di Valerio Evangelisti
[Questo articolo è apparso, con altro titolo, su Liberazione del 19 maggio 2009. Lo stesso giorno, su il manifesto è apparso un articolo analogo, a firma L.G., in cui il Mario Benedetti dell’Uruguay era confuso con l’omonimo poeta italiano, e gli si attribuivano opere di quest’ultimo: “Umana gloria”, “Pitture nere su carta”. Ciò non è ammissibile. Non si celebra un grande con frettolose consultazioni su Internet Bookshop e simili.]
“Ho un domani che è mio e un domani che è di tutti. Il mio termina domani, però sopravvive l’altro”. Così aveva scritto Mario Benedetti, uno dei massimi poeti e scrittori latinoamericani, dando prova di umiltà e, nello stesso tempo, riferendosi al proprio costante impegno in campo politico e sociale.
Benedetti è morto domenica 16 maggio, e non si può dire che si sia trattato di un evento inaspettato: aveva 88 anni, soffriva di insufficienza renale. Ciò non attenua il dolore di generazioni intere che si sono nutrite dei suoi versi, dei suoi articoli, dei suoi saggi ispirati a una visione mesta e ironica della vita e a una ribellione incessante contro l’ingiustizia e la tirannia.
Era nato in Uruguay da una famiglia italiana, che lo aveva battezzato Mario Orlando Hamlet Hardy Brenno (quest’ultimo era anche il nome di suo padre). Dopo mille mestieri, diventò redattore del settimanale Marcha, uno dei più influenti del continente. Un colpo di Stato militare, nel 1973, lo costrinse a un esilio che si sarebbe protratto dieci anni, mentre il governo uruguayano faceva pressione sui paesi in cui trovava rifugio perché gli restituissero il fuggitivo, accusato di appartenere al movimento dei Tupamaros. In Perù fu arrestato e deportato, ma poté beneficiare di un’amnistia. Si trasferì a Cuba e poi a Madrid.
Intento la fama di Benedetti cresceva e si moltiplicavano i riconoscimenti. L’ultimo gli è giunto dal Venezuela, dove il governo di Hugo Chávez ha concesso nel 2007 al poeta, per meriti culturali ed educativi, la più alta onorificenza prevista in quel paese. Molto stretti anche i vincoli con Cuba, di cui Benedetti apprezzava al massimo grado l’azione antimperialista, pur criticando la mancata abolizione della pena di morte e la tendenza alla burocrazia (da lui considerata, però, fenomeno universale). Parole di sentito appoggio Benedetti ha rivolto alla “originalità” degli zapatisti messicani, così diversi dai movimenti guerriglieri che pure aveva appoggiato in gioventù.
Sono numerosi i musicisti latinoamericani che hanno usato i versi di Benedetti per le loro composizioni, e un film argentino tratto da un suo testo, La tregua di Sergio Renán, rischiò di vincere nel 1974 l’Oscar per il migliore film straniero (poi andato ad Amarcord di Fellini).
Le fortune di Benedetti in Italia sono state più limitate (ma è facilmente reperibile il bellissimo, commovente romanzo La tregua e varie antologie sono state pubblicate da piccoli editori), anche per il clima politico che grava da oltre un decennio sul nostro paese. Va tenuto presente che, in una delle sue poesie (Un caso disperato), Benedetti confessava l’impossibilità, per lui, di astrarsi dal reale: se anche avesse trattato di Atlantide, vi avrebbe cercato torturati e carnefici, sfruttati e sfruttatori.
Se esiste un aldilà, mi figuro il poeta cercare anche in quel luogo tracce di oppressione, per schierarsi, come ha fatto tutta la vita, a lato del più debole e dargli voce.
Carmilla ha pubblicato tre poesie di Mario Benedetti: vedi qui, qui e qui.
L’omonimo italiano è vecchio amico della nostra testata.
Un bellissimo documentario su Benedetti è qui.