[In un giorno in cui si registra un importante ma non definitivo sviluppo della vicenda giudiziaria in cui è coinvolto Cesare Battisti, proponiamo un intervento pubblicato su Damnatio Memoriae, che per l’appunto affronta la questione con uno sguardo lucido e profondo. La redazione]
Campagna italiana e interessi politici in Brasile
di DEMENTIO MEMORIAE
Con l’apparizione dell’intervista a Istoè (tradotta qui), Cesare Battisti ha ritrovato un diritto ad esprimersi pubblicamente, e lo ha mantenuto con altre dichiarazioni e lettere pubbliche: a giornalisti, al Senato brasiliano, al Supremo tribunale federale.
Le reazioni italiane hanno immediatamente moltiplicato gli insulti e rilanciato la campagna di popolo per l’estradizione, che era stata aperta dal Presidente italiano Napolitano con una lettera al Presidente brasiliano Lula.
La lettera, presentata come personale, era stata distribuita alla stampa prima ancora di arrivare al destinatario. Una mossa diplomatica da buzzurri, che Lula non poteva che prendere per ciò che è: non l’invio di un messaggio privato, ma un atto pubblico della massima autorità di uno Stato nei confronti di un altro. Da lì la secca risposta che ricorda la sovranità del paese e delle sue autorità chiamate a decidere senza tener conto delle pressioni straniere.
Il richiamo brasiliano alla propria sovranità sembra suonare incomprensibile agli italiani; eppure il principio è semplice, ed in particolare in materia estradizionale: con una domanda di estradizione lo Stato richiedente si sottomette volontariamente al diritto sovrano dello Stato richiesto, che decide in base al proprio diritto interno.
Le altre mosse istituzionali della campagna italiana, come il richiamo in patria dell’ambasciatore e la mozione ‘per l’estradizione di Battisti’ presentata al Parlamento europeo, avranno lo stesso profilo: atti che mirano solo ad alimentare la campagna pubblica che vuole una nazione ed un popolo uniti contro una persona e tutti quelli che la ‘difendono’. Il voto all’unanimità del Parlamento italiano, di quelli altrimenti definiti da ‘parlamento bulgaro’, di una mozione, traduce l’esclusione avvenuta a priori di qualsiasi voce critica, che viene direttamente qualificata di ‘difesa dell’assassino’. I campi sono solo due, e netti: per l’estradizione del criminale o in suo favore. Del primo fanno parte ‘tutti gli italiani’, del secondo i ‘nemici’.
In questo contesto, la presa di parola di Battisti non aveva la minima possibilità di modificare i rapporti di forza nel discorso pubblico dello scenario italiano. La campagna di stampa italiana aveva già raggiunto una radicalità ed una intensità che hanno permesso di affermare come verità incontrovertibili numerose falsità e manipolazioni, a cominciare dalla ‘vittima di Battisti’ per eccellenza, il figlio del gioielliere Torreggiani, oggi ancora sulla sedia a rotelle. Che Battisti non abbia neppure partecipato, secondo le sentenze di condanna, all’attentato contro Torreggiani, è una dannazione della memoria ormai acquisita. Nemmeno le grandi penne del giornalismo hanno dubbi. Così Giorgio Bocca si scandalizza sul Venerdì di Repubblica del 22.2.09: “…si arriva a dire che il figlio di Torreggiani venne ferito dal padre…”.
