Quella che segue è la versione estesa di un colloquio/intervista avuto con Steve Lazarides, 39 anni, mercante d’arte inglese, qualche tempo fa a Clapham, South London. Lazarides ha iniziato a vendere i lavori del suo amico Banksy dal bagagliaio di una macchina. La fenomenale ascesa dell’ex graffitaro di Bristol è stata il traino di un’espansione straordinaria della cosiddetta “street art”, in cui Lazarides è specializzato: dopo mille mestieri manuali, ha aperto spazi a Greek Street (Soho), Rathbone Place, (Oxford Street) e ora Newcastle. Tra i suoi artisti il gotha della street art, come il collettivo Faile, Paul Insect, JR, ma anche nomi che con la strada hanno poco o nulla a che fare, come Antony Micallef e Jonathan Yeo. Molti di loro hanno un linguaggio fortemente politicizzato. Una minima parte di questa intervista è uscita sul numero 21 del settimanale Vanity Fair. Volevo pubblicare il resto in maniera integrale, senza nessun editing dettato dalle esigenze politico/editoriali della stampa mainstream. Ringrazio Carmilla per lo spazio accordatomi.
LAZinc, la tua galleria, è cresciuta in modo esponenziale negli ultimi tre anni.
«Per anni la gente è venuta ai nostri eventi e se qualcosa gli piaceva, se lo comprava. Ora è ancora così, solo che oltre al passa parola tra amici arrivano anche i collezionisti miliardari. E senza che noi facciamo niente delle stronzate delle grandi gallerie: intendo la promozione, eccetera. È molto semplice, il denaro serve a sostenere la galleria e l’artista, niente altro. Io scelgo qualcosa che mi piace, lo esibisco, e cerco di far venire gente diversa. Ho sempre pensato che non c’è niente di peggio che andare a una festa per scoprire che gli invitati sono tutte persone come te. È così noioso. L’ultima cosa che vuoi fare è trovarti gente sui quaranta con bambini, o ventenni con gli zainetti. Non c’è niente di meglio che andare a una festa dove c’è un ampio raggio di persone con le quali parlare e scambiarsi idee, siano adulti o adolescenti, per questo non c’è mai stata un’area VIP nelle nostre gallerie: le persone famose si mescolano con quelle normali, è sempre stato il nostro ethos. Per me, una galleria d’arte dovrebbe essere interessante ed accessibile a chiunque. Funziona così: la gente che ha i soldi paga, in modo che tutti gli altri possano vedere queste opere. Un po’ come se fossimo il cugino di un museo. I soldi delle vendite servono a tenere altre opere in esposizione e a fare cataloghi, in modo da diffondere i lavori il più possibile».
Come ti sei confrontato con il cosiddetto crossing over, il passaggio da un contesto underground al grande mercato?
«Non mi ha creato problemi. Niente nella storia dell’arte è rimasto per sempre underground. Bisogna fare una distinzione. Ci sono quelli che vengono lapidati perché hanno successo e quelli che lo sono perché si sono davvero venduti. Quanto a noi, siamo diventati noti nella scena e per questo continuiamo a fare di tutto per esibire cose nuove ed interessanti. Non sono certo uno che nasconde il lavoro di qualità solo per preservare un’etica alternativa, penso che sia sbagliato. Evolversi fa parte di un normale processo di crescita».
Quanto ha contato l’uso di internet nel diffondere i contenuti e i messaggi?
«Certo, mi piacerebbe poter rivendicare per noi tutto il merito di questo successo, ma è anche vero che i nostri artisti sono molto abili nell’uso della rete e mi chiedo perché mai non dovremmo utilizzarlo come strumento di promozione: è aperta 7 giorni la settimana, trenta giorni al mese, 24 ore al giorno e raggiunge qualunque parte del globo».
Come hai cominciato? Il tuo è un mestiere di solito appannaggio di chi ha un background privilegiato.
