca a uno dei tanti dei pronti a mettere la sciabola nelle mani dei disperati che si immolano per cause che non li rappresentano. In questa bolgia che ribolle di tensione, i racket che si spartiscono il potere escono rafforzati. Il fuoco è stato acceso anche in India, e temo che non basterà il monsone che in questi giorni si sta rovesciando su questa terra millenaria a spegnere l’incendio.
[Un mio intervento su tematiche simili è apparso su Carmilla in occasione dell’attacco di Mumbai dello scorso 26 novembre e può essere letto qui] A.P.