In una situazione in cui l’opinione del pubblico è formata -e poco importa che sia dis-informata- le nuove comunicazioni saranno recepite secondo il filtro che ammette solo gli argomenti a conferma della propria opinione e scarta gli altri. Qui si tratta di qualcosa di più di una semplice opinione, la campagna è intrisa di un odio e di un ‘diritto d’insulto’ inusitati, ben espressi da Giancarlo Lehner su Il Tempo del 3.2.2009:
“…Battisti, personaggio spregevole e nauseante – quanto vorrei, per poterli meglio insultare, che costui e magari la complice Carla Bruni, vergogna d’Italia, mi querelassero…”
Quando il bue da’ del cornuto all’asino
Carla Bruni, moglie italiana del Presidente francese Nicolas Sarkozy, era stata denunciata da Bruno Berardi, figlio del maresciallo dei carabinieri ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978 e presidente di un gruppo chiamato “Domus Civitas” che raccoglie vittime del terrorismo e della mafia, per favoreggiamento della criminalità e terrorismo a livello internazionale (Reuters 22.1.09). Dopo che l’ex-modella ed ancora cantante rispose pubblicamente all’accusa, negandola in un’intervista televisiva a tutto charme con Fabio Fazio, il Berardi la perdonò. Ma in un clima di campagna di popolo basta lanciare un’accusa, è quella che verrà ricordata. Per riprendere Giancarlo Lehner:
“Ebbene Battisti, bugiardo, assassino, vigliacco, per giunta viscido delatore, fa circolare in Brasile l’allarme sull’inciviltà delle istituzioni repressive italiane…”
Dell’origine del bugiardo si è detto (secondo Bocca Battisti è bugiardo anche quando dice quello che dice la sentenza), e il vigliacco gli era venuto dal Comandante di Prima Linea Maurice Bignami, libero da una ventina d’anni per dissociazione premiata, in un’intervista a Il Giornale (segnalata in post precedente). Quanto al delatore, Battisti aveva citato i nomi dei responsabili degli omicidi, confessi e condannati per quegli atti, indicandoli come ‘pentiti’. Sicché Giuseppe Memeo e Sebastiano Masala, responsabili degli omicidi dei PAC e tutti liberi dal precedente millennio, si dicono pubblicamente offesi per non aver il Battisti distinto la ‘dissociazione premiata’ (onorevole) dalla ‘delazione premiata’ (disonorevole) e si associano al coro degli insulti.
Battisti diventa perciò l’infame; lui che è stato condannato sulla base delle accuse di un ‘pentito’ convalidate dalla conferma dei ‘dissociati’, prende il ruolo del viscido delatore. Quanto a Sante Fatone, altro nome citato da Battisti, si veda la conclusione dell’articolo di Massimo Numa su La Stampa del 31.1.09. “E Battisti? Sante lo ha descritto così: “Antipatico, scostante, senza scrupoli. Durante la latitanza in Francia, si teneva lontano da noi”. Sintesi: un infame.”
Scrive poi Adriano Sofri su La Repubblica del 5.2.09 : “Basta guardare allo spettacolo italo-brasiliano di questi giorni, appuntamento di tutte le maschere dell’impostura e della maramalderia, della demagogia e del cannibalismo, e con quale posta! Salvo che si tratti di sventare una minaccia attuale contro altre persone, come seppe fare Guido Rossa, io preferirei perdere la mia libertà e la stessa vita (la libertà può essere infatti più sacra, come sa chi per lei la vita rifiuta) pur di non mandare in galera qualcuno. Ma di costui appunto, se lo incontrassi fuggitivo, mi chiederei solo se possa far male al suo prossimo, e per il resto non vorrei saperne altro, e tanto meno inventarlo migliore di com’è.” Sofri non fa nomi, neppure quello di Battisti, ed usa l’allusione per chiamarsi fuori dalla maramalderia. Sofri, che è stato condannato sulla parola del pentito Leonardo Marino, verrà contestato sulla questione del ‘fare la spia’ da quattro parenti di vittime del terrorismo, con una lettera collettiva pubblicata su La Repubblica il 12.2.09 alla quale cosi reagisce: “Ho lealmente espresso la mia personale ripugnanza per la delazione, quando non sia tesa a impedire un male fatto ad altri. (…) Voi mi offendete chiamandola omertà.”
