di Francesca Valentini
Tiziano Scarpa, Stabat Mater, Einaudi, 2008, pp. 144, € 13,60.
Prima delle vacanze estive, alle superiori mi consigliavano sempre di leggere qualche romanzo che avesse vinto un premio letterario. Raramente questi libri mi attiravano, e perciò sono sempre stata refrattaria a seguire queste indicazioni, con buona pace delle mie ottime insegnanti. Potrei ricredermi, e addirittura consigliare io stessa la lettura di un libro premiato, visto che Stabat Mater ha appena vinto lo Strega.
Stabat Mater è una voce miracolosa, tersa, oscura come una laguna notturna e abbagliante come i marmi palladiani di Venezia. Stabat Mater è il canto muto di Cecilia (come la musa, ma così diversa da lei) che da trovatella scrive lettere a una madre ignota e assente. Cecilia è stata accolta ancora in fasce (una tunica verde, con una mezza rosa dei venti azzurra come segnale di riconoscimento) il 21 di aprile, intorno all’anno 1687, dalle suore dell’Ospedale della Pietà in Venezia; lo stesso edificio che negli anni ’60 del secolo scorso ospitava il reparto maternità in cui nacque Tiziano Scarpa: l’autore.
Cecilia soffre di insonnia da sempre, e scrive le sue lettere di notte, accucciata in cima a una scala, in fondo a un passaggio, sotto una porticina, nell’immenso e labirintico palazzo che sembra evocare Piranesi: “un edificio enorme, complicato, pieno di sale, stanze grandi e piccole, e scale scavate come cunicoli nelle intercapedini fra le stanze, e rampe di gradini che si inerpicano, in diagonale, sospese sopra voragini architettoniche.” (p. 9).
Durante l’intera narrazione lo spazio duetta con Cecilia. Quando è sola di notte nel suo nascondiglio in cima alle scale; quando — come in un chiostro o in un harem — è nascosta dalle grate, “queste barriere traforate, queste sbarre di metallo sonoro” (p. 73) che racchiudono i due alti poggioli sulle pareti laterali della chiesa, ove le “figlie di choro” come lei cantano e suonano strumenti ad arco per i ricchi uditori che affollano la chiesa dell’Ospedale, in cerca di misteriose emozioni musicali, o semplicemente di una moglie per i cadetti di famiglia.
O ancora quando la prigione, la clausura, l’oblio si allentano durante le uscite in barca, attraverso spettrali distese d’acqua nebbiosa, sotto lo sguardo di passanti incuriositi dalle “putte” occultate in mantelli, maschere e cappucci. Neppure nello spazio chiuso l’identità si conserva: le trovatelle dell’Ospedale vestono divise tutte uguali, uguali come il peccato originale che affratella ricchi e poveri, dice la suora. Oltre la veste grigia per tutti i giorni e quella rossa per il canto in chiesa, l’identità traspare solo dal viso, che Cecilia ha appreso a rendere duro come pietra per “passare inosservata” (p.30) come creatura ancora increata, ancora inconsapevole di sé.
E, di nuovo, lo spazio parla a Cecilia di un “dentro” e di un “fuori” (l’Ospedale, il corpo) inconciliabili e distanti, separati da una ferita. Nel sapiente tessuto narrativo di Scarpa, che non conosce semplificazioni dualistiche, lo spazio esterno delle gite in barca non schiude soltanto possibili orizzonti di libertà, ma al contempo induce “sofferenze inattese”, pungola con “inspiegabili desideri” capaci di spalancare davanti all’individuo le proprie lacune e insoddisfazioni. Il movimento dischiude nuove possibilità, ma la monotonia rassicura: a Cecilia la decisione su cosa sia giusto scegliere.
Cecilia si appropria dello spazio tra le note scritte su vecchi spartiti per esprimere i pensieri sotto forma di lettere alla madre. Cecilia ruba uno spazio non suo, un vuoto di musica da riempire con la propria parola quale strumento di introspezione, riflessione, ricerca. Cecilia si rivolge a una madre e, al tempo stesso, a se stessa come figlia e come donna-in-divenire; le sue domande restano sospese come l’eco di passi nei corridoi invernali dell’ospedale, e l’inquieta ricerca di sé è tradotta in inchiostro come un fiato (emesso tra ardire e timore) che congela a mezz’aria come le note di tagliente mercurio del Maestro Vivaldi.
