di Francesco Lo Duca
Qui le precedenti puntate.
“Sta nel sogno dei teppisti
e nei giochi dei bambini
nel conoscersi del corpo
nell’orgasmo della mente
nella voglia più totale
nel discorso trasparente…”
Tormenta l’arma che a tratti sembra bruciare in fondo alla tasca. Poi, lentamente ,scivola in una sorta di auto-analisi/auto-assolutoria che ben conosce. “Come è successo che, dopo, al delirio esaltante dello stare insieme per distruggere un mondo marcio, per progettarne un altro perfetto o anche solo per il bisogno fine a se stesso di stare insieme, di riconoscersi e raccontarsi un futuro “radioso” con lo sguardo sempre rivolto al sol dell’ avvenire, si è aggiunto un delirio diverso, altrettanto esaltante ma figlio della morte?”.
Gli torna in mente una domenica mattina, forse era il 1970.
C’era un presidio in Piazza Maggiore contro i goliardi che avevano ampiamente rotto i maroni con le loro feste delle matricole, gli atteggiamenti fascistoidi e la mania d’incantonare pesantemente le tipe che incontravano.
Un bel sole intiepidiva il crescentone pullulante di gente, di canti, di bandiere rosse; ogni tanto una macchina carica di goliardi sfrecciava attraverso la piazza in segno di sfida.
A un certo punto, durante uno di questi raid, un gruppo di compagni si era lanciato compatto all’inseguimento e avevano raggiunto un vecchio maggiolino i cui occupanti si sbracciavano in saluti romani. Tutti brandivano manici di piccone e in pochi secondi avevano trasformato l’auto in un catorcio ammaccandone non troppo pesantemente i passeggeri.
Contemporaneamente, legata a decine di palloncini si levava lentamente verso il cielo una bandiera metà rossa e metà nera con una grande A cerchiata al centro, seguita da applausi e urla.
Rocco era rimasto come in trance di fronte alla prima espressione di “violenza politica” cui assisteva. Un’esplosione di rabbia vissuta e agita collettivamente, con spontaneità, senza grevità o paranoie, quasi con gioia, come se fosse naturale combinare “peace and love” con bastoni e sampietrini.
Erano volate mazzate e schegge di parabrezza infranti mentre decine di giovanissimi rivoluzionari si baciavano in mezzo ai balli e ai canti.
Si era voltato ed aveva visto accanto a sé Marta, la ragazza dagli occhi blu del Liceo Artistico già vista al circolo anarchico di Via Paglietta. Si erano guardati e in silenzio si erano abbracciati, felici entrambi di esserci, con la voglia di vivere e con l’entusiasmo di cambiare il mondo che gli pulsava nella testa. Dall’alto dei loro quindici anni.
Il ricordo sfuma attenuando le immagini e le emozioni, l’asma da lacrimogeno e la nausea invece persistono.
“E poi, cos’è successo? Quando il retaggio dell’educazione borghese e cattolica, fondata sulla sottomissione ai poteri costituiti, ha lasciato il posto al piacere fine a se stesso per lo scontro? Quando ho smesso di ripetermi che la nostra era una violenza necessaria, in risposta alla violenza del potere che ci costringe a resistere opponendo violenza a violenza. Quando cazzo è successo che il desiderio dello scontro non ha più avuto bisogno dell’alibi della ‘causa nobile’, della giustizia sociale, della lotta di classe?”
Una inquietudine oleosa s’insinua sotto la pelle ogni volta che il rewind della sua vita arriva a quel punto.
Rocco conosce la risposta. Non c’era stato nessun momento topico, nessun “cataclisma” che avesse sancito il passaggio dall’ idealismo adolescenziale alla “sovversione criminale”, come ama definire lo Stato qualunque attività politica o “criminale” compiuta da altri e al di fuori delle sue trame.
Tutto era semplicemente successo. Un veleno traditore lentamente si era sciolto nelle vene di una bella fetta della generazione nata dal boom economico, mentre un’altra bella fetta di quella generazione decideva di crepare sciogliendosi nelle vene un veleno molto più traditore, ma per niente pericoloso per il potere, anzi, straordinariamente funzionale.
