Di Massimiliano Guareschi

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Proviamo a fare un esperimento, avanzando l’ipotesi che il nostro presente manifesti, per certi versi, una serie di analogie con la fase che accompagna il compiersi della rivoluzione industriale. Lo scenario di questa ucronia è quello della città dickensiana, dell’immaginario steam punk, della working class manchesteriana descritta da Engels. La società feudale è stata travolta, le enclosure (delle terre, destinate all’allevamento intensivo) hanno travolto le forme di organizzazione del mondo rurale, con la conseguente espulsione di massa di una popolazione a cui, nelle nuove condizioni, non è più possibile sopravvivere.

Le grandi città sono la meta ovvia per moltitudini di individui che per garantirsi la sussistenza devono vendere l’unica cosa su cui posano contare, la loro forza lavoro. In tale movimento può essere colto il versante affermativo della liberazione da servitù consuetudinarie, dall’autorità paternalista del signore, dalla soggezione al magistero del curato, dall’ossequio a orizzonti limitati. Marx, con entusiasmo modernista, non mancava di sottolineare questi aspetti emancipatori, nell’intento di tracciare un quadro della transizione in atto che non fosse solo a tinte fosche e non si prestasse a un equivoco, quello della nostalgia, del rimpianto per il “bel tempo che fu”, allora come oggi topos di ogni conservatorismo nostalgico, di destra come di sinistra. Se risultava impossibile, e nemmeno auspicabile, fare macchina indietro, non restava che prendere il “toro per le corna” e confrontarsi con il nuovo scenario alla ricerca di risposte alla situazione di miseria, sfruttamento, mancanza di garanzie, assenza di reti di tutela che caratterizzava la condizione di quella nuova figura, al crocevia fra dato oggettivo e comprensione soggettiva, che si sarebbe definita “proletariato”. Intorno alla “questione sociale”, questo il nome in cui il dibattito. Certo, abbiamo la tradizione marxista e socialdemocratica, il socialismo scientifico e il modello di organizzazione destinato a prevalere, sul lungo periodo, nelle varianti socialdemocratica e comunista, all’interno del movimento operaio. Ma non solo. Sulla “questione sociale”, questa la formula a cui all’epoca si ricorre, magari per neutralizzarne la portata politica, per indicare il corpo di problematiche legate all’industrializzazione, all’urbanizzazione e alla proletarizzazione di una crescente porzione delle classi subalterne si confrontano una pluralità di posizioni e approcci, caratterizzati da differenti coefficienti di radicalità e animati da propositi spesso opposti. In una situazione fluida, i rapporti di forza fra le varie proposte per modellare i lineamenti di quello che sarà il movimento operaio non sono dati a priori, come si potrebbe pensare proiettando gli esiti sulle origini. Fra azione politica e mobilitazione sindacale, fra forme di mutualismo e spirito di carità, fra progetti riformisti e pratica rivoluzionaria entrano in campo, con le loro specifiche risposte e proposte marxisti, cristiano sociali, socialisti utopisti, fourieristi e saint-simoniani, riformatori morali, cartisti, luddisti, anarchici di vario tipo.

L’analogia che si voleva suggerire, in via sperimentale, è duplice. In primo luogo, ci troviamo a fare i conti con il lascito di decenni di trasformazioni radicali che hanno travolto le geografie politiche e i modelli di riferimento a cui il Novecento ci aveva acclimatizzato. Alle nostre latitudini si è parlato di “postfordismo” o di “nuovo spirito del capitalismo” per significare da una parte la profonda ristrutturazione del sistema produttivo rispetto alle forme del capitalismo industriale, dall’altra il dissolversi delle garanzie e della forza contrattuale che il lavoro e le sue rappresentanze avevano stabilito sul piano politico-sindacale. Sintetizzando, con la cosiddetta “precarizzazione” si assiste a una sorta di ritorno a uno scenario da rivoluzione industriale, in cui il lavoro viene venduto come semplice merce a un prezzo stabilito dalla domanda e dall’offerta, in un mercato retto dalla finzione di una simmetria fra compratore e venditori, entrambi formalmente liberi di accettare o meno l’offerta della controparte. Se la vicenda novecentesca del movimento operaio può essere compendiata nella trasformazione del lavoro da merce in status, per cui l’accesso alla forza lavoro è condizionato alla garanzia di uno stock di diritti, in termini di continuità, sicurezza sociale, forme retributive ecc. a formule contrattuali ricalcate sulla mera compravendita della forza lavoro del singolo lavoratore.

