Ci sono peri talmente alti che a cascarci giù si impiegano 40 anni prima di toccare il suolo. Ne ha fatto l’esperienza il presidente Giorgio Napolitano, ricevendo, tra le vittime della strage di Piazza Fontana, anche Licia Pinelli, la compagna dell’anarchico caduto dalla finestra al quarto piano della questura di Milano la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, al termine di un interrogatorio. Napolitano ha parlato di «ridare e riaffermare l’onore di Pinelli» e di «rompere il silenzio su una ferita non separabile da quella dei 17 che persero la vita a piazza Fontana». Forse il presidente si riferiva alla propria persona, e alla riunione della direzione del PCI (della quale era membro) del 19 dicembre 1969, dove, alla presenza del segretario Enrico Berlinguer, si convenne che era politicamente più saggio denunciare gli anarchici come “provocatori” piuttosto che difendere i compagni caduti dalla finestra (come Pinelli) o in galera (come Valpreda). Per rendere giustizia non solo a Giuseppe Pinelli, ma anche ai tanti che non possono “rompere il silenzio” perché in silenzio non sono mai stati, riportiamo qui il capitolo sulla morte dell’anarchico Pinelli tratto dalla controinchiesta La strage di Stato, integralmente leggibile qui [G.D.M.].
Come è morto Giuseppe Pinelli
È circa la mezzanotte di lunedi 15 dicembre 1969. Un uomo discende lentamente lo scalone principale della questura di Milano. Giunto nell’atrio dell’ingresso principale di via Fatebenefratelli si ferma un momento, accende una sigaretta. È indeciso se uscire, andarsene a casa, oppure rimanere ancora qualche minuto, fare un attimo il giro negli uffici della squadra mobile che stanno lì di fronte a lui, dall’altra parte del cortile. Sono giornate faticose queste per i cronisti milanesi e lui in particolare si sente stanco, avvilito: si sa già che nella mattina è stato arrestato un anarchico di nome Valpreda; c’entrerà davvero con le bombe di Piazza Fontana? E poi nelle camere di sicurezza della questura, nelle stanze al quarto piano dell’ ufficio politico ci sono ancora almeno un centinaio tra anarchici e giovani della sinistra extraparlamentare che da tre giorni, dal venerdì delle bombe, sono sottoposti a continui interrogatori.
L’uomo, Aldo Palumbo, cronista de l’Unità di Milano, muove i primi passi per attraversare il cortile. E sente un tonfo, poi altri due, ed è un corpo che cade dall’alto, che batte sul primo cornicione del muro, rimbalza su quello sottostante e infine si schianta al suolo, per metà sul selciato del cortile, per metà sulla terra soffice dell’aiuola. Palumbo rimane paralizzato per qualche secondo al centro del cortile, poi si avvicina al corpo, ne distingue i contorni del viso. E subito corre a dare l’allarme, agli agenti della squadra mobile, agli altri cronisti che sono rimasti in sala stampa quando lui è uscito.
La mattina dopo tutti i quotidiani escono a grossi titoli con la notizia del suicidio di Giuseppe Pinelli. Di questi giornali, quelli che al momento dell’incidente avevano il loro cronista in questura scrivono che il suicidio è avvenuto a mezzanotte e tre minuti. Nei giorni seguenti, stranamente questo particolare del tempo viene modificato: prima lo si corregge a “circa mezzanotte”, poi lo si sposta ancora indietro, sino ad arrivare ad un tempo ufficiale: “Pinelli è morto alle ore undici e 57 minuti del lunedì notte 15 dicembre”.
Ai primi di Febbraio, dall’inchiesta condotta dalla magistratura trapela un particolare: la chiamata fatta quella notte dalla questura di Milano al centralino telefonico dei vigili urbani per richiedere l’intervento di una autoambulanza, è stata registrata da uno speciale apparecchio e quindi si può stabilire con certezza l’attimo esatto, che risulta essere mezzanotte e 58 secondi. Come a dire due minuti e due secondi prima della caduta di Pinelli, se si sta al tempo segnalato da tutti i giornalisti che erano in questura quella notte. Si è trattato di una svista collettiva, e abbastanza clamorosa per gente abituata ad avere delle reazioni automatiche, professionali, quali il guardare per prima cosa l’orologio quando avviene un incidente del genere? È un fatto però che nel frattempo sono successe due cose strane.
