Autore del bellissimo e giustamente celebrato Balkan bang! (Perdisa, € 16; qui il sito ufficiale), Alberto Custerlina si propone come una delle voci più sicure del genere nero italiano. Scrittura rapida, scosse di suspence repentine, intrecci geopolitici complessi e – ciò che conta – più realistici di quanto sia possibile supporre, si accompagnano a una visionarietà che impressiona e a un’esotismo acido e fantasmagorico. Potenziale agente mutageno del thriller internazionale, questo autore è una delle scommesse già vinte del noir nostrano, sulla scia che va tracciando da anni Alan Altieri. Quanto a noi di “Carmilla”, siamo onorati di ospitare un racconto inedito di Custerlina, che ringraziamo per il permesso di pubblicazione.
La neve aveva cominciato a cadere quando la granata era saltata in aria. Bojan era stato sollevato da terra e scaraventato qualche metro indietro. Era caduto sul fianco ed era ruzzolato dentro una trincea profonda un metro e mezzo. L’impatto aveva rotto la crosta di ghiaccio e la melma liquida aveva impregnato la sua mimetica.
Rimase per un minuto in un limbo bagnato e freddo, riempito solo di dolore e rumori. Quando aprì gli occhi, il suo cervello registrò campi di colore marrone, bianco e rosso scuro. Il suo orecchio destro fischiava: un sibilo continuo e fastidioso. Tossì, si sollevò sui gomiti, tirò su col naso. Gli faceva male la gamba destra. Un male fottuto.
Appena la vista gli tornò normale, Bojan si contorse come un verme per guardare la ferita sulla coscia. Un pezzo di metallo sanguinolento spuntava dalla stoffa lacerata dei pantaloni. Lo lasciò dov’era. Si mise seduto. Respirò a fondo. Era intontito e dolorante, come se avesse preso una sbornia e poi fosse stato preso a bastonate.
Cercò il pacchetto di sigarette nelle tasche della giacca. Ne prese fuori una.
Se non trovo l’accendino m’incazzo.
Nella giacca, niente. Merda. Calzoni? Sì.
Sospirò. Accese e tirò come se fosse l’ultima della sua vita.
Cominciò a macinare pensieri.
I musulmani stavano arrivando. Irregolari affamati, incazzati come bestie. In lontananza si sentivano rumori di mitraglia e scoppi.
Un chilometro? Forse meno.
Si chiese se il bosgnacco che aveva lanciato la granata era morto. Doveva essere un esploratore. D’istinto, gliel’aveva ributtata indietro, non sapeva neanche come avesse fatto. Era scoppiata a metà strada. Era andata bene, gli sarebbe potuta scoppiare in mano.
Tirò la cicca. Faceva freddo. Alzò il bavero del giaccone.
Tirò di nuovo. Si guardò attorno. A destra, cadaveri. A sinistra, cadaveri. Qualche giorno prima, in quel posto, avevano respinto i bosgnacchi. A caro prezzo, come sempre. I corpi sembravano freschi, a parte il colore violaceo della pelle.
Sentì un rumore. S’irrigidì.
Un ansito.
Si tastò il fianco destro e scoprì di aver perduto la pistola. Si guardò attorno per vedere se c’era qualcosa d’utilizzabile. Un coltello, una pala.
Niente, la zona era stata ripulita. Merda.
Il rumore si fece più forte, come se qualcuno si trascinasse. Un gemito. Dal bordo della trincea sbucò una faccia barbuta.
Il bosgnacco. Merda.
Jusuf guardò il serbo seduto per terra, un metro e mezzo più in basso. Era ferito alla gamba destra, lo stava fissando e fumava.
Cazzo, cosa non avrebbe dato per una cicca. Quel serbo doveva essere il bastardo che gli aveva ributtato indietro la granata. Aveva sangue freddo, lo stronzo. E cicche.
Maledetti. Quanto li odiava i serbi. Sempre pieni di roba: armi, munizioni, cibo, sigarette, alcol.
L’alcol, però, l’aveva anche lui. Ieri, un contadino gli aveva riempito la fiaschetta di metallo con mezzo litro di rakija di ciliegie. Avrebbe potuto scambiare l’alcol con il fumo.
Merda, no. Ai serbi, solo piombo.
Bojan tirò la cicca e pensò che sarebbe morto. Ferito alla gamba, senza armi, completamente rintronato dall’esplosione, era impossibile offrire resistenza a quel porco musulmano.
Lo scrutò aspettando che tirasse fuori una pistola.
Ancora una tirata.
Il tipo, invece, rimase disteso, a guardarlo. Doveva essere rintronato dallo scoppio. Forse era ferito. Magari una scheggia se l’era beccata pure lui. Sarebbe stata una bella soddisfazione.