Pietro Mutti, altro superbo ‘Comandante’ di Prima Linea, principale accusatore di Battisti e noto per la ridda di false accuse ad altri per crimini da lui commessi, è brevemente intervistato da Panorama il 12.2.09. Alla prima domanda, se è vero che è stato torturato, evita di rispondere, affermando un’ovvietà, che non aveva “più nessuna pressione” quando ha accusato gli altri. Sa che la questione delle torture nell’ambito dell’inchiesta sui PAC è stata sollevata dalla difesa di Battisti ed è una chiave per capire la concessione di rifugio politico e si guarda bene dal dire la verità.
Le torture in Italia sono tabù, sono negate per principio, sono storie che nessuno vuole leggere. Nel caso dei PAC sono storie che fanno storia, ma nessuno ne parla; con l’eccezione, forse unica, del blog Baruda, che riprende delle testimonianze d’archivio.
La damnatio memoriae su quelle torture è anche una forma di amnistia, nel senso etimologico di ‘dimenticare il male’; si può infatti ben comprendere che una vittima di torture voglia dimenticarle e smettere di esserne vittima. Ma menzionarle in pubblico è considerato oltraggioso, una cosa che solo un criminale odioso o un brasiliano ignorante possono osare.
Con i fascisti, contro gli esuli
C’è poi Arrigo Cavallina che si arruola volontario nella campagna di popolo, affermando “Sono il suo cattivo maestro. Ma quando lo conobbi era già un vero malavitoso”: è questo il titolo della sua lunga intervista a Il Giornale del 31.1.09. Cavallina, la cui storia di bandito, ribelle e rivoluzionario apparteneva alla mitologia condivisa dai giovani dei movimenti degli anni 70, adotta per sé il cliché del ‘cattivo maestro’ che parla del suo pupillo da redento, presentandosi da born again. Egli non osa farsi giudice come tutti gli altri che si pronunciano su questo caso. Si fa allora ‘giudice dell’esecuzione’, e dice al Battisti: “…devi donare il tuo lavoro, tre quarti di quello che guadagni come scrittore di libri gialli, al figlio di Pierluigi Torregiani, alle famiglie di Lino Sabbadin, di Antonio Santoro, di Andrea Campagna. Va’ a sospingere Torregiani costretto in carrozzella, va’ a fargli da badante”. Per legittimare la sua proposta di pena, richiama l’immagine di Hitler, che sulla porta del paradiso è condannato a stendere il tappeto sotto i piedi di ogni ebreo che entra. Un parallelo, quello con i nazisti, che funziona anche per il Brasile, paese che ospita gli ‘aguzzini’: “Battisti come Mengele” titola Libero il 6.2.09, lasciando credere che l’angelo della morte di Auschwitz fosse stato accolto come rifugiato politico.
Arrigo Cavallina ricorda con orgoglio di essere stato all’origine della legge sulla dissociazione premiata. Racconta la dissociazione: essersi ritrovato in carcere con Alberto Franceschini (ex dirigente delle Brigate Rosse che fino a poco prima dava la caccia ai pentiti in carcere) e Livio Lai, figura di primo piano dei NAR (organizzazione armata di estrema destra). “Fascisti e comunisti insieme. Segno che la ricostruzione interiore dipende dalle persone, non dalle ideologie.”
Il coro dei premiati è completo ed unanime nello schierarsi contro Battisti, ed esprime un accanimento particolare nei confronti degli esuli, presentati come dei ‘vigliacchi’ che sono scappati all’estero. Dapprima perché disertori della lotta rivoluzionaria, poi perché non si inginocchiano in nome della de-ideologizzazione. Come Battisti, che dopo l’evasione si rifiutò di entrare in Prima Linea, attirandosi il disprezzo del Comandante Mutti: “Ha approfittato dell’azione per uscire, ma poi se n’è andato per i fatti suoi. La lotta armata non gli interessava più.”