Cecilia abbandonata sogna e fantastica i modi e le ragioni che hanno indotto sua madre a lasciarla. Vede una figura genitoriale che assume di volta in volta i tratti benigni della Madre di Dio o quelli spaventosi di una Morte dal volto di Medusa; e però anche i tratti di chi – pur suscitando amore e nostalgia – sa ferire, o i tratti di chi incute timore e tuttavia protegge e tiene compagnia. Se “[s]i nasce per scappare via da un corpo destinato a morire”, ciò nonostante “[l]’Ospitale è un ventre di morte, [… e n]oi non siamo ancora nate.” (p. 46) La madre dà vita, eppure attraverso il cordone ombelicale si vendica, “inietta il veleno mortale” della caducità nel nuovo essere venuto alla luce (p. 47). La nascita è anche morte, è “[n]ascere senza venire alla luce” (p. 57).
Per la piccola Cecilia la maternità è una sorta di miracolo celeste, un atto creativo a tal punto impersonale che ad avere una mamma, tra tante trovatelle orfane, è soltanto Gesù Bambino, unica e divina Eccezione creaturale. Ma dai quattro anni di età lo sguardo di Cecilia sul parto muta radicalmente, associando il venire alla luce con il vergognoso atto di espellere inutili escrementi.
Il frutto dell’espulsione, com’è ovvio, soggiace per tutta la sua esistenza al senso di colpa e alla negazione della stima di sé. A meno di non riuscire a ri-partorirsi. A meno di non cercare e trovare da sé autodiagnosi e cura: “Ho appena scritto che le parole si srotolano, ma forse si annodano. Si srotolano e si annodano, nello stesso gesto. Forse mi sto liberando, o forse mi imprigiono.” (p. 16).
La “legge di questo luogo” chiamato Ospedale della Pietà non inizia a essere sovvertita dall’arrivo del Maestro Vivaldi. A mutare l’andamento della vita di Cecilia non è (solo) il passaggio dalla musica “stanca e vecchia”, con cui Don Giulio scrive “la sua agonia” e fa “suonare la morte” (p. 51), agli spartiti brillanti e colmi di innovazioni stilistiche di Don Antonio. Non a caso l’autore, e Cecilia, accennano all’arrivo di Vivaldi in qualità di nuovo maestro di coro en passant, tra un discorso e l’altro, mentre la giovane spiega l’assenza di senso della propria monotona esistenza.
In realtà i semi della “sovversione” sono già sparsi da Cecilia e in Cecilia stessa. L’archetto che produce i gorgheggi degli uccelli; la musica che dipinge la natura agli occhi delle recluse; il desiderio di sconfiggere morte e caducità, di scavalcare i muri e dirigersi “a oriente” sono già tutti in Cecilia prima che il Maestro arrivi a catalizzarne la rinascita del sé.
Cecilia osserva, apprende, si lascia affascinare da Vivaldi; ma sa anche vederne i limiti e irriderne grottescamente le grettezze. Non c’è nessun principe a svegliare Cecilia, semplicemente perché il principe non è un principe, e perché Cecilia non sta completamente dormendo.
Con profonda introspezione e consapevolezza, al contrario, Cecilia sa riconoscere cosa accade quando Vivaldi scrive concerti: “Quest’uomo tira fuori dai nostri corpi suoni femminili”, ma questa “versione sonora delle donne [é] così come la vogliono sentire i maschi” (p. 99). E, tuttavia, allo stimolo Cecilia non oppone un rifiuto “di genere”, ma lo rende strumento (erotico, vitale) per proseguire in prima persona la ricerca di sé : “Antonio ci stava sforzando, ci stava facendo traboccare oltre noi stesse, precipitavamo dalle balaustre, c’era qualcosa oltre la solita posa aggraziata […], un fervore più scomposto, sfrontato […]” (p. 99).
Se, in un ambiguo intreccio di simboli erotici, il nuovo maestro di coro osa suggerire alle violoncelliste di tenere lo strumento tra le gambe e non più in grembo come un bambino, per la violinista prediletta Vivaldi ha in serbo un rito di passaggio ove il sangue dell’acqua in laguna è preludio di un sacrificio doppiamente simbolico. Cecilia dovrà compiere un atto che sembra annientarla, azzerare le conquiste compiute, farle invocare la morte. E Don Antonio, ancora, affonda nella rinnovata catatonia della giovane con un ultima scioccante rivelazione, che riconduce infine Cecilia alla musica in un parossismo di note dolenti, che suonano la morte di qualcosa, o qualcuno.
Cecilia è scossa lontano da una vana promessa di fama e prigionia, senza più la necessità di riempire i bordi di fogli già scritti da altri, sola, verso il proprio oriente, secondo una personale rosa dei venti, “tutta intera, […] riconsegnata a [s]e stessa” (p. 136).
Chissà se Hélène Cixous avrebbe delle obiezioni nel sentirmi definire la voce di Tiziano Scarpa, la voce narrante di Cecilia, e questa narrazione che fluisce ad un tempo misurata e senza fiato, pura écriture féminine.