di Gioacchino Toni
Massimo Montanari, Il formaggio con le pere. La storia di un proverbio, Editori Laterza, 2008, pp. 161, € 15,00
A partire dal noto proverbio «Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere», Massimo Montanari ricostruisce la storia dell’abbinamento alimentare che ha generato il detto, analizzandone il significato così come si è sedimentato nel corso dei secoli e concentrando il ragionamento sul fatto che il discorso proverbiale, presentandosi in forma anonima ed impersonale, sottende un variare del valore dell’enunciato al cambiare dell’enunciatore. Essendo il proverbio un testo aperto, il suo significato varia in base al punto di vista di chi lo pronuncia, risulta pertanto importante analizzare come, anche nel caso del proverbio esaminato, si siano storicamente affiancati/scontrati interessi sociali antagonisti. In altre parole è possibile analizzare il proverbio come luogo del conflitto di classe.
Massimo Montanari è uno studioso che si occupa del rapporto tra cibo e cultura con particolare attenzione all’età medievale. In La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa (Laterza, 1993) il cibo ed i comportamenti alimentari diventano la chiave di lettura per un approccio globale alla storia europea dal III secolo d.C. ai giorni nostri. Nel saggio Alimentazione e cultura nel Medioevo (Laterza, 1988) l’autore studia i valori simbolici e ideologici gravitanti attorno alle diete delle diverse categorie sociali e i rapporti tra cibo e potere, peccato e santità. Nel saggio qua esaminato, oltre a ricostruire puntualmente il contesto di produzione del proverbio, Montanari propone un’analisi circa l’uso che di esso è stato fatto al variare del tempo e dei soggetti. La prima tappa affrontata è quella relativa all’abbinamento alimentare citato dal proverbio.
L’accoppiamento formaggio-pere viene documentato a partire dal tardo Medioevo; le prime testimonianze italiane risalgono infatti al XIV sec. mentre in Francia il proverbio appare già nel XIII sec. Tra il tardo Medioevo e l’inizio dell’Età moderna, l’ordine dei cibi è lasciato alla discrezionalità del commensale; le vivande sono presentate simultaneamente e, a fine pasto, arrivavano insieme pere e formaggi stagionati. Sin dall’antichità in Europa si è diffuso il pregiudizio culturale che vedeva nelle popolazioni consumatrici di latte e derivati l’incapacità di elaborare il cibo. Anche se il formaggio deriva in realtà da un’elaborazione del latte, l’idea di additare negativamente “l’umanità succube della natura” è giunta pressoché immutata al Medioevo; il formaggio resta il segno di una marginalità geografica (i barbari non civilizzati) e sociale (marginali, non urbani). Il latte è indice di infanzia della civiltà, il formaggio è la carne degli stolti contadini.
Nella società medievale è ben presente la volontà di segnalare differenze di classe e di status mediante
rigorosi codici di comportamento. Da questo punto di vista l’abbigliamento e l’alimentazione diventano campi di differenziazione assolutamente regolamentati ben oltre l’impossibilità materiale di possedere un abito particolare o un cibo specifico. La differenziazione è sicuramente in parte di ordine economico (potersi o meno permettere di acquistare) ma altrettanto di ordine simbolico: per i ricchi alimentarsi a base di formaggio significa abbassarsi al rango dei contadini. Affinché, nel corso del Medioevo, il formaggio possa essere considerato degno di accedere alla mensa signorile, si è reso necessario un lungo e difficile percorso di nobilitazione volto a modificare l’immagine sociale e culturale del formaggio.
Il saggio di Montanari sottolinea come la cultura monastica abbia finito per essere un elemento di mediazione tra pratiche alimentari basse ed alte. La rinuncia al consumo di carne sostituita da pesce, uova e formaggio, attuata come simbolo di povertà spirituale, sinonimo di umiltà, da parte delle comunità monastiche, principalmente legate agli agiati ambienti nobiliari, ha contribuito a miscelare diete alimentari appartenenti a classi sociali distinte. Nel momento in cui, proprio nel corso del Medioevo, l’astinenza alla carne viene imposta, seppure solo in certe circostanze, come nel corso della Quaresima, a tutti i cristiani, i latticini diventano un ottimo sostituto. Una volta che il formaggio, il cibo dei villani, ha fatto breccia nelle mense dei nobili, si sono intensificate le ricerche di fonti classiche volte a nobilitare la nuova usanza. La parsimonia nell’uso dei latticini è parsa immediatamente come segno distintivo.
Nel 1477 il medico Pantaleone da Confidenza dell’Università di Torino pubblica il primo trattato europeo dedicato ai latticini sostenendo, appunto, che mentre i ricchi sono in grado di capire la parsimonia necessaria nel ricorso ai latticini, i poveri, a causa della necessità, finiscono col mangiane in maniera spropositata. In sostanza elemento distintivo finisce per essere l’affrancamento o meno dalla necessità. Altro elemento di differenziazione è cercato, attorno al XV secolo, a livello qualitativo: si crea una sorta di distinzione tra formaggi (da) nobili e formaggi (da) poveri. Se nel corso del Cinquecento il formaggio tende ormai a essere celebrato, è dagli ambienti medici che si incontrano resistenze e, curiosamente, anche in questo caso si cerca appoggio nei testi classici.