L’uscita da organizzazioni clandestine, l’abbandono della lotta armata, la partenza all’estero, sono ‘elementi fattuali’ che concretizzano una libera scelta di molti militanti alla fine degli anni ’70 ed inizio ’80. Una dissociazione di fatto, operata senza la pressione del carcere e senza premi, che viene sistematicamente negata e relegata all’oblio. Infatti: non hanno fatto pubbliche dichiarazioni sulla bontà dell’abiura della fede politica (quasi non fosse, questo, un atto ideologico) e pubbliche richieste di perdono, con lacrimuccia davanti alla telecamera; non hanno seguito i dettami di Comandanti come Bignami e Mutti, prima in nome della Rivoluzione, poi in nome dello Stato. A 30 anni dai fatti, per i magistrati si tratta sempre di latitanti che ‘continuano il reato’.
Le posizioni nei confronti di quei latitanti, espresse dai delatori e dai dissociati premiati nella campagna di popolo contro Battisti, si rivelano intrise dello stesso spirito di superiorità razzista di chi censura a male parole la diversità dei migranti o la civiltà dei brasiliani.
Che dalle parole si passi ai fatti, dice Marco Travaglio su L’Espresso del 12.2.09: “… Che Cesare Battisti sia un truce pluriassassino non v’è dubbio. (…) Si potrebbe profittare del ritrovato patriottismo di Carla Bruni per chiederle di intercedere presso il marito Nicolas Sarkozy affinché ci restituisca Pietrostefani e gli altri 20 latitanti a Parigi.” Conclude segnalando che i libri di Battisti sono pubblicati in Italia da Berlusconi, perché Einaudi è del gruppo Mondadori di sua proprietà.
La Repubblica e Panorama pubblicano in grandi servizi liste e cataloghi illustrati dei criminali degli anni ’70 da andare a prendere, fatti di informazioni né verificate né aggiornate, ma accompagnate da una grande immagine di passamontagna. Il pezzo di Travaglio, intitolato “Latitanti di serie B”, ‘risponde’ alla domanda di Battisti, ‘perché capita a me (e non agli altri)?’. La domanda è in sé più che giustificata, una campagna così marcata per unilateralità, manipolazione e violenza verbale dovrebbe costituire il materiale di uno studio come quello proposto dal ‘premio Girolimoni’. Il fatto è che Battisti adotta lo stesso argomentario da bettola dei suoi avversari, spiazzando i pochi non-nemici ed i suoi stessi sostenitori. Addirittura Oreste Scalzone, ex-esule, lo stigmatizza con rabbia inusitata: “Battisti sembra vivere nelle trame dei suoi romanzetti”.
Ballerine, giuristi e politiche della memoria
I pochi blog e commenti sull’internet di chi vuole esprimere una forma di dubbio si sentono tenuti ad aprire con premesse del tipo ‘stante che non difendo Battisti’, segno del successo della campagna di criminalizzazione. Una pressione che fa fare marcia indietro anche all’ex-Presidente Cossiga, che si rimangia la lettera a Battisti, dicendo “se avessi saputo che serviva a questo, non l’avrei scritta”. Peccato che quella lettera –pubblicata qui -terminava cosi: “Di questo mio scritto può fare l’uso che vuole anche in sede giudiziaria”.
Nella campagna la figura delle vittime ha una posizione preponderante, sia a livello di costruzione simbolica del discorso, poiché è in loro nome che si agisce, protesta ed urla, sia come presa di parola da parte di chi le incarna in quanto parente di persone colpite dagli attentati. I parenti delle vittime, sempre più spesso degli orfani per via del lungo tempo trascorso dai fatti, hanno avuto in quel contesto la più ampia occasione di esprimersi, e non solo a titolo di arredamento complementare. Dispongono di organizzazioni, come l’AIVITER e la Domus Civitas di Bruno Berardi, e di posizioni personali di rilievo nel mondo politico (parlamentari) e giornalistico che sono entrate in campo a pieno titolo. Loro interviste, dichiarazioni, lettere e petizioni sono quotidianamente in risalto su tutti i media italiani, ciò che non impedisce il ripetersi del lamento rituale ‘parlano solo i terroristi, noi siamo costretti al silenzio’, e si riverberano sui grandi media brasiliani.