Ma le analogie possono essere colte anche sul piano soggettivo. Anche a fronte degli sconvolgimenti che hanno caratterizzato questi ultimi decenni, l’articolazione delle possibili risposte avviene su un registro plurale, senza che alcuna proposta riesca ad apparire a qualsiasi osservatore non accecato dall’ideologia come autosufficiente o in sintonia con il cammino della storia. Ed è qui che intercettiamo l’indagine policromatica intorno alla quale ruota il libro di Alex Foti Anarchy in the EU. Movimenti pink, black, green in Europa e Grande Recessione (Agenzia X, pp. 238, euro 16). Si parte da quattro colori, pink, black, green e red, identificati come lo spettro della ribellione. Se ne tratteggia la storia e la geografia, in direzione del presente. Il rosa del trangender e del queer, il nero dell’anarchia, il verde dell’ecologismo, il rosso del comunismo. La quadricromia da subito si trasforma però in tricromia. L’analisi di Foti sconta infatti la consapevolezza che una fase si è definitivamente chiusa. Quel rosso, che nelle sue varie gradazioni ha rappresentato la tonalità dominante del movimento operaio così come lo abbiamo conosciuto, avrebbe perso oggi qualsiasi capacità di incidere positivamente sul reale. Retrospettivamente, si potrebbe lamentare come l’inerzia nel non liberarsi di quella tradizione (delle sue forme e delle sue retoriche) abbia intaccato, per tutto il tardo novecento, la capacità di spezzare compartimentazioni e schieramenti, di declinare politicamente i potenziali emancipatori e libertari di una serie di passaggi. Ma la di là delle nostalgie per un passato che non è stato, l’analisi di Foti si concentra sull’inefficacia di partiti e partitucoli ormai ridotti a una funzione di testimonianza, di culto dei simboli e dei cimeli, in preda a una schizofrenia fatta di formule astratte e roboanti e timidezza politica. Con quel tipo di immaginario, di retorica calibrata su miti relativi a un altrove, magari a latitudini esotiche, in cui nessuno poi vorrebbe veramente vivere, ben difficilmente si può pensare di potere aggregare una massa critica in grado di spostare i rapporti di forza e aprire nuovi scenari. Diversamente, è la tesi del libro, il movimento noglobal, la realtà da cui, volenti e nolenti si deve partire, nei suoi momenti di più forte impatto ha saputo coniugare i colori pink, black e green. L’aggressività del nero, come non disponibilità ad accettare le regole stabilite dai tutori dell’ordine e dai sostenitori di una politica ridotta a galateo e gioco delle parti, in cui non esistono interessi divergenti e si è tutti amici. Il pink, antidoto alla rudezza black e, allo stesso tempo, vettore di trasversalità e spiazzamento creativo. Il green dell’intervento diretto sulle grandi questioni della sopravvivenza del pianeta e dell’uso del territorio. Tutti questi colori presi singolarmente sono insufficienti, passibili di ripiegamento identitario (il black), effimero (il pink), settoriale o “austerity style” (il green). Ma quando riescono a operare insieme qualcosa si muove. Altre tonalità si potranno poi aggiungere. E allora l’Anarchy in the Eu del titolo significa in primo luogo due cose. Anarchy non in termini di rivalutazione dell’anarchismo storico, non raramente dogmatico quanto le sette comuniste e comunque irrimediabilmente legato al passato, ma l’anarchia sottoculturale, rubrica di insubordinazione, costruzioni di reti e attitudine Diy (Do it yorself): in sintesi: l’anarchy lifestyle. E poi Eu, come contesto privilegiato, per noi che viviamo in questa porzione del pianeta, in cui cercare di costruire vertenze e mobilitazioni, superando l’angustia della dimensione nazionale ma senza per questo cadere in un generico globalismo. Da una crisi si può uscire da destra o da sinistra. Individuando uno o più capri espiatori su cui convogliare il malessere sociale oppure implementando assetti redistributivi più equi, ampliando le garanzie sociali e lo spazio dei diritti, ricostruendo uno status del lavoro. Si tratta non semplicemente di dare addosso agli speculatori ma di invertire la rotta intrapresa negli ultimi decenni. Ma ciò non avverrà per libera scelta dei governi. Bisogna costringerli a farlo.