di Franco Pezzini
“L’impresa privata è riuscita là dove il socialismo aveva fallito” scrisse con sarcasmo George Bernard Shaw al quotidiano “The Star”. “Mentre noi socialdemocratici tradizionali sprecavamo il nostro tempo su istruzione, agitazione e organizzazione, un genio indipendente ha preso in mano la faccenda e, semplicemente ammazzando e sbudellando quattro donne, ha convertito la stampa dei possidenti a una specie annacquata di comunismo”.
Le gesta del “genio indipendente”, ovviamente Jack lo Squartatore, avevano in effetti richiamato con prepotenza l’attenzione collettiva sulle spaventose condizioni della Sin City londinese del 1888. Preparando la strada a una ristrutturazione anche urbana, uno strisciante Piano Casa che vedrà abbattere, mutare, reinventare strade e isolati per cauterizzare, così si sperava, le piaghe di Madre Londra: e di questo rapporto tra sangue, società e luoghi offre un felicissimo quadro Paul Begg nello studio Jack lo squartatore: la vera storia, edito da Utet Libreria nel 2006.
Una ricerca alla scuola dei grandi esploratori della metropoli britannica: si pensi a Peter Ackroyd, col suo Londra. Biografia di una città, Frassinelli 2004, seguito ora da La grande storia del Tamigi, Neri Pozza. Ed è appunto come un instancabile flâneur che Begg conduce il lettore per mano attraverso secoli di vita e di voci, umori, sapori aspri dell’East End fino alle convulsioni edilizie tra Otto e Novecento — e solo allora sui luoghi dei singoli delitti, documentati con minuzia criminologica e sfrondati dalle infinite fantasie tuttora correnti.
L’Autore ricostruisce i problemi interni alle istituzioni di polizia (beghe tra funzionari, conflitti di competenza, disinformazioni e scandali sul filo di questioni delicate come il fronte feniano) oggetto peraltro di accesissime critiche della stampa; affronta il tema della drammatica crisi occupazionale inglese degli anni Ottanta — quando i termini “disoccupato” e “disoccupazione” entrarono per la prima volta nell’Oxford English Dictionary — che vide continue manifestazioni di piazza e una certa dialettica tra i diversi gruppi socialisti; descrive la nascita del “nuovo giornalismo” (l’espressione è del 1887) e delle agenzie di stampa, elementi poi fondamentali per il sorgere del mito dello Squartatore. Al punto che, si sospetta, le lettere più note a lui attribuite sarebbero state in realtà farina del sacco di qualche giornalista: un buon motivo per relatizzare il valore dei recenti scoop sul DNA forse femminile rintracciabile sui relativi francobolli.
Dove i toni pacati di Begg tradiscono maggiore coinvolgimento è però appunto nelle pagine sulle lotte civili del decennio, come l’epopea dell’eroina femminista Josephine Butler contro i Contagious Diseases Acts, provvedimenti che per limitare la diffusione di malattie veneree finivano col ledere pericolosamente la libertà personale di tutte le donne; e soprattutto la battaglia contro la tratta di ragazzine britanniche in bordelli del Continente e in particolare belgi, denunciata da attivisti come la stessa Butler e dal giornalista William Thomas Stead (cfr. Victoriana 1). Nei fatti quello scandalo e appunto la mattanza di donne nei vicoli dell’East End fecero emergere al dialogo collettivo un tema fino allora indicibile come la prostituzione. Ed è un peccato che questa dimensione civile della saga di Whitechapel non abbia offerto letture cinematografiche migliori dello scipitissimo Love Lies Bleeding (in Italia Jack lo Squartatore) di William Tannen, 1999, con Faye Dunaway nei panni della coraggiosa Josephine.
Ulteriore merito di Begg sta poi nell’asciutta disamina che riserva ai sospettati d’epoca, senza (s)cadere nel gioco sensazionalistico definito da Alan Moore La Danza degli Acchiappa-polli. A meno infatti di straordinarie novità, è ben difficile che a distanza di più di un secolo si possa credibilmente identificare l’inafferrato assassino — almeno a livello di saggistica con pretese di serietà scientifica. In termini di fantasia narrativa la situazione è ovviamente diversa, e lo stesso Moore ha contribuito in questo senso con i testi del magnifico From Hell, in Italia apparso inizialmente a puntate e poi riunito in un unico monumentale volume per MagicPress, 2005. La grafica elegante e amara di Eddie Campbell offre a questo poema visionario un bianco e nero vertiginoso quanto sordido; e la tesi percorsa è quella della “cospirazione reale”, cioè la presunta finalizzazione degli omicidi a coprire uno scottante segreto dinastico — il matrimonio cattolico del nipote della Regina con una prostituta, e la nascita di una figlia. Un’operazione lasciata gestire dalla Corte a un medico di fiducia, il luminare massone Sir William Withey Gull: senza prevedere però che l’esecutore rileggesse il mandato alla luce di un personalissimo progetto simbolico, frutto di ossessioni esoteriche e misticheggianti, fino al cupo finale (il film derivato con Johnny Depp, 2001, semplifica forzatamente la trama). Benchè ingegnosa, suggestiva e rafforzata da un ricco apparato di note, l’idea della Royal Conspiracy sviluppata inizialmente da Stephen Knight (1979) e resa nota a più ampie platee da From Hell sembra però poco plausibile: si è per esempio osservato che una simile faccenda sarebbe stata risolta in modo più semplice e meno drammatico con un’adeguata sovvenzione. La tesi di Moore non pare insomma più fondata delle altre dileggiate nella citata Danza degli Acchiappa-polli che costituisce un’appendice, sempre a fumetti, a tutta la storia. Ma al di là della credibilità, From Hell resta un’opera di straordinario fascino, un affresco febbricitante e provocatorio, e una miniera di informazioni sull’orizzonte vittoriano.
