di Danilo Arona
Troppi anni fa mi capitò di leggere e di vampirizzare al volo per mio uso e consumo una definizione, esaustiva quanto terribile, dell’Apocalisse in procinto di divenire. Badate, era il 1981, e non eravamo in molti a scriverne allora: ovvio, ribollivano dentro un po’ di sano gioco intellettuale nonché residui di gusto catastrofico derivati dai primi amori fantascientifici, ma gli “apocalittici” non integrati di allora scrutavano sul serio nel buio per capire quanti secondi di vita cosmica rimanevano all’autodistruttivo genere umano. Non esisteva al proscenio un 2012 sul quale capitalizzare con libri da alta classifica; ma veniamo al dunque al quale non sono più in grado di attribuire primogenitura… l’autentica Apocalisse era, all’inizio degli anni Ottanta, la “decomposizione” della materia inorganica, sgretolata dall’interno da una nanopatologia tanto lenta e impercettibile quanto inarrestabile.
Allora, se la materia non reggeva per ipotesi al subdolo attacco interno di agenti per lei patogeni, l’ipotesi da visualizzare era quella di città, strutture e materiali di ogni genere in preda a devastanti quanto subdole mutazioni, sulle quali pesava una oggettiva difficoltà di previsione. Ma l’indotto orizzonte di attesa non lasciava scampo: la materia un giorno avrebbe ceduto, collassandosi su sé stessa, e noi, incapaci di rapportarci al reale senza la mediazione degli “oggetti”, saremmo periti con lei. L’intuizione, per quel momento storico, appariva quanto meno gratificante: la paventata “decomposizione” la si relegava al dominio dell’inorganico. Noi, composti di materia organica, a parte malattie e accidenti vari, ci pensavamo immuni dal processo invasivo di nanoparticelle in grado di operare una mutagenesi. Iniziavano i gaudenti anni Ottanta, i discorsi sull’Apocalisse della materia risentivano anche di un’evidente e inverificabile deriva filosofica e, in ogni caso, i pensatori apocalittici — anche quelli, per capirci, “più scientifici” – non godevano ancora di un credito condiviso. Però, a ben pensarci, il sospetto dovette sfiorare più di una mente: perché la materia inorganica e io no? In ogni caso quella definizione faceva paura, ammettiamolo.
Oggi opinioni e prospettive sono radicalmente cambiate. Come dice Paul Virilio, la catastrofe fa parte della nostra aspettativa quotidiana e siamo più o meno informati. Viviamo, magari con scarsa consapevolezza, in una condizione di attesa. Ma, spesso, nell’attesa, si ha la tendenza a voltare lo sguardo altrove. Altrimenti della dimensione apocalittica delle nanopatologie si dovrebbe avere una ben diversa percezione. Soprattutto perché il termine, quale lo si usa dal 1999, si riferisce alla materia organica, cioè noi.
Come ricorda Luciano Vecchi sul suo sito Professor Echos — Notizie da un pianeta malato, le nanopatologie sono una realtà conosciuta da dieci anni a questa parte grazie allo straordinario lavoro della dottoressa Antonietta Gatti, dell’Università di Modena e Reggio Emilia — straordinario perché osteggiato e da poco tempo quasi privo di finanziamenti (gli interessi coinvolti sono con evidenza molti e “pesanti”…).