Merdoso bosgnacco.
Jusuf, gemendo a denti stretti, si tirò in avanti facendo presa sul bordo della trincea. Con un ultimo sforzo, si lasciò cadere dentro.
Si lamentò. Bestemmiò. Lanciò un urlo.
Si tirò sulle ginocchia, con la fronte nel fango. Prese fiato. Poi, lentamente si raddrizzò e si lasciò scivolare sul fianco, alla sinistra di quel serbo del cazzo.
Vide nero dal dolore. La scheggia doveva essere entrata in profondità. Perdeva sangue dal fianco. Chiuse gli occhi e respirò forte, aspettando l’emorragia che se lo sarebbe portato via.
Bojan lo guardò di straforo. Il tipo era finito proprio vicino a lui, mezzo metro sulla sinistra. Sembrava svenuto.
No. Si lamentava. Era ferito al fianco. Il sangue gocciolava sul fango frammisto a ghiaccio.
Ultima tirata e il mozzicone finì dentro una pozzanghera mezza congelata.
Jusuf si drizzò e si pulì il viso dal fango con la manica del giaccone mimetico. Si voltò a guardare il serbo. Subito gli colse la voglia di ammazzarlo, ma non per la granata che gli aveva restituito. Per tutto ciò che gli stronzi come lui avevano fatto in Bosnia.
Pensò al corpo di una ragazzina che aveva visto ieri l’altro: era nuda e tra le gambe aveva un buco largo un braccio. Rivide gli uomini trucidati, i vecchi picchiati a morte, il fuoco, le macerie e la disperazione sui volti della gente.
Tutta colpa dei serbi.
Maledetti.
Bojan osservò la faccia barbuta del musulmano e gli venne in mente la catasta di teste tagliate che avevano trovato a pochi chilometri da lì, più a sud. I bosgnacchi e i loro amici mujahedin avevano decapitato un’intera squadra di genieri.
Alcuni testimoni avevano riferito che una testa era stata usata come pallone, per giocarci a calcio. Gli avevano anche indicato quale: una massa globosa di pelle, fango, sangue raggrumato e capelli. Lui e gli altri del suo gruppo non vedevano l’ora di beccarli.
Magari questo figlio di puttana barbuto era uno di quegli stronzi. Se avesse avuto un coltello, l’avrebbe già sgozzato.
Pensò di saltargli addosso, per strozzarlo. Era ferito al fianco, sembrava debole. Forse ce la poteva fare.
Invece, esitò, non sapeva neanche lui per quale motivo.
C’era qualcosa di familiare in quel bosgnacco.
Jusuf guardò bene il serbo. La faccia non gli era estranea.
La barba sfatta e il fango non aiutavano, ma avrebbe scommesso la sua fiaschetta di rakija che quello stronzo l’aveva già visto da qualche parte.
Oppure, frastornato com’era, si sbagliava?
In fondo i serbi erano tutti uguali, con quella faccia da cazzo e l’aria strafottente perennemente stampata in volto.
Se non fosse stato così debole, gli sarebbe saltato addosso e l’avrebbe picchiato fino ad ammazzarlo.
Bojan scrutò il bosgnacco: «Ti conosco». Disse.
L’altro strinse gli occhi: «Ci stavo giusto pensando».
«Di dove sei? ».
«Sarajevo».
«Novi Grad? ».
«Sì». Jusuf aggrottò la fronte. «Oh, cazzo. Non sarai mica Bojan, no?».
E l’altro: «Cristo, non è possibile».
«Sono Jusuf».
«Jusuf. Jusuf Izetbegović».
«Esatto. E tu sei Bojan Mihailović».
L’altro annuì.
Entrambi cominciarono a fissare il fango.
Jusuf si lamentò e cambiò posizione.
E Bojan: «Sei ferito?».
«Al fianco, porca puttana. E tu?».
«Alla gamba».
«Sei fortunato».
«Un cazzo. La scheggia è grossa. Ho paura che se la tolgo, il sangue non lo fermo più».
«Io non lo fermo più già adesso». Disse Jusuf.
Bojan annuì. Rimasero in silenzio per qualche minuto, ognuno a chiedersi se dovesse offrire aiuto all’altro, ognuno a dirsi che mai e poi mai sarebbe stato lui il primo a fare quell’offerta.
Jusuf notò che la crosta ghiacciata sul bordo delle pozzanghere si stava riformando velocemente. La temperatura stava calando. Se fossero rimasti in quel posto, non avrebbero passato la notte. Si sorprese per aver pensato al plurale.
Ricominciarono a parlare nello stesso momento, come due ragazzini impacciati. Entrambi si fermarono. Jusuf fece a Bojan un gesto, come per dirgli di continuare.