Qualche giorno dopo la morte di Giuseppe Pinelli, due agenti della squadra politica della questura si sono presentati al centralino telefonico dei vigili urbani per controllare il momento esatto di registrazione della chiamata. Cosa significa questo zelo del tutto gratuito dato che è la magistratura, e non la polizia, che si occupa dell’inchiesta sulla morte di Pinelli? Perché preoccuparsi tanto dell’orario di chiamata dell’ambulanza se le cose si sono svolte così come sono state raccontate? La risposta potrebbe essere questa: la chiamata e stata fatta prima che Giuseppe Pinelli cadesse dalla finestra.
Verso i primi di gennaio il giornalista Aldo Palumbo, la prima persona che si è avvicinata a Giuseppe Pinelli morente nel cortile della questura, trova la sua abitazione sottosopra. Qualcuno è entrato, ha rovistato dappertutto, ha aperto cassetti, rovesciato mobili, frugato armadi. Ladri? Sarebbero ladri ben strani considerato che non hanno rubato né le tredicimila lire che erano in una borsa, e che pure devono aver visto poiché la borsa è stata aperta, e neppure quei pochi gioielli nascosti in un’altra borsa, pure essa trovata aperta. Due quindi le ipotesi: o gli ignoti cercavano qualcosa, qualcosa collegato agli ultimi istanti in qui il giornalista fu vicino, e da solo, a Giuseppe Pinelli morente; oppure si è trattato di un avvertimento, un monito a tenere la bocca chiusa rivolto a chi, come Aldo Palumbo, poteva essere sospettato di sapere qualcosa, forse di aver sentito mormorare da Pinelli un nome, una frase.
Basterebbero questi primi, pochi elementi per formulare pesanti sospetti sulla versione dell’anarchico morto suicida. In realtà ce ne sono molti altri, e sono questi.
Pinelli cade letteralmente scivolando lungo il muro, tanto che rimbalza su ambedue gli stretti cornicioni sottostanti la finestra dell’ufficio politico; non si è dato quindi nessuno slancio.
Cade senza un grido e i medici stabiliranno che le sue mani non presentano segni di escoriazione, non ha avuto cioè nessuna reazione a livello istintivo, incontrollabile, nemmeno quella di portare le mani a proteggersi durante la “scivolata”.
La polizia fornisce nell’arco di un mese tre versioni contrastanti sulla meccanica del suicidio. La prima: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo ma senza riuscirci. La seconda: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo e ci siamo parzialmente riusciti, nel senso che ne abbiamo fermato lo slancio: come dire, ecco perchè è scivolato lungo il muro. Ma questa versione è stata resa a posteriori, dopo cioè che i giornali avevano fatto rilevare la stranezza della caduta. Infine l’ultima, la più credibile, fornita in “esclusiva” il 17 gennaio 1970 al Corriere della sera: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo ed uno dei sottufficiali presenti, il brigadiere Vito Panessa, con un balzo “cercò di afferrarlo e salvarlo; in mano gli rimase una scarpa del suicida”. I giornalisti che sono accorsi nel cortile, subito dopo l’allarme lanciato da Aldo Palumbo, ricordavano benissimo che l’anarchico aveva ambedue le scarpe ai piedi.
Poi la polizia fornisce due versioni contrastanti anche sul movente anche sul movente del suicidio. Primo: Pinelli era coinvolto negli attentati, il suo alibi per il pomeriggio del 12 dicembre era crollato, e sentendosi ormai perduto ha scelto la soluzione estrema, gridando “È la fine dell’anarchia”. Seconda versione, fornita anche questa a posteriori, dopo che l’alibi era risultato assolutamente valido: Pinelli, innocente, bravo ragazzo, nessuno riesce a capacitarsi del suo gesto.