Così Vecchi:
“Le nanopatotogie sono un progetto europeo nato alcuni anni fa a seguito d’una scoperta che sembra essere estremamente importante per la medicina e che ha avuto per protagonista la dottoressa Antonietta Gatti… Con tale nome ci si riferisce allo studio delle interazioni fra materiale particolare (particelle) di dimensione nane (miliardesimi di metro) e organismo, ovvero come s’incrociano dette particelle con il nostro organismo. Da dove provengono le particelle? Le particelle ci sono sempre state e provengono dalla natura. Dai circa 1500 vulcani che sono sulla Terra, ad esempio, che ne emettono delle quantità abbastanza rilevanti. Provengono dalla sabbia, la sabbia del deserto che è finissima e col vento disperde microparticelle che riesce a percorre grandissime distanze. La sabbia del Sahara ad esempio è stata ritrovata alle Bahamas. Dall’erosione delle rocce, dagli incendi, dal mare, che è un grande inquinante, dai fulmini, i quali viaggiando provocano la nascita di nanoparticelle. Poi dall’uomo, che di particelle ne fa tante. Cave e miniere a cielo aperto; discariche; depositi di rifiuti tossici; acque di scarico; edifici vecchi (quando invecchiano si sbriciolano e disperdono nell’aria particelle di solfato di bario); l’asfalto, quando si usura e s’invecchia; il traffico (gas di scarico, usura di freni, usura dei pneumatici); gli aerei, i quali consumano tonnellate di carburante che disperdono nell’atmosfera e fanno piovere sulle nostre teste grandi quantità di particelle; le saldature; i fumi industriali; i cementifici; le fonderie; le centrali elettriche (l’energia, anche quella definita pulita, viene prodotta con degli oli pesanti sporchissimi); gli inceneritori (grandi produttori di particelle) e in più i termovalorizzatori, cioè gli inceneritori moderni (più sono avanzati più sono pericolosi); il riscaldamento domestico; la cottura degli alimenti; il linoleum invecchiato (impasto di olio di lino e amianto – anche se dal 1992 è fuorilegge, il suo periodo di latenza arriva a 40 anni -). Dallo studio della dottoressa Gatti si nota un’interessante presenza di nanoparticelle all’interno non solo del sangue, ma nelle cellule stesse, fino al nucleo. Queste nanoparticelle hanno la possibilità di entrare nelle cellule e addirittura arrivare al nucleo creando diversi disturbi tra i quali le mutazioni del DNA, ma la cosa più sconvolgente è stato osservare che dette particelle sono sempre presenti nei tumori. Quando un corpo estraneo entra nell’organismo questo viene subito bloccato dal sistema immunitario e, nel caso di sostanze organiche (batteri o virus) vengono scisse in componenti più semplici e “digerite”; quando invece l’estraneo in oggetto è inorganico, e quindi non può essere digerito, la questione si complica perché quella particella estranea non può essere eliminata e diventa tanto più nociva quanto più è piccola, perché riesce ad eludere meglio le difese dell’organismo ed entrare più in profondità (ne è stata riscontrata la presenza anche nel liquido seminale ed all’interno degli spermatozoi con conseguenti anomalie nei feti). Il corpo umano quindi produrrà una sorta di capsula (granuloma) al cui interno rimarrà per tutta la vita dell’individuo questo corpuscolo. Il fatto di per se non sarebbe nemmeno grave, se non per il fatto che questi granulomi che si formano sono infiammatori e alla lunga possono dare origine alla formazione di tumori.”
C’è già molto, troppo, da considerare. Ma io vorrei tentare di andare anche più in là. Tenendo conto che sono un metafisico, cioè della specie meno affidabile per quel che riguarda l’aspetto scientifico di certi discorsi, sono qui a testimoniare che le mura di certe case di campagna dalle mie parti hanno assimilato dalle piante che la circondano quel che i contadini — da par loro ma senza affatto sbagliare — chiamano “cancro degli alberi”. Queste patologie vegetali chiunque le può riscontrare nelle grandi città: piante mutate, svuotate, annerite, con escrescenze fungoidi, piante-mostro che in genere bisogna abbattere. Si dice provengano da funghi e da batteri, ma anche dall’inquinamento. Qualsiasi ne sia la causa, siamo alle ipotesi divenute realtà degli anni Ottanta: nanopatologie della materia che trasmigrano in corpi diversi, dall’inorganico ad altre forme di materia. Ma non è una novità che in certe case i muri riescano a inoculare malattie gravissime. Apocalisse in corso d’opera? Decidete voi, ma ecco quel che scriveva Guido Viale su “Diario di Repubblica” del 7 gennaio 2007 in apertura dell’articolo Apocalisse — Dove precipita il nostro mondo:
“Qual è l’Apocalisse, la rivelazione, l’evento che porta alla luce le verità nascoste dei nostri tempi, l’eskaton in cui sono destinate a concludere la loro esistenza tutte le cose? La discarica…. mille e mille depositi di rifiuti del Terzo Mondo: dove la raccolta differenziata, cioè il recupero del molto ancora utilizzabile che c’è nelle cose che scartiamo, avviene ‘a posteriori’, frugando a mani nude nei cumuli di rifiuti che vengono scaricati senza sosta in scenari resi infernali dai continui processi di autocombustione. E perché mai la discarica è Apocalisse, cioè rivelazione? Perché, come il suo fratello, l’inceneritore, esibisce in un solo colpo d’occhio la sostanza delle nostre vite quotidiane: l’incessante spreco di risorse sottratte alla Terra per trasformarle, nel più breve tempo possibile, in rifiuti carichi di inquinanti e destinatati a trasformare in deserto l’ambiente in cui viviamo.”