In Brasile sono però arrivate, dopo la lettera di Napolitano, le espressioni di spregio diffuse da politici e giuristi italiani, nella maggior parte dei casi totalmente prive di fondamento e di giustificazione, ma non di effetto.
Le reazioni non sono state molte, e marcate soprattutto dalla sorpresa di sentire delle cose poco immaginabili e comprensibili. Sui media italiani, pressoché ogni notizia e commento proveniente dal Brasile è inquadrato come un atto ostile. La dinamica della campagna di popolo si è cristallizzata in un rapporto di conflitto, che si esprime con la sua appropriata terminologia, che va da ‘sputo’, ‘schiaffo’, ‘oltraggio’ (subiti dall’Italia), al più tradizionale e guerrescamente esplicito ‘attacco’, che è visto ovunque e da chiunque, compresi i titoli sul Manifesto che con questo termine inquadra una dichiarazione del ministro brasiliano.
Tarso Genro, divenuto il brasiliano più odiato dagli italiani per aver concesso lo status di rifugiato politico a Battisti, ha osato commentare che l’Italia sembra ferma agli anni di piombo (proprio per la maniera di trattare il caso Battisti). È un’impressione che può essere condivisa da chiunque faccia un’analisi anche superficiale del discorso pubblico italiano. L’allarme sociale che questo produce rende attuali e presenti i crimini di 30 anni fa, è come se fossero stati compiuti ieri.
L’agognata memoria condivisa è così soltanto una memoria del presente, un presente dove non esiste lo strappo sociale di 30 anni prima, e il cui racconto è quello di un criminale da prendere e punire, dead or alive, per riaffermare l’ordine. Da parte sua, il Brasile fa i conti con il proprio passato -terrorismo e torture- con la distanza che separa l’attualità dalla storia.
Creata nel 2003, la Commissione d’amnistia del Ministero di giustizia diretto da Tarso Genro è responsabile del risarcimento di chi prova di aver sofferto della persecuzione statale per motivi politici. Essa organizza la Carovana dell’amnistia, con delle sessioni, che si tengono nei diversi Stati della federazione, nel corso delle quali per esempio le vittime di tortura sono riconosciute come tali e lo Stato, a titolo di ammenda, attribuisce loro un vitalizio. La cosa merita ben più che un paio di righe, ma valga qui il richiamo per rimarcare quanto questa differenza culturale, tra una concezione di pacificazione ed una punitiva, renda reciprocamente poco comprensibili talune attitudini brasiliane ed italiane. E possa spiegare l’adesione di oltre 500 intellettuali brasiliani, dietro un uomo di cento anni, Oscar Niemeyer, comunista tra i padri dell’architettura moderna, all’appello per Battisti.
L’accenno di Genro alla questione dell’amnistia politica brasiliana (del 1979, e che è oggi discussa, poiché ha coperto tutti i torturatori) ha sollevato un’ennesima volta delle reazioni cialtrone e razziste, tra le quali l’asserzione di un deputato italiano, che “il Brasile è noto per le sue ballerine e non per i giuristi”, è stata ripresa dal Ministro brasiliano, che ha rivendicato l’orgoglio del suo paese di avere ottime ballerine ed eccellenti giuristi.
Nel corso della campagna di popolo si sono sentite dichiarazioni pubbliche di giuristi italiani, molto spesso magistrati o ex-magistrati, il cui livello espressivo lascia interdetto chiunque non viva in Italia; hanno parlato di Battisti come “assassino puro”, “che ha ucciso per rapina”, della giustizia brasiliana come “a scartamento ridotto” le cui decisioni sono uno “sputo”, e così via.
