di Filippo Casaccia
Per molti anni ho avuto sopra la testa, come vicino di casa, un pianista – oltretutto molto scarso – che suonava tutto il giorno fino a sera inoltrata. Per cui so cosa significa vivere con un vicino fastidioso. Nel caso del popolo messicano avere un vicino fastidioso significa grosso come Schwarzenegger, aggressivo come Rambo e intelligente come Rocky.
Ed è quindi anche con un senso di rivincita che seguo da un po’ l’ascesa di Rodrigo e Gabriela : in un momento in cui ci fan credere che dal Messico arrivi solo una fantomatica febbre suina (sicuramente meno pericolosa di un singolo di Povia), è un piacere vedere due musicisti locali conquistare prima il mercato indie e poi intaccare le sicurezze di quello mainstream USA. E farlo con due chitarre acustiche.
E non è finita: farlo con due chitarre acustiche che si scatenano su cover metallare e temi jazz e latini. Però non parlategli di flamenco, se no s’incazzano: alle nostre orecchie può essere tutta la stessa pappa, ma per loro, puristi, dirlo è una bestemmia. La storia sembra una di quelle fiabe che servono a illudere chiunque imbracci una chitarra pensando di diventare domani una rockstar. Rodrigo e Gabriela sono figli della borghesia di Città del Messico. Sui vent’anni hanno i loro bravi gruppi metal. Di sole donne per Gabriela, di maschiacci per Rodrigo. Suonano thrash, bello cattivo, affascinati dal sound di Metallica, Slayer e Testament. Ma le rispettive band non vanno da nessuna parte. I nostri due eroi si incontrano alla Casa della Cultura della capitale, fanno coppia sentimentalmente e decidono di unire le forze anche in musica. Il metal non funziona e ripiegano sulle acustiche e così bastano due ampli da battaglia, forza interpretativa e alcune idee. Si fanno le ossa tra gli yanqui che infestano Playa del Carmen, tra i bar e le spiagge, sopportando la dura gavetta di chi si sente chiedere musica tradizionale, perché se non ascolti Cielito Lindo davanti al Golfo, allora non ti sembra di essere in Messico. Stufi marci dei turisti nordamericani i due decidono allora un passo folle. L’Europa, dove nessuno pretenderà finta musica mariachi. Ma andare in Spagna sarebbe troppo facile. Per cui si va un po’ in giro per le strade del vecchio continente per poi fermarsi in Irlanda, che per due busker significa scegliersi la porzione di territorio europeo più piovosa che esista. Intanto i due chitarristi allargano il repertorio con la musica con cui sono cresciuti. Chiaramente la sensualità e i ritmi messicani, ma anche alcuni brani dei Metallica che perdono watt ma acquistano nuances inaspettate. E poi c’è la lezione di Friday Night in San Francisco, l’epocale album di Al Di Meola, John McLaughlin e Paco De Lucia che ha fatto capire al mondo che con delle chitarre acustiche si può far crollare un locale. In repertorio entrano anche altro rock, il tango di Piazzolla o il jazz di Take Five, tutti interpretati con assoli sparati e ritmiche terremotanti. Gabriela usa la chitarra come un tamburo: gratta accordi con la precisione e la potenza di un locomotore e abbellisce il tutto con colpi di mano, di polso e di dita. Sembra di sentire due chitarre e due percussioni e invece è solo lei, dalla faccia nobile e dall’imprevedibile gesto delle corna per ricordare sempre (musicalmente) da dove viene. Rodrigo invece corre sul manico come uno Speedy Gonzales e ti lascia senza fiato, svisando da consumato shredder, senza abusare però di amplificatori e distorsioni ma semmai sfruttando tutte le sonorità della chitarra: le corde possono essere stoppate e soffocate, grattate e accarezzate, suonate col plettro o con le dita, fatte rimbalzare sul manico o strappate vicino al manico o attaccate al ponte. Mille timbri che non penseresti mai possan venire fuori da quel pezzo di legno.
