di Franco La Polla
[Il 27 febbraio di quest’anno, dopo una lunga malattia, è morto Franco La Polla. Docente di storia di cinema americano presso il DAMS di Bologna, che diresse dal 2004 al 2007. Studioso di grande acume, amico di chi scrive e di questa testata, persona di squisita umanità. Per ricordarlo pubblichiamo un saggio che ci passò. E’ una bozza: la versione definitiva si trova sulla rivista accademica internazionale Belphégor, dedicata alle letterature popolari.] (V.E.)
Per Groucho, flusso desiderante liberato che non conosce paura.
Ho paura. Ho fatto un brutto sogno.
I sogni non possono farti male.
(R. Altman, “Tre donne”)
Superando informazioni storiche, necessità di filologica completezza (a qualcuno in Italia poco care), di sistemazioni e classificazioni esteriori, e superando soprattutto giustificati complessi di inferiorità i quali rischiano soltanto di relegare nel limbo dell’ignoranza ciò che non è immediatamente valutabile in usurata moneta corrente né quotabile nella fantomatica e dittatoriale Borsa Valori istituita da un potere culturale nefasto quasi quanto l’altro, la domanda è: perché il cinema orrifico? (e aggiungiamo qui una volta per tutte che useremo indifferentemente i termini “orrifico” e “terrifico” che una corretta critica vorrebbe però diversificati).
E’una domanda pericolosa. Davanti a essa è probabile cadere nei luoghi comuni di una facile psicologia, di una psicoanalisi d’accatto, di una critica parailluministica arricchita da una banale componente dialettica. Quante volte ci siamo sentiti dire che in un’età razionalistica e tecnologica il soprannaturale è una “reazione psicologica”; quante volte ci siamo sentiti dire che il soprannaturale è una componente universale ed eterna mossa da un “horror vacui da un’imperitura sete di conoscenza che ha il suo bel daffare a spiegare se stessa in un mondo che ha ancora tanti segreti; quante volte ci siamo sentiti dire (e lo fa in un suo disastroso libretto anche Massimo Moscati) che “il “terrificante” attrae perché fa paura: rimuove le antiche angosce dell’infanzia (…), per ricercarne le tracce nell’inconscio adulto”. Questa, oltre a essere cattiva psicoanalisi da convenzione, è anche pericolosa propaganda dell’insensatezza.
Ma allora, qual è il discorso dell’/sull’orrore? Intanto, non si puo prescindere da componenti di natura storico-culturale. Il soprannaturale, nei termini in cui ancora oggi lo fruiamo, è una conseguenza di una radicata tradizione di paura che il potere ha coltivato e instillato per secoli. Per secoli infatti le istituzioni hanno predicato, magari addirittura involontariamente, che il terrore è il potere, quando invece esso ne è semplicemente stato l’arma. Nel regno di Dio tutto è armonioso, sereno; il desiderio coincide con l’atto, il principio di piacere con quello di realtà. Il tuono che scuote l’Eden è la prima nota stonata e paurosa nel coro delle sfere angeliche. Non il Serpente fa paura, ma le conseguenze dell’atto che quegli ha suggerito. Il Serpente è soltanto la concretizzazione figurale di un fantasma della deiezione, dell’essente che diventa tragicamente esistente. Voci tonanti, spade fiammeggianti, minacce titaniche: la paura è entrata nella vita dell’uomo. Uno scarto si instaura nel mondo e di conseguenza nella psiche. Il diavolo naturalmente non è quello che oleograficamente dipingeva una ancor giovane tradizione gotica: è suadente, gradevole, spesso bello e affascinante (ricordate la Biondetta di Le diable amoureux di Cazotte?) e del resto regolarmente identificato col piacere. Dunque il piacere è paura, la perdita — pur momentanea — del senso, della coscienza del proprio scarto in un atto assoluto è già condanna e sofferenza, è già terrore. Il piacere è desiderio, e il desiderio — lo sappiamo bene — contrasta con l’irreggimentazione sociale, con la produttività, con l’obbedienza. Il potere ha inventato il terrore. Ma per farlo non può sottrarsi a una contraddizione. Il disprezzo del corpo e della carne che esso predica trova un contraltare nell’esaltazione dello spirito: chi pecca soffrirà nello spirito.