In Brasile i media hanno proposto pareri ed interviste di giuristi locali, che come il resto sono accessibili anche agli italiani. Per il loro livello di preparazione e di riflessione basti l’esempio che segue:
L’avvocato Pedro Estevam Serrano, che non è né avvocato di Battisti, né partigiano di Genro, ma professore di diritto costituzionale, ricorda, rispondendo all’obiezione che in Italia non c’era dittatura “C’è un filosofo italiano, si chiama Giorgio Agamben, che dice che non c’è una democrazia occidentale nel mondo che non abbia conosciuto nel suo regime giuridico e nella conduzione dello Stato l’adozione di alcune misure d’eccezione, per quanto dittatoriali, come regole di condotta – che lo stesso Brasile ha. (…) Il fatto che vi sia una democrazia non significa che non venga commesso un arbitrio, così come il fatto di essere un militante di sinistra non può esentare a priori (Battisti) dal giudizio.”
La posta in gioco
La campagna di popolo infine decresce e scompare rapidamente dalle prime pagine; malgrado le decine di richieste di intervista a Battisti che piovono sull’autorità (tra cui quella di Porta a porta, vedi la pagina accompagnamento processuale del STF) essa non può essere perennemente alimentata con fatti o pretesti, e comunque ha ottenuto che Battisti resti in prigione passando il capo dei due anni di arresto estradizionale.
Forse qualche diplomatico di vecchia scuola è riuscito a insinuare il sospetto che sbraitare insulsaggini non fosse la migliore strategia -ma forse no, se una rivista come Limes non è riuscita a squittire di più che un invito a mandare l’esercito per un sequestro di persona:
“Magari ci fosse l’ordine di armare una operazione di “extraordinary rendition”, ovvero la unica forma elegante per affermare che dovunque il criminale si sia nascosto, lo Stato di diritto a cui appartiene lo trova e lo riporta in galera. Sarebbero sufficienti un paio di ragazzi in gamba del battaglione dei Lagunari, accompagnati da un esperto non di intelligence, ma di business intelligence.(…)”
e questo perché, secondo la democratica rivista di geopolitica, “Il Brasile non è una nazione ordinaria”(!) – fatto sta che le autorità italiane intuiscono infine di avere un alleato di peso nel Presidente del Supremo Tribunale Federale, Gilmar Dantas Mendes.
Per inquadrare il ruolo di questa figura, un breve riassunto ‘tecnico’:
• Battisti è stato arrestato in Brasile su domanda d’estradizione italiana;
• Resta detenuto sinché il Supremo Tribunale Federale (STF), che valuta anche sul fondo la domanda d’estradizione, lo decide;
• nomina un difensore che presenta gli argomenti in suo favore e le sue richieste, opponendosi alla domanda d’estradizione;
• durante la detenzione presenta una domanda di rifugio politico;
• la domanda viene respinta dall’autorità brasiliana competente, il CONARE, e Battisti ricorre all’autorità superiore;
• il Ministro di giustizia Tarso Genro, quale autorità ricorsuale competente, annulla la decisione e concede lo statuto di rifugiato politico;
• Battisti resta detenuto perché il Presidente del STF, Gilmar Mendes, NON ha deciso di liberarlo, la difesa presenta allora formale domanda di libertà;
• Gilmar Mendes dichiara che il STF non interrompe il corso della domanda di estradizione, e che la sua decisione sarà esecutoria per il Governo.
Ad onore di Gilmar Mendes va il fatto che fonti e media brasiliani ed italiani sono, per la prima volta in tutto l’affaire, assolutamente unanimi: Mendes si pronuncerà per concedere all’Italia l’estradizione di Battisti. Nessuno riesce nemmeno ad ipotizzare che Gilmar Mendes possa rifiutarla. Ma si tratta di una pubblica e generalizzata convinzione, visto che il magistrato non ha apertamente anticipato alcun giudizio sul caso (cosa che gli costerebbe la ricusa).