«Ho avuto un apprendistato nel mondo dell’arte molto fuori del comune, non ho mai nemmeno studiato arte a scuola. Sono cresciuto a Bristol, dove all’epoca i due predominanti datori di lavoro erano Rolls Royce e British Airways. Ho un background familiare abbastanza normale, una famiglia working class, mio padre è greco cipriota ma in vero stile mediterraneo non l’ho conosciuto che a 18 anni. A scuola è solo quando te ne vai che ti rendi conto che ti hanno insegnato soltanto a fare un mestiere predefinito: in questo caso un lavoro in una di queste due aziende. Dopo aver riempito i moduli per essere assunto mi resi conto che non era davvero quello che volevo fare. C’era un professore di fisica a scuola, il cui padre aveva lavorato in una schifosa serie televisiva girata a Bristol, Robin of Sherwood. Mi fece arrivare al set come assistente, mi piaceva veramente e rimasi fino alla maturità, per rendermi conto che per lavorare nell’industria cinematografica devi avere un titolo di studio artistico. Così, mi iscrissi a un corso di fondamenti della fotografia a Bristol, che era uno dei migliori nel paese. Riuscii a entrare presentando il portfolio di un altro. Poi andai a studiare cinema a Newcastle, ma odiai sia la città che il corso. All’inizio degli anni Novanta, durante l’ultima recessione e con la disoccupazione alle stelle, feci un lavoro noiosissimo di aiuto scenografo nei set fotografici. Poi approdai allo studio di un noto fotografo, di cui preferisco non fare il nome, disgustoso per il suo carrierismo. Da lì andai a costruire set cinematografici per anni, guidavo anche il furgone, l’unico lavoro in cui mi avessero pagato il giusto, anche se era molto, molto duro. Lavoravo in giro per tutto il paese, finché dissi alla mia compagna che non ce la facevo più, stavo diventando pazzo. Lei mi mostrò una rivista che andava all’epoca, si chiamava Sleazenation diretta da un amico, Steve Male: avevo continuato con la fotografia e ne divenni picture editor. Questo per quel che riguarda i lavori “artistici”. Ma ho anche fatto l’operaio in uno stabilimento di lavorazione del pollame, spiumavo polli, ho fatto il muratore, il DJ, ho lavorato per la British Telecom per un breve periodo…»
Perché vivi in South London?
«Vivo a Londra dal 1993, all’epoca tutti gli artisti e i musicisti volevano vivere a Brixton perché era il posto più cool ed economico: quello che oggi è diventata l’East End. Mi piaceva molto l’acid jazz, si andava al Fridge di a sentire Gilles Peterson che metteva i dischi».
La notorietà cambia la vita sociale. Hai avuto scontri con i tuoi amici e associati durante la tua ascesa?
«Sì. Ma è utile, perché ti insegna a capire chi sono i tuoi veri amici. Molti sono ancora quelli che avevo quindici anni fa. Non sono uno a cui piacciono le chiacchiere di circostanza con persone che non ti piacciono, solo per fare pubbliche relazioni, serve solo a perdere tempo. Preferisco stare con i miei veri amici e parlare di cose che ci stanno a cuore: mi serve a tenere i piedi per terra, soprattutto in tempi come questo».
La quantità di denaro che scorre nel mondo dell’arte, nonostante la recessione, è ancora incredibile.
«E noi che eravamo di piccolo cabotaggio ce la siamo cavata niente male: non capisco tutto questo piagnisteo e queste coltellate alla schiena che si danno nell’ambiente. Pensavano davvero che potesse durare per sempre? Anche un fottuto cieco nella nebbia avrebbe visto che a un certo punto sarebbe tutto finito. Ma sai che ti dico? Il mondo continuerà a girare, la gente continuerà a comprare opere d’arte… Dovrai rinunciare al jet privato e chiudere le 17 gallerie che hai in altri paesi, mantenere tutte le signore con cui ti accompagni… Ma se hai un buon occhio e buon gusto, tieni i prezzi a un livello umano e una buona base di clienti, continuerai a lavorare».
Dove hai preso il gusto e il senso degli affari?
«Tutti pensavano, all’inizio, che volessimo rompere apposta le regole. Ma la realtà è che delle regole non avevamo la minima idea. Ho fatto soltanto quello che credevo fosse logico e ragionevole. Il buon senso ti dice che se hai cinque quadri con quaranta persone che vogliono comprarli e che li vendi nello spazio di pochi secondi, vuol dire che la volta successiva puoi alzare un poco il prezzo e che li venderai lo stesso. Ma che se il prezzo sale troppo non funzionerà altrettanto bene. È un modo corretto di trattare i clienti. Tratta bene i clienti, non cercare di fotterli».
Ormai vendete i quadri “anche” a Angelina Jolie.
«Abbiamo amici nell’industria musicale e cerchiamo di non essere schizzinosi, come si è spesso nel nostro ambiente. Vendiamo a pop e movie star che forse altri snobberebbero: perché dovremmo? I loro soldi valgono quanto quelli di chiunque altro».
Quando avevi vent’anni, Bristol conosceva una grande fioritura musicale. L’hai vissuta?