Dando questa seconda versione, la polizia afferma anche che la tragedia è esplosa nel corso di un interrogatorio che si svolgeva in una atmosfera del tutto legittima, civile e tranquilla, con scambio di sigarette ed altre delicatezze del genere. L’anarchico Pasquale Valitutti, uno dei tanti fermati che tra il venerdì delle bombe ed il lunedì successivo hanno riempito le camere di sicurezza della questura, ha fornito invece questa testimonianza: “Domenica pomeriggio ho parlato con Pino (Pinelli) e con Eliane, e Pino mi ha detto che gli facevano difficoltà per il suo alibi, del quale si mostrava sicurissimo. Mi anche detto di sentirsi perseguitato da Calabresi e di avere paura di perdere il posto alle ferrovie. Verso sera un funzionario si è arrabbiato perchè parlavo con gli altri e mi ha fatto mettere nella segreteria che è adiacente all’ufficio di Pagnozzi [un altro commissario, come Calabresi, dell’ufficio politico: n.d.r.]; ho avuto occasione di cogliere alcuni brani degli ordini che Pagnozzi lasciava ai suoi inferiori per la notte. Dai brani colti posso affermare che ha detto di riservare a Pinelli un trattamento speciale, di non farlo dormire e di tenerlo sotto pressione per tutta la notte. Di notte il Pinelli è stato portato in un’altra stanza e la mattina mi ha detto di essere molto stanco, che non lo avevano fatto dormire e che continuavano a ripetergli che il suo alibi era falso, mi è parso molto amareggiato. Siamo rimasti tutto il giorno nella stessa stanza, quella dei caffé, ed abbiamo potuto scambiare solo alcune frasi, comunque molto significative. Io gli ho detto “Pino, perchè ce l’hanno con noi?” e lui molto amareggiato mi ha detto: “si, ce l’hanno con me”. Sempre nella stessa serata del lunedì gli ho chiesto se avesse firmato dei verbali e lui mi ha risposto di no. Verso le otto è stato portato via e quando ho chiesto ad una guardia dove fosse , mi ha risposto che era andato a casa. Io pensavo che stesse per toccare a me di subire l’interrogatorio, certamente più pesante di quelli avvenuti fino ad allora: avevo questa precisa impressione.. dopo un po’, verso le 11, 30 ho sentito dei rumori sospetti, come di una rissa ed ho pensato che Pinelli fosse ancora li e che lo stessero picchiando. Dopo un po’ di tempo c’è stato il cambio della guardia, cioè la sostituzione del piantone di turno fino a mezzanotte. Poco dopo ho sentito come delle sedie smosse ed ho visto gente che correva nel corridoio verso l’uscita, gridando “si è gettato”. Alle mie domande hanno risposto che si era gettato il Pinelli: mi hanno ance detto che hanno cercato di trattenerlo ma che non vi sono riusciti. Calabresi mi ha detto che stavano parlando scherzosamente del Pietro Valpreda, facendomi chiaramente capire che era nella stanza nel momento in cui Pinelli cascò. Inoltre mi ha detto che Pinelli era un delinquente, aveva le mani in pasta dappertutto e sapeva molte cose degli attentati del 25 aprile. Queste cose mi sono state dette da Panessa e Calabresi mentre altri poliziotti mi tenevano fermo su una sedia pochi minuti dopo il fatto di Pinelli. Specifico inoltre che dalla posizione in cui mi trovavo potevo vedere con chiarezza il pezzo di corridoio che Calabresi avrebbe dovuto necessariamente percorrere per recarsi nello studio del dottor Allegra e che nei minuti precedenti il fatto [cioè la stessa caduta di Pinelli n.d.r.] Calabresi non è assolutamente passato per quel pezzo di corridoio”.
Dunque l’ultimo interrogatorio di Giuseppe Pinelli non è stato così tranquillo come si è cercato di far credere, ed è falso anche che al momento della caduta il commissario aggiunto Luigi Calabresi non fosse presente nella stanza. Ma perchè queste menzogne? La risposta può essere trovata in un articolo pubblicato dal settimanale Vie Nuove nelle settimane seguenti.