I giornali anticipano il voto degli 11 ministri del STF: 2 si asterranno, 5 voteranno a favore dell’estradizione e 4 contro –La Stampa 2.3.09, e La Repubblica 2.3.09, secondo la quale la ‘gola profonda’ che avrebbe fornito le informazioni sarebbe proprio Gilmar Mendes: che appare così come un vero ‘magistrato all’italiana’. Con le sue molteplici dichiarazioni pubbliche ha messo nel cassetto la tradizionale regola d’oro che vuole che un giudice, a maggior ragione se supremo, parli solo attraverso gli atti. Addirittura un Ministro del STF, il giudice Joaquim Barbosa, in un’udienza pubblica gli ha rimproverato: “Vostra Eccellenza è nei media, e sta distruggendo la credibilità della giustizia brasiliana!”
Col suo presenzialismo Mendes si sta costruendo un profilo pubblico di leader della destra, in concorrenza col centro-destra secondo alcuni osservatori (come Celso Lungaretti), per giocare la sua carta già alle prossime presidenziali del 2010, senza attendere quelle del 2014.
Gilmar Mendes, ricorda anche Giuseppe Cocco in un articolo che omaggia la memoria di Giancarlo Santilli, un esule italiano recentemente scomparso, sulla versione brasiliana di Le Monde Diplomatique, ha preso sfrontatamente posizione contro polizia e magistrati nelle indagini contro banchieri, imprenditori e commercianti e nello stesso tempo incita alla repressione del Movimento Sem Terra (MST) che organizza migliaia di famiglie contadine povere nel riprendersi e lavorare parti di latifondi.
Difesa garantista dei diritti della ricca élite e rigore punitivo contro le lotte dei poveri senza-terra -gli stessi tratti tipici dell’attitudine del potere del periodo della dittatura- sono il profilo del nuovo leader della destra brasiliana. Egli nega di esserlo, e vedremo se si candiderà, ancora la campagna non è ufficialmente aperta. L’attuale presidente Lula da Silva, poco attaccato al potere, non si ricandiderà, ma sosterrà la candidata designata dal PT, l’economista e Ministro della Casa civil (organo della Presidenza) Dilma Rousseff.
Dilma Rousseff ha un passato di guerrigliera urbana e di prigioniera, sempre più rimproverato dalla destra, che ha fatto circolare sull’internet una copia della sua scheda di polizia dell’epoca (immagine) come ‘curriculum di una militante dei PAC’. È schedata come “terrorista ed rapinatrice di banche” e tra le varie azioni attribuitele figura una delle più strepitose della storia, l’assalto (termine brasiliano per rapina) alla casa dell’amante del Governatore Adhemar de Barros, dove i guerriglieri sottrassero un enorme bottino della corruzione di regime. Figurare su una scheda di polizia della dittatura (ancora nelle mani dei torturatori che possono diffonderla) non significa aver compiuto le azioni; ve ne sono in particolare quattro fatte dalla Vanguarda Popular Revolucionária (VPR), organizzazione distinta da quelle in cui militò Dilma Rousseff, dapprima in Política Operária (Polop) di Minas Gerais e poi nelle fila del Comando de Libertação Nacional (Colina) a Rio de Janeiro. Il documento è stato pubblicato dalla Folha de S.Paulo con l’accusa di aver pianificato un sequestro (poi non avvenuto), e la stessa Dilma ha dovuto reagire ricordando tra l’altro che all’epoca quelle azioni non le vennero neppure contestate negli interrogatori, era acquisito che fosse estranea. Il quotidiano paulista ha dovuto far marcia indietro, riconoscendo che il documento non proviene da alcun archivio ufficiale. La Folha ha dato però il tono, quello dei nostalgici della dittatura che ripetono il ritornello del terrorismo, e, schierandosi con il gruppo editoriale Globo del potente Roberto Marinho, per l’estradizione di Battisti, ha marcato l’estensione del fronte della destra alla maggioranza dei grandi media brasiliani.
Le azioni della guerriglia sono state coperte dall’amnistia, in quanto atti motivati politicamente, ma Gilmar Mendes ha colto l’occasione di ribattere, proprio a Dilma Rousseff che ricordava che la tortura è considerata un crimine contro l’umanità (non in Italia, dove non è neppure reato) e in quanto tale imprescrittibile (quindi i torturatori non andrebbero amnistiati ma processati), che anche i reati di terrorismo sono imprescrittibili (quindi i guerriglieri andrebbero puniti).