«Vengo da un quartiere popolare, non sono mai stato un trendy kid. Mia madre viveva in periferia, il week end si andava in centro ad ascoltare i Massive Attack e alle serate di sound system, era un periodo molto creativo. Fino a poco prima, la città era quello che chiamavamo un “mercato di schiavi”: la squadra di calcio locale faceva schifo, non c’era assolutamente niente da fare. Poi venne il Wild Bunch (il collettivo di Massive Attack, Tricky e Portishead). Capitai al corso di fotografia con Mushroom (Andrew Vowles) dei MA. Di lì a poco, molti di loro avrebbero fatto grandi cose. Penso a Nellee Hooper, penso a Del (Naja, Robert): era davvero un periodo d’oro, straordinario. I Portishead avevano appena fatto il disco omonimo, c’erano Tricky e Martina Topley-Bird. La maggior parte di loro è rimasta quello che era. Del, per esempio: va ancora al pub di sempre per una birra ogni tanto. Ed è una superstar, ha venduto decine di milioni di dischi».
È allora che hai conosciuto Banksy?
«No, è successo molto dopo a Londra».
Condividi la carica anticapitalista di alcuni dei lavori dei tuoi artisti mentre ne vendi le opere?
«Una delle ragioni per cui nel senato americano, per la prima volta, destra e sinistra si sono trovate d’accordo nel votare contro il salvataggio di Lehman Brothers era perché la sinistra non voleva che il pubblico pagasse gli errori del privato, mentre la destra temeva l’avvento di uno stato socialista, che centralizzasse tutto. Non credo sarebbe affatto male tornare ad una situazione in cui lo stato si prende cura del popolo e controlla le banche. E dove per una volta non fosse la solita avidità individuale a farla da padrone. Ho sempre pensato che la caduta del comunismo fosse un guaio: non perché sia comunista, ma perché ha persuaso il mondo che l’American Way al capitalismo fosse giusta. È terribilmente falso».
Quando incontri e discuti con gente come Jay Joplin e Charles Saatchi, come proteggi la tua identità?
«Sono persone di straordinario successo, ma non quello che io voglio essere o diventare. Hanno guadagnato il loro posto nella hall of fame. Jay ha messo su delle mostre stupende negli anni».
Outsiders, la tua mostra a New York, è stata un successo folgorante. Me ne parli?
«È stato folle, incredibile. L’allestimento è costato un’enorme quantità di soldi. Ci siamo riusciti al ventesimo tentativo: lo spazio c’era e poi non c’era, un delirio. Il posto preventivato non era disponibile, ma ormai ci eravamo messi in moto, così ne abbiamo trovato un altro, che però era in corso di ristrutturazione: praticamente un cantiere, è costato 50.000 dollari solo renderlo a norma. Siamo andati dalla vecchia scuola dei graffitari di NY a dire loro quanto ci avevano ispirato e invitarli allo show. Gente come Haze e Daze: autentiche leggende. Ed è stato stupendo vederli mettere tutto il loro entusiasmo a sostegno della mostra. E poi anche personaggi come Jeffrey Deitch (noto gallerista ed esperto d’arte newyorkese, NdA), che rispetto per quello che fa, che ha sempre sostenuto in maniera incrollabile la Street Art fin dai tempi di Keith Haring e non ha annusato l’aria per poi sparire, come molti altri come lui. Insomma, lo show è stato visto da tutti quelli che avrei desiderato lo vedessero e tutto questo senza aver fatto pubblicità: nessun depliant, nessun annuncio sui giornali, si è diffuso soltanto per passa parola. Alla fine, secondo il contapersone all’ingresso, abbiamo avuto circa 35mila visitatori nello spazio di 27 giorni. Un risultato da mostra di museo blockbuster. Funziona così: se esponi dei buoni lavori le persone verranno a vederli, lo diranno ai loro amici e via così. New York è l’unico posto al mondo dove le persone vengono da te e ti ringraziano per aver allestito una mostra. È una cosa che non potrebbe mai succedere qui, ed è la differenza principale tra gli americani e gli europei. Lì se hai successo ti ammirano e si congratulano, qui ti invidiano e ti fanno la guerra. La mostra ha anche venduto molto bene. Ricordo il giorno dopo quando ho visto i giornali in albergo che AIG e Lehman erano crollate e ho detto «Merda, non abbiamo nemmeno aperto e il mondo è finito», ma la gente continuava a venire. Certo, siamo riusciti a malapena ad andare in pari, ma è stato comunque un successo straordinario».
Si può vivere non di solo profitto?