E lui: «Vuoi una sigaretta?».
Jusuf fece cenno di sì.
La sigaretta passò di mano, poi l’accendino.
Tirarono ed espirarono quasi all’unisono. Due nuvole di fumo e condensa si fusero assieme.
Jusuf trafficò all’interno della giacca e tirò fuori una fiaschetta di metallo. La stappò e la passò al suo nemico. Il serbo sorrise, annuì, bevve un sorso e la ripassò indietro.
«Non ci manca niente, eh?» Disse Jusuf.
«No. Siamo a posto». Sogghignò il serbo.
Passarono due minuti. Le sigarette arrivarono al filtro, i mozziconi finirono a galleggiare sulla fanghiglia.
Altre due sorsate di rakija.
«Tua madre? ». Chiese Bojan.
Jusuf scosse la testa: «Un cecchino». Mormorò.
E Bojan: «Mi spiace». Pausa. «Mi ricordo il suo caffè. Mai bevuto uno così buono».
«Se lo faceva portare da Trieste».
L’altro annuì.
E Jusuf: «La tua famiglia?».
«Non lo so. Non ho notizie da mesi, temo il peggio. Tu hai notizie di qualcuno?».
«Ti ricordi di Izet?».
«Sì, come no. Testa di capra».
Jusuf sorrise: «Proprio lui. L’ho visto il mese scorso. Ha perso le gambe su una mina».
«Cazzo».
«Già».
Silenzio. Il vento portava i rumori dei combattimenti, sempre più deboli, sempre più lontani.
«Perché stiamo facendo questo, Jusuf? ».
«Non lo so. Non lo so. E’ tutta una merda».
«Io sono stufo. Ho il cazzo pieno. Lo sai cosa ho visto ieri?».
«Cosa?».
«Il nostro comandante che si faceva caricare sul fuoristrada una montagna di roba».
«Che roba?».
«Bottino. Roba presa dalle case della gente. Gioielli, stereo, televisori, cose di valore. Caricano perfino le lavatrici sui camion. Questi diventano ricchi, con tutta questa merda». Fece un gesto con le mani, come per abbracciare l’intera Bosnia.
Jusuf annuì: «I nostri fanno lo stesso». Disse.
La nevicata cominciò a infittirsi. Il cielo grigiastro si scuriva sempre di più. La notte stava per inghiottire il giorno.
«Ancora una?». Chiese Bojan agitando il pacchetto.
E Jusuf: «L’ultima».
«Hai deciso di smettere?».
Il bosgnacco lo guardò con un sorriso tirato.
L’altro ammiccò e gli mostrò il pollice alzato.
Quel gesto riportò Jusuf ai vecchi tempi, quando giocavano a pallacanestro. Era forte, il serbo. Tirava da fuori con la precisione di un cecchino. Sorrise per quel pensiero del cazzo. Era strana la mente, a volte.
«Che hai da ridere?». Chiese il serbo.
«Pensavo a quando giocavamo a pallacanestro».
L’altro sospirò.
«Eri il più bravo». Ammise Jusuf.
«No. Tu mi stoppavi sempre».
«Qualche volta, ma solo perché ero più alto».
Accesero le sigarette. Bevvero altri due sorsi.
«Io non credo di farcela». Disse Jusuf. «Il fianco mi fa un male cane. Mi gira la testa».
«Sarà la rakija. O il freddo».
Jusuf sollevò la mano destra intrisa di sangue. Gocce rosse caddero sui suoi pantaloni. Ci pulì la mano sopra.
Bojan si adombrò: «Mi spiace. Se avessi saputo che eri tu…».
«Cosa? Non l’avresti tirata indietro?».
«Non so. E’ tutto così strano…».
«E’ andata così, amico mio. E tu non sei messo meglio di me, giusto?».
Bojan si guardò la gamba e scosse la testa: «Perdo sangue e fa sempre più male».
«Facciamo un laccio. Con la cintura».
«E dopo?».
«Qualcuno ci troverà. Oppure potresti provare a cercare un ricovero. Magari trovi qualcuno che mi viene a prendere».
«Jusuf, mi sento molto debole, non credo di riuscire a reggermi in piedi. E sta arrivando la notte…».
L’altro annuì.
Nel giro di un’ora finirono le parole, le sigarette e la rakija.
Il giorno seguente, la guerra finì. I corpi di Jusuf e Bojan furono trovati da un contingente della forza di pace olandese. Erano seduti uno di fianco all’altro, una mano a stringere quella dell’altro. Una cicca del serbo pendeva dalle labbra congelate di Jusuf. Bojan teneva la fiaschetta del bosgnacco stretta nella mano destra.
Un fotografo al seguito delle truppe fece uno scatto e vinse un premio.