La “corporalizzazione” delle istanze del piacere, dunque, diviene norma statutaria al fine di esigerne la repressione. Audacemente dialettica, l’etica cristiana scopre all’interno del suo sistema l’autonomia del corpo, ma anche la sua necessità ai propri fini. Come infatti rendere la grandezza, la profondità della sofferenza spirituale? Come tradurre il corrispettivo oppositivo del piacere nel registro dello spirituale, decisamente inutilizzabile a una salutare esemplificazione? Attraverso un correlativo oggettivo corporale. Le fiamme dell’inferno — assolutamente metafisiche — diventano fiamme che bruciano la carne fra inauditi tormenti fisici. Il corpo e la corporalità hanno vinto: scacciati, per così dire, dalla porta, rientrano dalla finestra, si statutizzano come sistema ineliminabile di riferimento. E, quindi, il terrore è necessariamente terrore del male concreto, della pena corporale, secondo un vero e proprio contrappasso dantesco.
Che questa organizzazione della paura abbia tali radici è approvato da più esempi la cui anomalia è la miglior prova della regola. Prendiamo un mito (soprattutto cinematografico) come quello di Dracula. Le leggende sui vampiri si perdono nella notte dei tempi (ne ritroviamo tracce anche in scrittori precristiani), eppure una delle migliori salvaguardie contro di essi è la croce, l’invocazione a Dio e in genere a tutto l’arsenale sacramentale e giaculatorio del cristianesimo.
Il conto non torna. Gli è che il sincretismo cristiano ha operato non solo nel senso di un assorbimento ai suoi termini di tradizioni religiose o anche superstiziose precedenti (ad esempio, la partenogenesi, ben nota ai culti orientali, o il giorno di Natale che coincide con quello precedentemente istituito del Sol Natalis Invictus, che Eliogabalo mutuò dall’Oriente e introdusse a Roma), ma si è anche inserito come scudo delle tradizioni che non ha saputo assorbire al suo sistema. Non si vuole con questo affermare che il concetto di paura fosse ignorato al mondo precristiano; solo, esso si organizzava su terreni e in termini evidentemente diversi. Una cosa comunque sia l’un mondo che l’altro avevano in comune: la paura come conseguenza di un’offesa al potere. E un concetto di potere che vede in ogni caso i suoi riferimenti ultimi nel divino. La “hybris” greca sarà anche diversa dal peccato cristiano nelle forme, ma non nella sostanza (dopotutto quello di Adamo ed Eva non fu un peccato di “hybris”. L’offesa a Dio è sempre e comunque, all’origine, un peccato di orgoglio, dai nostri progenitori a Faust.
Dracula sarebbe così un’ulteriore incarnazione del dotto tedesco (o viceversa), filtrata iconograficamente e moralmente attraverso le lenti deformanti dell’ottica cristiana, salvo restando il concetto antropologico di natura cannibalistico-rituale dell’appropriazione della vita e della forza dell’altro attraverso il suo sangue/carne. E in tale mito il corporale si sposa allo spirituale proprio attraverso la mediazione dell’etica cristiana. A questo punto si concretizza la dimensione erotica di tale rapporto: l’appropriazione è sempre metafora sessuale, un po’ come la monetizzazione simbolizza un processo erotico. Se quindi la rivoluzione segna l’esplosione del significante reale nel mondo del Capitale, allo stesso modo l’appropriazione del corpo dell’altro diviene affioramento del flusso desiderante liberato, perdendo così ogni connotazione di diversità, eccezionalità, paura, poiché la condizione del terrore è la negazione, il divieto.
Ma nel quadro comune di cui sopra il terrore dove alberga? Negli inferi pagani si soffre in modo diverso, si trascinano massi che rotolano a valle condannandoci a ricominciare la nostra fatica, si patisce la fame e la sete davanti ad acqua e frutti maturi vicinissimi eppure irraggiungibili, si vaga tra effluvi di vapore desiderando di essere il più misero contadino sulla terra piuttosto che il primo eroe tra i morti. Dov’è in questo quadro il terrore? L’immaginazione classica ha forgiato in pratica la stessa immagine che ritroveremo in quella cristiana, un’escatologia del corporale che nella prima era l’unica possibilità di esemplificare il terreno della paura, e nella seconda si pone come referente di un’assenza e di un desiderio antitetici alla corporeità. La mistica cristiana riprende il modello del desiderio, ma lo trapianta nell’ambito di una metafisica teologica; il desiderio resta meccanismo, ma si esercita lungo una linea che non trovando riferimento empirico concreto diventa dolore corporale. La paura è dunque paura del dolore? Non certo davanti a uno schermo cinematografico di Tod Browning o di Terence Fisher, né alle pagine di un volume di Sheridan LeFanu o di Montague R. James. No, negli inferi come all’inferno, sullo schermo come sulla pagina, il terrore sta altrove. “Hybris” o peccato, la paura che ne consegue si fonda su un’altra ragione (nei due sensi del termine), quella profondissima che muove ogni terrore, sia esso dovuto alla trasgressione della legge religiosa (forma finale di ben altre repressioni), sia esso dovuto — se possibile — alla pura casualità.