Fino alla Rivoluzione francese non è minimamente pensabile contraddire l’ideologia della differenza. Fino all’epopea illuminista vige la convinzione che il cibo debba essere consono all’identità di chi lo consuma: essendo gli uomini diversi, essi devono mangiare diversamente. Al fine di poter accogliere un cibo umile occorre rendendolo compatibile con l’ideologia dominante. Un primo stratagemma per segnalare la diversità, abbiamo visto, è di differenziare le tipologie dei formaggi indicando quelle adatte a villani e quelle consone ai nobili, altre modalità di nobilitazione si danno arricchendo un prodotto umile con ingredienti inaccessibili ai più, come le spezie, o attraverso l’assunzione di un determinato cibo in un momento diverso del pasto, evidenziando così se esso è ornamento o nutrizione, piacere o necessità, essere il pasto o, semplicemente, chiuderlo.
Nella cultura medievale i frutti rappresentano un cibo di élite soprattutto se facilmente deperibili, in quanto trasmettono così l’idea di lusso che nulla ha in comune con chi manifesta problemi di fame: conservare i frutti deperibili significa trasformali in alimenti legati al regno delle necessità (fame) togliendoli dalla sfera dell’effimero.
Anche quando la frutta è ormai diventata di moda negli ambienti signorili, almeno sino al termine del XVII secolo, la scienza medica continua a esprimersi negativamente nei suoi confronti. Al fine di mitigare i “rischi” portati dal mangiare pere prende piede l’idea di cuocerle o, almeno, di accompagnarle col vino. La giustificazione dell’abbinamento pera-formaggio potrebbe anche, almeno in parte, derivare da questa logica di reciproco bilanciamento; a posteriori si fornisce un’indicazione “scientifica” al fine di giustificare un abbinamento già in uso. L’inclusione del “povero” formaggio nella gastronomia dei signori ha richiesto dapprima un affiancamento elitario (la pera) al fine di nobilitarlo e, a posteriori, si ricorre a una giustificazione a livello di salute.
All’interno di una società fondata sulla differenza, ci si pone presto il problema di come arginare, almeno a livello simbolico, la possibilità che signori e villani possano finire col mangiare le stesse cose (o almeno alcune di esse). Nasce così la nozione di “gusto”: solo i signori hanno il privilegio di saper discernere tra formaggio e formaggio e tra pera e pera. L’idea medievale che vede nel gusto una forma istintiva di conoscenza lascia il posto all’idea del “buongusto”: un sapere coltivato che si apprende e si insegna. Il gusto diventa segno di distinzione, dunque la necessità di “negare il sapere” a chi non è “socialmente degno”. Ecco allora un possibile significato di quel “non far sapere” esplicitato dal proverbio esaminato.
Visto che l’idea del gusto inteso come capacità istintiva può mettere in crisi la cultura della differenza sociale, a questa subentra l’idea di “buongusto” fondata su di un sapere mediato culturalmente. Anche se si mangiano le stesse cose, la consapevolezza a differenziare potrebbe sempre marcare la differenza sociale. Nel momento in cui prende piede il dubbio che il buongusto possa essere appreso, l’idea di differenza perde il suo fondamento ontologico immodificabile, da ciò la necessità di negare agli strati sociali inferiori il sapere (tenerli ignoranti): “Al contadino non far sapere”…
La ricerca di Montanari mostra inoltre come il proverbio del formaggio e delle pere sia una variante gastronomica della “satira del villano” diffusa in Italia nei secoli XIV-XVI, ossia uno strumento ideologico di lotta di classe dei signori contro i contadini al fine di bloccare ogni possibilità di emancipazione e di innalzamento sociale. Si scatena l’odio soprattutto contro i contadini arricchiti, contro la fascia del mondo contadino culturalmente più consapevole. Tra il XV e il XVI sec. si delineano vere e proprie strategie volte a bloccare sul nascere pericolose emancipazioni del mondo rurale. È in tale contesto, volto all’immobilismo sociale, che si spiega la logica del proverbio.
Montanari segnala come, almeno in Italia, il vero nemico del villano sia il cittadino. In Italia (soprattutto in Toscana) il signore che si scaglia contro il contadino è il proprietario cittadino tanto di origine nobile quanto borghese. La preoccupazione è quella di contabilizzare le rendite e il villano non è più solo ignorante e animalesco ma anche ladro: il contadino che ruba al padrone. Questa diventa una vera e propria ossessione tanto che nell’elenco degli abusi e dei vizi contadini stilato nel 1580 dalla Chiesa Bolognese, al primo posto viene situato proprio il fatto che molti contadini non danno “la giusta parte”, il dovuto, al padrone. È a questo punto che la trattazione mette in luce l’elemento di classe: «Lo stereotipo del contadino-ladro (colonus ergo fur), diffusissimo nella cultura italiana del XV-XVI secolo, non dev’essere solamente un’ossessione del ceto padronale: il furto costituisce anche dal punto di vista del contadino la forma più semplice (talora l’unica possibile) di lotta contro il privilegio sociale» (p. 113). Il furto di alimenti, oltre a essere una strategia di sopravvivenza, può nascondere anche un senso simbolico. A essere messo sotto attacco non è semplicemente il giardino dei signori; rubare in questo “spazio del buongusto”, che “marca la distinzione sociale del proprietario”, significa colpire il simbolo del privilegio padronale. Il proverbio appare pertanto non semplice testimonianza del conflitto di classe, ma luogo (tra gli altri) in cui si gioca tale conflitto.