Ogni volta che quella parte di generazione aveva subito violenza, ogni volta che aveva dovuto pagare un tributo di sangue alla brutalità degli apparati repressivi, in divisa o in camicia nera, un po’ di quella violenza le era rimasta appiccicata addosso, le si era conficcata nell’anima.
Ogni volta che le immagini delle stragi fasciste, come in Piazza Fontana o come a Brescia nel ’74, avevano riempito gli occhi di quella generazione di corpi straziati, di orrore, di morte, quello stesso orrore aveva confermato la necessità di resistere, a tutti i costi e con qualsiasi mezzo, alla guerra civile strisciante teorizzata e agita dalle forze del capitale per distruggere ogni spinta antagonista, rivoluzionaria, o anche semplicemente riformista nel Paese.
Quella generazione aveva continuato a vedere sbirri massacrare e incarcerare, fascisti uccidere, terrorizzare gente ovviamente inerme. Aveva continuato a contare, giorno dopo giorno, i morti ammazzati sui posti di lavoro in nome del profitto, le donne ammazzate d’aborto sui tavoli delle mammane, ma si era stancata di invocare un qualsiasi dio della vendetta che incenerisse tutti gli aguzzini della terra, non voleva più piangere lacrime di rabbia perché, alla fine, la morte e l’ingiustizia vincono sempre.
“Per i compagni uccisi / nessun lamento / linea di condotta / combattimento”
L’ideologia e la letteratura rivoluzionaria avevano fatto il resto.
L’ evidenza storica che ogni rivoluzione, da quella francese a quella russa, fino a quella spagnola del ’36, fosse stata combattuta con le armi, l’ancora viva presenza dei protagonisti della guerra partigiana, temporalmente non troppo distante da quella generazione, e del tutto contigua a quella precedente che aveva fatto il ’68, era da sempre un fondamento costituente del movimento rivoluzionario che dalla metà de anni ’60 aveva iniziato a porsi il problema dell’uso della violenza, dei tempi della lotta armata e della conseguente insurrezione, considerati come unico ed inevitabile percorso verso la rivoluzione e il comunismo.
“Tutto il mondo sta esplodendo /
dall’ Angola alla Palestina /
L’America Latina sta combattendo /
La lotta armata vince in Indocina… “
C’erano stati e c’erano, ovviamente, i miti contemporanei. Da Durruti alla rivoluzione cubana, il Che in Bolivia, la resistenza armata del popolo palestinese, la guerra di liberazione in Vietnam, i gruppi guerriglieri in America latina, l’IRA, l’ETA e in qualche misura le primissime Brigate Rosse, poi la RAF in Germania, tutti ad alimentare l’aura di misticismo rivoluzionario che da quasi un decennio infiammava gli animi di quella generazione dannata.
In particolare, poi, l’animo e il pensiero degli anarchici bolognesi erano stati “armati” dalla storia ormai leggendaria di Libero Dal Fosco, dalle lunghe serate trascorse ad ascoltare in religioso silenzio i suoi racconti degli agguati alle ronde fasciste, delle fughe rocambolesche dai gendarmi di mezza Europa con le due classiche Browning in pugno.
Poi, nel tempo, all’uso necessario della violenza quale strumento di difesa e resistenza di classe, si era sovrapposto un concetto di uso della violenza proletaria in termini di attacco al capitale e alla sua articolazione politico/repressiva: lo Stato.
Era normale, coerente. Era semplicemente la logica conseguenza, in termini di prassi, delle teorie sulla rivoluzione predicate a parole per anni. Si era passati dai servizi d’ordine organizzati per difendere i cortei da aggressioni e provocazioni alla creazione di vere e proprie strutture militari parallele ai gruppi politici ufficiali, un po’ sul modello di IRA ed ETA. Si parlava, nelle interminabili riunioni ristrette, di lotta armata, di azioni dimostrative, di uso collettivo della forza. Il dibattito interno al movimento si andava articolando tra i gruppi che teorizzavano l’uso di massa della violenza, superando quindi la stessa logica dei servizi d’ordine e delle pratiche di avanguardia, e chi, al contrario, propugnava una evoluzione sempre più “specialistica” dei SdO e una progressiva “militarizzazione” delle strutture logistiche e di supporto, fino alla lotta armata. Più o meno clandestina.