Se l’antifona non vi è ancora chiara, ospito un ulteriore frammento, stavolta dovuto a Stefano Montanari (attivissimo sullo stesso fronte nonché marito di Antonietta Gatti):
“Credo che tutti ricordino l’11 settembre 2001: due degli edifici più alti del mondo vengono attraversati da altrettanti aerei e crollano trascinando con loro chi in quel momento ci stava dentro e pure qualcuno che si trovava nelle vicinanze. Insieme con le persone, la caduta si trascinò appresso anche tutto quanto era contenuto nelle due torri che portavano nella pancia le cose ‘preziose’ e ‘irrinunciabili’ dell’uomo a cavallo tra i due millenni; dai lingotti d’oro ai computer. In più gli aerei letteralmente volatilizzati. E, ancora, i materiali di costruzione, amianto compreso: lo stesso amianto di cui per decenni la scienza — la scienza vera, intendo — aveva denunciato la cancerogenicità e di cui, per altrettanti decenni, la cialtroneria di industriali, di sedicenti scienziati in affitto al migliore offerente e di quelli che noi ci ostiniamo a chiamare politici aveva affermato l’innocenza. Così, si solleva una nuvola mastodontica di polvere bianca finissima che ricopre in un battibaleno tutto e tutti, facendo la felicità dei fotografi sempre più ingolositi dalle inquadrature offerte dalle persone che vagolano completamente imbiancate, come sinistri pupazzi di neve capaci di camminare. Tanta polvere: un miliardo e 800 milioni di tonnellate sono le cifre che ora vengono comunicate. Tanta polvere che per mesi è calata dovunque, sulle strade, sulle panchine, sui davanzali, dentro i condizionatori d’aria che concentravano quella roba all’interno delle abitazioni. Qualunque persona di buon senso si sarebbe allarmata di fronte a quella nuvola. E forse allarme ci fu pure. Ma ci pensò l’EPA, l’ente di protezione ambientale americano a dissolvere la paura. Tranquilli: non è successo niente. Così andarono allo sbaraglio i soccorritori, i curiosi e, in fondo, chiunque abitasse in un raggio di diversi chilometri dal luogo del disastro. Nessun filtro per il respiro, nessun indumento protettivo, addirittura cibo consumato regolarmente sotto quella nevicata ormai non più percepibile dagli occhi. Le polveri che galleggiavano e che probabilmente, più diluite, galleggiano ancora in quell’aria, erano ormai solo quelle ultrafini, non rivelabili ai cinque sensi, e le più penetranti in assoluto” (1).
Conseguenza — di cui poco si sa perché l’informazione anche qui è distorta e censurata — è l’insorgenza tuttora in evoluzione di tantissime nanopatologie, con 180.000 malati ufficiali e solo 400.000 nei primi sei mesi del 2009, accanto a un picco clamoroso del diabete (perché le polveri endocrine disruptors interferiscono sulla funzionalità ghiandolare).
Potrei concluderla qui: tanto penso che si capisca bene che per me — e quelli come me— l’Apocalisse è già in atto, da tempo, malignamente entrata da anni nel circuito di scambio energetico tra mondo artificiale e mondo naturale, una sorta di parassita che sta agendo in prospettiva come i famosi microbi di H.G. Wells, con la piccola differenza che non ci sono marziani da sterminare. Ma siccome faccio lo scrittore e vivo nella presuntuosa convinzione di poter piegare un genere — l’horror in questo caso — a più nobili scopi di allarme sociale, vi segnalo la mia più recente uscita. L’estate di Montebuio (Gargoyle Books), in cui — se ne avrete voglia — scoprirete che proprio di questo parlo (anche se, all’apparenza — ma così bisogna anche fare — ci stanno molti luoghi comuni del gotico, dai mostri al brutto posto…). Mi sento in buona compagnia negli ultimi tempi: frequentatori non casuali di un genere popolarissimo e che lo usano per mettere in guardia il mondo, seminando dubbi e inquietudini, che si chiamano Michele Pastrello (l’orrore della cementificazione e della sottrazione del paesaggio vitale nel film 32), Gianfranco Nerozzi (l’orrore della morte rituale tra le lamiere di ogni sabato notte ne Il cerchio muto), Alan D. Altieri (quello delle città oscure nel futuro che è già qui in Hellgate) e Patrick Senécal (la nanopatologia nell’inconscio in Una mente pericolosa). E, chissà come, mi torna fra le mani un vecchio Urania del ’74, Lebbra antiplastica di Kit Pedler e Gerry Davis, dove già era in atto l’apocalisse della materia… Il sospetto è quello di sempre: gli scrittori non attingono soltanto da dentro loro stessi. Qualcosa da fuori entra loro dentro… Come dire, nanoincursioni?