“Quando l’anarchico fu trasportato nella sala di rianimazione dell’ospedale Fatebenefratelli non era in condizioni di coscienza, aveva un polso abbastanza buono ma il respiro molto insufficiente, il che poteva essere provocato da ragioni organiche (cioè il gran colpo dell’impatto con il terreno o qualcosaltro) oppure psicologiche (cioè lo stato di tensione precedente alla caduta, ma questa sembra un’eventualità meno valida.) Il particolare che stupì i medici fu che il corpo, almeno da un esame superficiale, non presentava nessuna lesione esterna ne perdeva sangue dalle orecchie e dal naso, come avrebbe dovuto essere se Pinelli avesse battuto violentemente la testa. Una constatazione, questa, che fa sorgere subito un’altra domanda in chi non ha mai voluto credere nella versione del suicidio: se è vero, come sembra, che la necroscopia ha accertato una lesione bulbare all’altezza del collo, quale si sarebbe potuta produrre battendo al suolo il capo, come mai orecchie e naso non sanguinavano ne volto e testa non presentavano lesioni evidenti? Per logica si arriva quindi ad una seconda domanda: non è possibile che quella lesione al collo fosse stata provocate prima della caduta? Come e da cosa non ci vuole molta fantasia per immaginarlo: sono ormai molti anni che nelle nostre scuole di polizia quella antica arte giapponese di colpire col taglio della mano, nota come Karatè. Fossero stati interrogati, quei due medici [che hanno prestato cure a Pinelli morente n.d.r.] avrebbero potuto raccontare un altro episodio. Quella notte del 16 dicembre, nell’ atrio del Fatebenefratelli regnava una grande confusione. Si era trasferito tutto lo stato maggiore della polizia milanese, il questore Marcello Guida compreso. Ma la polizia era presente anche all’interno della sala di rianimazione dove i due medici tentavano invano di tenere in vita Giuseppe Pinelli, tranquillo, silenziose, non molto turbato dalla vista dell’operazione di intubazione orotracheale e di ventilazione con il pallone di Ambù alla quale l’anarchico veniva sottoposto, un poliziotto in borghese, camicia e cravatta, baffetti neri e un distintivo all’occhiello della giacca, non si allontanò neanche per un attimo dal lettino dove Pinelli stava morendo, attento a raccogliere ogni suo rantolo. […] Chi gli ha dato l’ordine di entrare nella stanza compiendo un abuso di autorità che non è tollerato negli ospedali? E perchè è entrato, cosa pensava o temeva che Pinelli potesse dire prima di morire?”
I risultati dell’autopsia, dalla quale sono stati esclusi i periti di parte, non vengono resi noti. I due medici – Gilberto Bontani e Nazareno Fiorenzano – che hanno tentato di salvare Pinelli, solo il secondo, e solo molte settimane più tardi, e dietro istanza della moglie dell’anarchico, viene interrogato dal procuratore Giuseppe Caizzi, il magistrato cui è affidata che nel mese di maggio 1970 si concluderà con un sibillino verdetto di “morte accidentale” (non suicidio quindi, se la lingua italiana ha un senso. Ma allora la polizia ha mentito…).
Subito dopo che il dottor Nazareno Fiorenzano è stato interrogato, nel palazzo di giustizia circola una voce secondo cui la polizia lo ha pesantemente “avvertito” che il caso Pinelli è un caso da archiviare, e perciò è meglio che non si ponga troppi interrogativi. Ma cosa può aver notato o capito il medico di guardia davanti al corpo di Pinelli morente?
La testimonianza che egli rilascia a un collega prima di essere interrogato dal magistrato e questa:
“1) Gli infermieri che raccolsero Pinelli ebbero l’impressione che fosse già morto.
2) Il massagio cardiaco esterno fu praticato da un infermiere di nome Luciano.
3) Solo eccezionalmente – e per lo più in vecchi dallo scheletro rigido – il massaggio cardiaco può produrre incrinature alle costole.
4) Da quando fu raccolto, e fino alla morte Pinelli non emise ne un lamento ne una parola.
5) Quando Pinelli arrivò al pronto soccorso del Fatebenefratelli, non aveva più polso, pressione e respirazione. Appariva decerebrato; ma il dottor Fiorenzano non ebbe l’impressione che la teca cranica fosse fratturata. Non perdeva sangue dagli occhi, dal naso, dalla bocca. Presentava anche abrasioni alle gambe. Lesione bulbare? Mani intatte.
7) Pinelli fu intubato, sottoposto a ventilazione artificiale ed altre pratiche di rianimazione. Riebbe polso e pressione. Respiro che confermerebbe lesione bulbare. Mancanza di riflessi ecc. confermano che (parole testuali) “si trattava di un morto cui avevano dato un po’ di vita vegetativa” Rianimazione sospesa dopo 90′.
8) Il dottor Guida arrivo tre minuti dolo Pinelli. Disse al dottor Fiorenzano che non poteva fare nulla contro l’irreparabile, ebbe l’aria di scusarsi e se ne andò.
9) Il dottor Fiorenzano ignorava l’identità del ferito, che non gli fu detta dai poliziotti. La sua insistenza per conoscerla irritò molto i poliziotti.
10) I poliziotti ripetevano, tutti con le stesse parole, che si era buttato dalla finestra. Sembra ripetessero una formula.”
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