Certo, aveva un sapore amaro quella assuefazione alla violenza, ma la dimensione collettiva aveva creato una sorta di senso di onnipotenza, del tutto speculare all’impotenza vissuta per anni nei confronti della schiacciante capacità repressiva dello Stato.
Il percorso politico dello studentello liceale, tutto preso dai testi di Bakunin e dai carmi di Catullo, aveva subìto una svolta radicale quando lo scontro, con le squadracce fasciste in particolare, si era fatto duro e armato, tra il ’71 e il ’75. A Bologna forse meno che altrove, ma si erano viste scintille anche all’ombra degli Asinelli.
Rocco ripercorre gli anni del liceo. Rivede se stesso, assonnato e incazzato come sempre, arrivare al Minghetti una mattina dell’anno scolastico ’72/’73, proprio l’anno della maturità.
Andrea, il leaderotto figiccino della scuola, faccia/fisico/ideologia cloni di Gramsci, irriducibilmente antifascista, gli era andato incontro all’angolo di Via Parigi con quella sua postura tipicamente carbonara e complottarda dei momenti critici.
Sebbene quello fosse ancora lontano, Rocco, osservandolo camminare di traverso e quasi strisciando contro il muro, aveva capito che qualche cosa stava succedendo.
– Che cacchio succede Andrea? Rogne in vista? –
– Ci sono i fasci che volantinano. Gli esterni – Asciutta e lapidaria la risposta, ma stracarica di bruttissimi auspici.
Il Minghetti, a quel tempo, rappresentava un’anomalia sul fronte della politica. Non era in mano ai fasci, come il Galvani, l’altro liceo classico, quello dei fighetti.
Il Minghetti era leggermente più proletario e, nonostante una forte presenza di iscritti al Fronte della Gioventù, quasi tutti del ginnasio, c’erano un sacco di compagni di tutte le organizzazioni e l’iniziativa politica dentro la scuola era vivacissima. Del tutto ovvio, quindi, che in quel contesto la pratica dell’antifascismo fosse, di fatto, quotidiana.
Normalmente i fascistelli volantinavano e i compagni li strapazzavano un po’, o li dipingevano di rosso uando erano in vena di facezie. Tutto qui.
Purtroppo, spesso, seguivano le rappresaglie e arrivavano i fasci veri, quelli che facevano karate al Kodokan e menavano per davvero. I famigerati “esterni”. E allora erano KAZZI.
Quel giorno c’erano gli esterni, ma Rocco e Andrea non sapevano che ci sarebbe stata un’altra novità. Una brutta novità.
Fino ad allora, infatti, gli scontri si erano sempre risolti in grandi scazzottate, vittoriose contro i fascistelli del Liceo, decisamente da dimenticare quando arrivavano i camerati grandi.
I due compagni si erano avviati insieme verso la scuola e intanto organizzavano un piano d’azione.
– Ne abbiamo contati sei, due sui gradini del portone che danno i volantini, altri due sotto il portico di Nazario Sauro e gli altri due… sono quelli davanti a noi in fondo alla strada, fermi e coperti dalla colonna – Andrea metteva al corrente Rocco che intanto s’infilava i guanti da sci imbottiti e cercava d’immaginare lo scontro più che probabile.
Andrea proseguiva: – Non siamo in grado di fare lo scontro a muso duro. Sono più grossi e mancano molti compagni. Facciamo così: tu ti organizzi con Stefano, Oliver, Sergio e Gabbano e anche La Recchia. Io e Lollo andiamo avanti poi cerchiamo di entrare tutti a scuola… se ci riusciamo chiudiamo il portone e convochiamo un’assemblea.
– Ok. Allora io e i ragazzi restiamo in mezzo a quelli che entrano, pronti a coprirvi. Almeno i due sul portone li tiriamo giù se butta male. Però tu Andrea non fare stranezze, l’ultima volta a momenti ti spaccano la testa perché ti sei buttato per i cazzi tuoi in mezzo a quattro… e abbiamo dovuto tirarti fuori noi, per un pelo.