Il terrore è lo sguardo. La paura è la coscienza di essere guardati. Per troppo tempo abbiamo pensato il contrario, cioè che la paura nasceva dalla visione dell’anomalo, del diverso, dalla presa d’atto che qualcosa esisteva in un altrove non precisato il quale poteva dirci se non altro che la differenza dalla nostra “normalità” era cosa concreta. L’anomalo, insomma, sarebbe stato il perturbante della codificazione operata dal soggetto costituente il mondo. Esattamente come la follia, esso incorporava una contraddizione di fondo, e quindi non poteva essere ammesso nemmeno nella dialettica del sistema. Elemento mancante, non poteva entrare nell’itinerario perfettamente, conchiusamente strutturato dalla razionalità dualisica occidentale. “Tertium” inatteso, esso avrebbe ridotto l’opposizione strutturale dell’organizzazione epistemologica del mondo all’identità assoluta delle sue componenti. Non poteva durare a lungo. La psicoanalisi, soprattutto nella sua versione aggiornata, “ultima thule” di una conciliazione impossibile, è quindi giunta a spiegarci, come fa Irène Roublef, che “quello che non è stato simbolizzato ci guarda” e che “proprio di questo ha paura lo schizofrenico: di essere guardato dagli oggetti.” Il dualismo è salvo, e anche la cattiva coscienza di un Io cartesiano ormai troppo compromesso. Ma perché tale paura? Se non è il timore del dolore corporale, né quello — inimmaginabile — della pena spirituale ciò che ci turba, che cos’è che ci impietrisce davanti all’anormale, al “non simbolizzato”?
La causa della paura non è il “di più”, l’eccesso che si mostra nella presa d’atto dell’anormale, ma la “mancanza” che lo sguardo rivolto verso di noi ci rivela, quello che Lacan chiama trou du sujet. La mancata simbolizzazione, la fallita messa in serie nell’ordine del linguaggio comporta un vuoto che deve essere colmato da altri signiflcanti, da una presenza di immaginario che ci parla continuamente di questa sostituzione, della mancanza che l’ha causata. Ed è allora che il nostro sguardo ci viene per così dire rimandato, riflesso: noi non guardiamo più ma in realtà siamo guardati dall’oggetto immaginario che è la prova concreta della sua astrattezza e del nostro scarto di fronte al procedimento di simbolizzazione.
Un film di Robert Siodmak, Lo specchio scuro (“The Dark Mirror”, 1946), narra di due gemelle, l’una normale e l’altra folle, una delle quali ha commesso un assassinio (la seconda, naturalmente, che però maschera la sua follia dietro perfette apparenze di normalità). Nessuno può dire quale delle due sia la colpevole poiché fra esse vige un’assoluta solidarietà e soprattutto perché l’innocente crede che l’altra non sia colpevole. In due scene chiave le gemelle sono mostrate ambedue riflesse in uno specchio. Nella prima la gemella A (colpevole) è inquadrata fuori e dentro lo specchio, mentre la B (innocente) è semplicemente riflessa, poiché la sua immagine reale è fuori campo. Nella seconda scena avviene l’inverso: la B è seduta di fronte allo specchio e ne viene riflessa mentre la A è solo riflessa mentre è in piedi fuori campo vicino all’altra. L’occhio dello spettatore, già perplesso di fronte alla costante presenza del tema del “doppel”nel film, ne esce qui addirittura confuso: la sensazione è che ormai non importi più chi delle due è la folle e l’assassina poiché la somiglianza uguaglia la forma e la materia. Si tratta di una perfetta esempliflcazione delle affermazioni di Freud in merito al tema del “doppel” in relazione al concetto di “perturbante” Ma soprattutto l’occhio coglie un complesso intrecciarsi di sguardi che non restano relegati nel campo dello specchio, e nemmeno in quello della macchina da presa, ma che penetrano lo schermo all’inverso, attraverso un campo che si pensava inviolabile, divenendo l’occhio dell’occhio spettatoriale.
L’implicita domanda che tale sistema di sguardi pone è: chi guarda chi? E ancor più: in questo intrecciarsi di osservazioni il cui soggetto sfugge continuamente alla stessa stregua del loro oggetto, il vero osservato, non è in realtà colui che crede di essere l’esclusivo osservatore, cioè lo spettatore? Qualcuno obietterà che Lo specchio scuro non è un film dell’orrore. Ciò è vero nel senso che in esso non intervegono componenti di carattere soprannaturale. Ma almeno da Henry James in poi sappiamo bene che l’orrore non è la conseguenza dell’osservazione dell’inspiegabile in termini razionali, bensì l’oscillazione fra tale possibilità e quella, antitetica, di una realtà che sembra non reale. In una parola, l’orrore è l’incertezza sull’orrore. Un passo in più e un’opera come quella di Siodmak giunge a dirci che l’orrore, nella miglior linea freudiana, è il perturbante (salve restando le osservazioni fatte da Freud in apertura al suo famoso e splendido saggio Il perturbante del 1919): non lo schifo, il disgusto, la repulsione davanti all’anomalo, ma la scoperta, la sensazione della “non-familiarità” che scopriamo in noi davanti alla stessa normalità. E dunque, che tutto il cinema sia soltanto cinema dell’orrore (o del perturbante)? Che tutto il cinema, cioè, instauri a livello psichico — e sia pure in diversa misura — la sensazione dell'”Unheimlich” freudiano?