Con valutazioni in fondo simili si può del resto avvicinare un’altra e più recente lettura dei fatti di Whitechapel: e se in From Hell il fumetto sconfinava nel romanzo-saggio, nel caso del bellissimo Le Memorie di Jack lo Squartatore di Clanash Farjeon, Gargoyle 2008, la forma-romanzo muove in direzione del monologo teatrale. Non casualmente, visto che l’Autore sotto pseudonimo — un anagramma — è il noto attore, regista di teatro e sceneggiatore Alan John Scarfe: e il racconto dalla viva voce di Jack ne svela subito l’identità per quello di un famoso psichiatra d’epoca, il quarantaquattrenne dottor Lyttleton Stewart Forbes Winslow, figlio di un illustre alienista e detrattore di Freud. A emergere è un personaggio un po’ svagato, egocentrico e logorroico che attraversa una breve stagione criminale come “catarsi dello spirito, […] ricerca di Dio primordiale, disperata, scomposta”, e approda infine senza rimorsi a una “salute spirituale”. Chi si aspetta il più comune Jack della vulgata, maniaco sessuale, artista odioso od occultista cultore di sacrifici umani, resterà spiazzato da questa figura di medico (relativamente) illuminato, difensore dei malati nelle perizie giudiziarie e per di più schierato in importanti azioni civili. Un ritratto, insomma, sul filo della più irriducibile ambiguità: anche se poi A Handbook For Attendants On The Insane (tale il titolo originale) confonde ancor più le carte, presentando il narratore Winslow come già morto, ma pronto a coinvolgere maliziosamente lo stesso Autore. “Che cosa penso di me? Ebbene, naturalmente, esisto solo nella mente di Mr Farjeon, comunque vediamo pure”…
La ricostruzione del mondo vittoriano offerta dal romanzo è spettacolare. Scarfe / Farjeon sa muoversi con l’agilità del suo protagonista nel convulso reticolo della Londra geografica come di quella (non meno complessa) sociale e culturale vittoriana attraverso il ricorso a una quantità impressionante di letture, dati e citazioni. E il tutto è impastato in un tessuto espressivo originalissimo, a tratti poetico, che consegna l’opera alla buona letteratura. Un tessuto ricco tra l’altro di slittamenti semantici e giochi di parole (vera sfida per la brava traduttrice Chiara Vatteroni) a evocare le strane espressioni, i lapsus, le frasi ambigue quasi mezze ammissioni contenute nelle memorie del Winslow storico — che certo non bastano a garantirgli la patente di Squartatore, ma aprono a dubbi e domande.
Anche se, a ben vedere, il mistero non verte tanto sull’identità dell’assassino. Jack Senza-Faccia — perché può averne tante, può averle tutte — è già l'(anti)eroe di un tempo nuovo, che cavalca e insieme si confonde con le sue proiezioni mediatiche, le sue infinite falsificazioni. E da questo palcoscenico continua allegramente a chiacchierare: nelle infinite lettere vere/apocrife a giornali e polizia, nella compiaciuta narrazione postuma offerta da Scarfe o magari in certi salotti televisivi odierni. L’Acchiappa-polli può essere dunque un gioco divertente, ma finisce lì.
Il mistero, quello vero, sta piuttosto nel dedalo di un East End tutto interiore, e in quell’incontro col Male che rappresenta uno dei temi-cardine del fantastico laico, moderno. A sorgere non è il cannibale di qualche racconto di esotismo nero, ma un’ombra spurgata dal civile Occidente: e se ci resta incomprensibile — per fortuna — la pulsione che spinge l’assassino del 1888, resta questo disagio per la nostra contiguità, questo sospetto sulla società e su noi stessi. La storia di Jack ha mostrato forse per la prima volta al grande pubblico come nessuno debba considerarsi innocente a priori, per il semplice fatto di vantare una certa nascita (un membro della Casa reale?), un ruolo sociale (un illustre professionista?) o la bontà di certe convinzioni. Ma insieme interpella, ancor oggi, sui sogni diffusi di un mondo violento e sessista cui tutti apparteniamo. Suggerisce un esame dei nostri modelli relazionali, e forse delle nostre fantasie. E costringe ad ammettere, come nella dedica dolente di From Hell alle vittime dello Squartatore: “Voi e il vostro decesso: di queste cose sole siamo certi. Buonanotte, signore”.