Erano passati dietro i due fasci coperti dalla colonna ostentando indifferenza e avevano svoltato in Nazario Sauro, quasi di fronte alla scuola. Si erano mischiati alla massa di ragazzi in attesa del suono della campana per entrare. Rocco si guardava attorno con discrezione ma registrando tutto ciò che vedeva. “Due sul portone… altri due sotto il portico…. ok e gli altri li abbiamo sfiorati poco fa. Non sembra ce ne siano altri”.
Poi, come in tutte le situazioni in cui la convulsione dell’azione soggioga il ragionamento freddo e controllato, era esploso il caleidoscopio delle immagini. Rocco osservava attentamente Andrea salire i pochi scalini dell’ingresso, allungare la mano per prendere il volantino dal fascio che glielo porgeva con un sorriso perfido.
Aspetto da vero nazi: grande e grosso, ovviamente, faccia quadrata cosparsa di vistose cicatrici, biondo, occhi color ghiaccio. “Questo non lo conosciamo ma fa paura” era l’unica cosa che riusciva a pensare Rocco, prima che gli avvenimenti precipitassero.
Vedeva, come al rallentatore, Andrea strappare di mano tutti i volantini al nazi e contemporaneamente, con l’altra mano, colpirlo dal basso nelle palle. Sospensione d’immagine. Che faceva? Crollava al suolo? Si piegava in due? Cacciava almeno un urlo? Niente. Il pezzo di merda aveva la conchiglia; aveva ghignato in faccia ad Andrea mentre lo faceva volare giù dalle scale con un diretto in piena bocca. Lo sguardo di Rocco aveva fissato per un secondo gli occhiali dell’amico che volavano in pezzi verso l’alto. Si era fatto largo tra gli studenti che iniziavano a ondeggiare, ma non riusciva ad arrivare al portone.
Chissà da dove erano spuntati altri quatto… sei… otto picchiatori, quindici in tutto. Erano saltate fuori spranghe e catene, forse un coltello. Rocco era riuscito a colpire uno alto e magro che brandiva un tubo di ferro. ma nell’attimo stesso in cui aveva avvertito il contatto del suo pugno contro il viso dell’avversario, due colpi tremendi alla testa lo avevano fatto barcollare. Istintivamente si era coperto con le braccia e si era chiuso a riccio per tentare di proteggersi alla meglio; non c’era tempo di pensare, una gragnola di colpi lo tempestava da tutte le parti. Aveva sentito un colpo violentissimo raggiungerlo lateralmente al naso, deviandogli il setto, mentre un calcio molto forte al costato gli tagliava il respiro. Poi, un impulso improvviso lo aveva fatto guizzare via dall’angolo in cui era chiuso, una spallata all’aggressore più vicino, due salti disperati e, come guidato da un fato non troppo avverso, aveva trovato d’istinto un appiglio al massiccio portone, un secondo prima che i bidelli lo chiudessero per evitare l’ingresso della squadraccia fino dentro la scuola.
Confusione enorme nell’ atrio. Le compagne cercavano di darsi da fare ma più che altro producevano urla e confusione. Virginio, a nome dei compagni presenti all’esterno, ma che al momento del bisogno si erano fatti di nebbia lasciando massacrare i soliti noti, annaspava in improbabili giustificazioni alla loro mancanza di coraggio, senza nemmeno preoccuparsi delle condizioni dei pestati. Rocco sentiva il sangue colargli a litri dal naso rotto, si toccava la testa e altro sangue gli si appiccicava alle mani.
Tutto attorno studenti atterriti guardavano lui e gli sventurati compari come se vedessero i morti-viventi uscire dalle tombe, ragazzine del ginnasio che si coprivano gli occhi e scappavano singhiozzando. C’erano altri quattro compagni stesi contro il muro o malamente buttati sulla grande scalinata che porta ai piani superiori. Andrea era una maschera di sangue. Stefano, il piccolo ex Katanga di seconda fila ai tempi del Movimento Studentesco a Milano, straparlava mentre il sangue gli colava dalla testa martoriata dalle sprangate.
Incazzato, umiliato, sconfitto e, non ultimo, quasi sfigurato Rocco, quel giorno, aveva giurato a se stesso che non si sarebbe mai più fatto spaccare la testa in quel modo.