«È questo che ci spinge: mettiamo su una mostra che ci piace perché ci piace: da troppo tempo c’è il dogma per cui le mostre si fanno solo per vendere. Secondo noi si fanno per fare una buona mostra, che la gente venga a vedere e che ci si diverta. Se copri i tuoi costi, ottimo, se non ci riesci avrai comunque fatto un buon lavoro e la gente se ne ricorderà per sempre. Guarda Sensation di Saatchi (la mostra alla Royal Academy dei primi Novanta, NdA): verrà sempre ricordata. Non bisogna avere fretta, non devi pensare solo a vendere vendere vendere, ci vuole una visione di lungo periodo, ci sono carriere da costruire, abbiamo una vita davanti. Il dilemma fra la necessità di guadagnare e la voglia di fare una cosa solo perché ti va di farla e ci credi è conciliabile, una cosa può alimentare l’altra. Per il 2009 abbiamo in mente di fare delle mostre non per la vendita, dove la gente viene esclusivamente per divertirsi e nient’altro. Uno show puro, insomma. Sappiamo che la gente non ha soldi e se li ha, li tiene per fare altro, magari aspetta, sapendo che l’opera scenderà di prezzo. Per cui chi se ne frega: perché non fare una cosa semplicemente per divertirsi? Invitare il pubblico a una cosa che gli piace e senza la pressione di dover spendere soldi piuttosto che vendergli delle cose per forza. Come gallerista il mio lavoro è nutrire nuovi talenti investendoci i soldi guadagnati. Ciascuno è libero di spendere i suoi soldi come vuole, se vuoi fare la vita da nababbo va bene, ma a un certo punto questo denaro deve essere investito negli altri: per questo stimo moltissimo uno come Damien (Hirst), che secondo me è a suo modo uno dei massimi filantropi in circolazione. Per il semplice fatto che sostiene così tante persone, comprando i loro lavori e non solo. Da noi ha comprato le cose di svariati artisti, tra cui Paul Insect. Tutti lo considerano nient’altro che un bieco materialista, secondo con me è una specie di Robin Hood del nostro tempo, un visionario che ridistribuisce ricchezza attraverso progetti spesso folli come Toddington Manor (la cadente mansion vittoriana che Hirst ha comprato e che vuole convertire a museo, NdA)».
Ti sta stretta l’etichetta di “graffiti dealer”?
«Noi non siamo esclusivamente street art, ma siamo categorizzati come tali, sempre. Certo, molti artisti lo sono, ma non tutti. Uno come JR non fa graffiti. O Anthony Micallef, che non ha niente a che vedere con la strada. Ci scende per comprare il latte al massimo».
Come trovi nuovi talenti?
«Attraverso internet, ma attraverso gli artisti, soprattutto. Sono molto competitivi e sanno perfettamente quello che di buono si sta producendo in un dato luogo in un dato periodo: sono loro che mi consigliano. Le cose di norma gravitano assieme. Pensavo all’inizio che sarei stato sommerso da gente che voleva propormi il proprio lavoro, ma non è stato così. Non so come mai, forse perché abbiamo un roster di nomi molto validi. Siamo come un’ottima squadra di calcio: se vuoi giocare con noi devi essere bravo. La rosa intimidisce».
Stai mettendo insieme una tua collezione?
«Lentamente, a poco a poco, non amo chiedere i pezzi ai miei artisti, non è delicato e soprattutto non lo trovo giusto».
Come ti relazioni con i personaggi tipici del tuo ambiente, ovvero gli ex banchieri o le ragazze di buona famiglia che decidono di diventare galleristi?
«Sono molto migliorato. Prima ero un terribile inverted snob. Ma adesso ho imparato che si trovano stronzi in ogni classe sociale e in ogni ambiente. Essere ricco non fa di te automaticamente uno stronzo. Le difficoltà economiche non devono diventare una scusante per comportamenti sbagliati. Ma a un cliente che ritengo uno stronzo, tendenzialmente non vendo il quadro, i suoi soldi sono meno benvenuti di quelli altrui».
Credi che quello che stai facendo abbia un impatto simile a quello che ebbero gli Young British Artists all’inizio degli anni Novanta?
È un paragone molto lusinghiero. È abbastanza vero, però. Abbiamo ottenuto a livello populista quello che questi artisti non avrebbero nemmeno mai sognato di raggiungere, a parte forse Damien Hirst. Prendiamo un artista come l’italiano Blu: la sua animazione su YouTube ricevuto qualcosa come 5 milioni di accessi. Quale altra galleria può dare a un artista quella visibilità?»
Che effetto ti fa avere potere nel mondo dell’arte?
Lo trovo divertente. La cosa che mi dà più fastidio, non è tanto che ci copino, ma che lo considerino solo come un modo sciatto di fare soldi. Per anni abbiamo avuto l’idea di prendere le cose più incredibilmente oltraggiose di alcuni di noi e fingere che fosse la next big thing, in modo da vedere se tutte le altre gallerie ci seguivano. Non per sfottere il pubblico, quanto gli addetti ai lavori».
Porteresti uno show in Italia?
«Mi piacerebbe molto, ho buoni amici a Bologna e mi piace Milano».
Un altro piano B, nel caso il capitalismo finisca?
«Facciamo un bel mercatino delle pulci e svendiamo tutto. Che altro puoi fare, piangere di notte sul cuscino»?