In un altro film, decisamente non ascrivibile allo stretto ambito dell’orrore, L’occhio che uccide (“Peeping Tom”, 1960) di Michael Powell, un giovane psicopatico uccide delle ragazze filmandole, usando una punta che le trafigge uscendo dalla macchina da presa mentre questa ne registra la morte. Orbene, chi è in tale storia lo spettatore? L’assassino che osserva le vittime attraverso le lenti della macchina da presa, le vittime che guardano terrorizzate l’obiettivo quando ormai è troppo tardi per salvarsi, o il pubblico del film che guarda il protagonista guardare le vittime che lo guardano attraverso l’obiettivo (o, a seconda della scena, che guarda le vittime che guardano il protagonista che le guarda)? E il regista, dopotutto, non è anch’egli un voyeur mentre sta filmando, in modo inusitato, il processo orrendo che presiede a ogni e qualsivoglia ripresa cinematografica? Sì, certo, filmare significa uccidere, imbalsamare per l’eternita un qualsiasi momento di vita. Ma non significa anche — dopo quel che si diceva più sopra — scoprirsi osservati mentre crediamo di stare osservando? Per le vittime come per l’assassino è facilmente intuibile indicare chi osserva colui che crede di osservare. Ma anche per quanto riguarda il pubblico, a ben vedere, si instaura una linea di osservazione contraria che va direttamente dagli occhi terrorizzati della vittima ad esso, oppure da quelli morbosamente affascinati dell’assassino ancora una volta allo spettatore. Se dunque cinema dell’orrore è cinema della mancanza dell’osservatore, tutto il cinema è cinema dell’orrore, in quanto perturbante messa a nudo del vuoto di chi crede di osservare essendo invece sotto l’occhio costante di chi riteniamo oggetto di sguardo.
Ecco quindi un diverso statuto dell’orrore, ecco il meccanismo che lo attiva: non la paura di scoprire, ma quella di essere scoperti nella fallimentare attività del nostro Simbolico. Questo è ciò che tradizioni diverse come la pagana e la cristiana hanno in comune, questo è ciò che lega Oreste inseguito dalle Erinni, costantemente sotto lo sguardo del divino trasgredito, e il peccatore di Victor Hugo alla cui vista si mostra sempre, costantemente l’occhio di Dio davanti al quale egli tenterà persino di seppellirsi. La razionalità post-illuministica ha tentato di esorcizzare questa condanna facendo l’uomo creatore in prima persona del “diverso”. il mito di Frankenstein, l’orrore costruito dall’uomo che nell’uomo stesso si esaurisce, non chiamando in causa nient’altro al di fuori del sistema configurato dalla sua scelta, dalla sua volontà, dalla sua attività, è però solo un’altra forma — più complessa, se si vuole — dell’originale modello terrifico. Da un lato, esso può essere letto come ulteriore peccato di “hybris”, come sostituzione dell’uomo a Dio nella sua attività demiurgica (ed è questa l’interpretazione più comune); ma dall’altro è invece la miglior prova che la “mancanza” è proprio mancanza del soggetto, generata da lui e in lui, che lo sguardo del mostro (o, se si preferisce, del mostrato) verso il suo creatore testimonia eloquentemente la presenza di un Immaginario che l’uomo è stato incapace di ridurre a una forma simbolica: “io ci sono, tu manchi”, sembra dire il mostro a Frankenstein, e il suo stesso desiderio di essere come chi l’ha creato di-mostra nel modo più chiaro la pressione che l’Immaginario opera nel senso della propria (impossibile) simbolizzazione. Essere come il soggetto, riempire il vuoto che ha portato questi a creare l'”altro”. Dice Lacan: “io penso dove non sono, quindi io sono là dove non penso”. Figure nate da un pensiero che è attività intesa a coprire la mancanza, l’arsenale dei mostri della tradizione orrifica è storicamente esteriore testimonianza del potere repressivo che li ha generati, ma strutturalmente la prova inequivocabile dell’attività di un inconscio che ci parla e che noi continuiamo a trasformare in paura.