Si sarebbe iscritto immediatamente a un corso di Arti Marziali e avrebbe sempre girato armato.
Quello stesso giorno, e in altri giorni a seguire tristemente uguali, molti altri compagni avrebbero fatto a se stessi un giuramento del tutto simile.
Era iniziato così un lungo periodo di scontri duri. Aggressioni sotto casa, scritte minacciose davanti alle scuole, auto e moto date alle fiamme. Il compagno Jack accoltellato davanti al IV Liceo, uno studente del Fermi ferito a un occhio con un tirapugni e via elencando, in un crescendo inquietante. I compagni più conosciuti avevano preso l’abitudine di tornare a casa in gruppo, osservando attentamente gli occupanti delle macchine parcheggiate.
Per fortuna la “volante rossa”, grazie alle informazioni di un infiltrato di Lotta Continua nel Fronte della Gioventù, riusciva a stroncare preventivamente i raid squadristi, con grande sconcerto dei nazi che non si spiegavano come facessero i rossi ad anticipare puntualmente tutte le loro imprese.
– Che c’hai cento lire? – Di colpo Rocco si scuote al suono della voce impastata del tossico barcollante che gli sta di fronte con lo sguardo perso, annacquato dal brown sugar che gli lenisce, buon per lui, l’insostenibile pesantezza dell’essere.
Si guarda smarrito intorno, quasi colto dallo stupore di trovarsi ancora in quel posto, come se la sua anima e il suo tempo fossero ancora fermi sotto il portico all’angolo di via Mascarella, impotente davanti al corpo inerte di Francesco. A parte il tossico, i giardini sono ancora deserti, anzi no, sul margine iniziale della rampa d’accesso, seduta a gambe incrociate su un fazzoletto d’erba, c’è una ragazza sola. Sembra assorta in pensieri neri simili ai suoi.
Il ritorno di un barlume di lucidità gli fa dare dell’idiota a se stesso per essersi isolato con una pistola in tasca, in una città che presto sarà messa a ferro e fuoco e sicuramente pullula già di spioni e di infiltrati.
Decide di muoversi, di ritrovare la protezione della massa che si agita e vocia a poche decine di metri. S’incammina verso l’uscita continuando a guardare in giro. Oltrepassa la ragazza che nel frattempo ha acceso una sigaretta. I capelli lunghi biondo cenere le coprono parzialmente il viso, gonna lunga, zoccoli, “sicuramente una femminista”.
Fatti pochi passi, senza neanche sapere perché, si ferma e torna indietro. La tipa non si è mossa, non ha nemmeno alzato lo sguardo quando le è passato accanto, e non lo alza nemmeno ora che Rocco è fermo di fronte a lei.
– Scusa, ma…tu non sei la padrona di quei due Bob-Tails che la sera giocano in piazza? –
Finalmente la ragazza alza gli occhi e con un gesto lento si sistema i capelli ondulati dalla permanente dietro le orecchie. Un bel viso, trapuntato da leggere lentiggini, molto inglese, lo osserva muto, inespressivo.
– Si, sono io… Mi chiamo Carlotta. Tu sei uno dei CPS, vero? Hai saputo… –
La voce è calda ma distante, non tradisce emozioni.
– Ero a tre metri da Francesco quando è successo. – Decine di parole mute riempiono una pausa silenziosa che sembra eterna. Si scambiano le emozioni e la rabbia senza dire nulla. Chi ne sarebbe capace?
– Scusa. Io sono Rocco…Volevo solo dirti che siete sempre stupendi. Tutti e tre.
Gli sguardi si accarezzano, un battito d’ali. Poi Carlotta riabbassa il viso e aspira nervosamente una boccata di fumo. E’ di nuovo da un’altra parte, chissà dove. Rocco riprende la sua strada, esce su via Castagnoli, volge lo sguardo verso la barricata all’altezza di “Pierino” e gode una briciola di riscossa alla vista di “Terra Promessa”, la libreria dei ciellini, trasformata da qualche anima pia in “Terra Bruciata” per la quarta o quinta volta.
Ma si sa… i fetentoni sono pieni di soldi e non si stufano di porgere l’altra guancia.