Insomma, pur faticando a mettere assieme pranzo e cena, i due conquistano i passanti di Dublino e da lì passano ai pub. Poi non basta più e si finisce nei teatri e nelle sale da concerto e la voce comincia a correre. In due anni Rodrigo e Gabriela tirano fuori un primo disco autoprodotto, poi un live e diventano l’ultima sensazione del mercato indie. Youtube fa il resto, sinché non esce l’album Rodrigo y Gabriela che arriva a vendere mezzo milione di copie in tutto il mondo. In un momento in cui ti regalano un finto disco di platino per 80mila copie (ah ah: un tempo quello d’oro era per il milione di copie!) che venda questa cifra un duo acustico, messicano, autoprodotto, indipendente e senza supporto promozionale, è la dimostrazione che in epoca di downloading si può vivere e neanche malaccio se si hanno le idee chiare e se si fan fuori tutti i parassiti che vendono la musica come le zucchine.
Rod y Gab partono praticamente per un tour infinito in giro per il mondo, arrivando a riempire le sports arena degli USA, in un crescendo inarrestabile che dimostra come la musica possa prevalere su qualunque analisi di marketing o strategia dei guru dell’industria discografica, quelli che Rodrigo definisce pinche, cioè stronzi.
Adesso è uscito Live in Tokyo, album dal vivo scatenato che, chiaramente, qui da noi nessuno s’è preoccupato di importare. Poco male, con tre click lo avete andando qui. Il disco documenta una torrida serata in cui vengono snocciolate le imprevedibili hit del duo. E vi verrà l’acquolina in bocca. In Italia son già venuti due volte e hanno sempre conquistato il pubblico. Qualche chitarrista iperpreciso e un po’ fesso vi potrà dire che magari il tocco non è pulitissimo o che Satriani sa essere più definito. Ma… ‘sti cazzi! Io li ho visti al Music Drome di Milano ed è stata una serata di comunione musicale con le più lontane comunità immaginabili: metal militia in canotta e signore con cappottino e borsetta. Tutti a fare l’headbanging o a provare qualche passo latino, tutti assieme appassionatamente, tutti felicissimi, mentre dal palco arrivavano le schitarrate di Tamacun o le citazioni furbette dei White Stripes (Seven Nation Army, tanto per cambiare), dei Pink Floyd o dei Led Zeppelin . Ma è il modo, l’atteggiamento, che rende tutto diverso e per niente ruffiano. È come se fossimo tutti attorno al fuoco, in spiaggia, ma in un gruppo di strani amici metallari perché il singalong è su melodie che non trovereste in un gruppo di boy scout.
In missione da gonzo journalist, prima del concerto ho incontrato i due, che di interviste non avevan voglia per niente. Il manager mi chiede di essere molto veloce e, gentilmente, di evitare domande sulla coppia. La cosa non si mette bene, penso: vuoi vedere che fanno già i divi? E invece no: gli arrivo in camerino fradicio di pioggia, accendo il registratore e si compie il miracolo. Sono simpaticissimi e di parlare han voglia eccome. Siccome abbiamo tutti un inglese pessimo la conversazione fila via benissimo e vengono fuori piccole grandi verità, come “Acoustic means freedom!”. Poi mi dicono che finché non sono andati in Irlanda non sapevano cosa fosse l’inverno. Che le etichette non significano una minchia e che non ne potevan più di gente che si aspettava solo che suonassero boleri. Rispettano Carlos Santana (“Ma lui non è del Messico… è del mondo!”), odiano il film Apocalypto, idolatrano il calciatore Hugo Sanchez, ammirano e diffondono per quanto gli è possibile il pensiero del Sub Comandante Marcos. Parlare del Chapas serve sempre, perché i pochi diritti conquistati dagli indios vanno difesi strenuamente. Sono schifati dalla politica USA e dal Muro, ma anche abbastanza lucidi per ammettere che anche il Messico si comporta così col Guatemala.
Insomma, sono anche loro cittadini del mondo, intelligenti, vivi, pronti alla prossima sfida. Non gli par vero di parlare di queste cose e non mi lasciano più andare via, mentre il manager si comincia a stufare.
Finisce a pacche sulle spalle e abbracci.
La rivoluzione messicana è cominciata di nuovo.