Nell’ambito della procedura Battisti figura l’obiezione della prescrizione, i cui termini secondo il diritto interno vengono comunque controllati (i reati dell’estradato devono essere ancora punibili nel paese che estrada); se necessario Mendes potrà respingerla argomentando con l’imprescrittibilità dei crimini di terrorismo, questa volta senza omettere che il testo costituzionale (art. 5, XLIV) parla di “azione di gruppi armati civili o militari contro l’ordinamento costituzionale e lo Stato democratico”.
Emerge cosi un interesse del tutto particolare nel trattamento brasiliano del caso Battisti: con una decisione favorevole all’estradizione, Mendes potrà mettere in difficoltà Lula, il cui Ministro Genro ha decretato lo status di rifugiato politico. Il conflitto tra poteri (già annunciato: Mendes dice che il governo dovrà eseguire l’estradizione, Lula il contrario) rischia di dar luogo a un seguito giuridico complesso. Visto il peso strategico della decisione, la preparazione dell’udienza (o delle udienze) è importante sia per la sua messa in agenda che per i temi da trattare.
La decisione su Battisti era stata già prevista (dai media) per febbraio e poi per mazo, e se appare sensato che Mendes abbia voluto attendere il riflusso della campagna italiana per non apparire come quello che decide sotto pressione straniera, va anche detto che lo scadenzario del STF conta 69 casi d’estradizione, oltre a tutti gli altri. Sul sito del STF si può consultare il calendario delle sessioni.
I temi in discussione sono, come ama dire Mendes, ‘a doppio taglio’, hanno cioè dei risvolti politici che vanno oltre il caso Battisti.
L’obiezione che si tratti di delitto politico è uno dei temi più appariscenti, stante che la campagna italiana, ripresa dai grandi media brasiliani, ha insistito sul fatto che egli debba essere considerato un criminale comune. Nelle sentenze brasiliane, si esamina non solo il delitto politico ‘puro’ (associazione, opinione, ecc.) ma l’imbricazione tra i reati politici e quelli comuni motivati politicamente. Se è chiaro che l’omicidio in quanto tale non è un crimine politico, il ‘concorso morale’ per aver contribuito a decidere l’azione in una riunione politica (è la condanna di Battisti per il caso Torreggiani) si presta senz’altro alla discussione. Nei precedenti giuridici degli esuli italiani Luciano Pessina e Pietro Mancini, la contaminazione constatata tra delitti comuni e politici ha portato a definire come preponderante l’elemento politico; non erano però contestati omicidi.
Mendes dal canto suo sarebbe per trattare tutta la lotta armata, compresa appunto quella brasiliana, come crimini ordinari. Ma, come per la prescrizione, anche qui la qualificazione di crimini terroristici permetterebbe di bypassare l’obiezione: il terrorismo, come dappertutto, non è considerato delitto politico che possa fondare un rifiuto d’estradare. Salvo che la discussione su cosa sia il ‘terrorismo’ è ben lontana, all’interno del STF, da una definizione chiara. Su questa qualificazione viene fatto riferimento al precedente giuridico dell’estradizione del cileno Norambuena; in quel caso però l’interessato, che era stato condannato in Cile all’ergastolo ma anche in Brasile a 30 anni ‘chiusi’ per un altro delitto, si era pronunciato per la propria immediata estradizione, che gli avrebbe consentito un pena complessiva più favorevole.
Battisti ha ottenuto lo statuto di rifugiato politico dall’autorità di governo, la stessa che in caso di decisione giudiziaria d’estradizione, autorizza (decidendo se, come e quando) lo Stato straniero a prelevare l’estradato. In uno scenario analogo a quello vissuto da Paolo Persichetti in Francia, la decisione del Supremo Tribunale brasiliano favorevole all’estradizione di Battisti resterebbe in attesa dell’ordine di esecuzione della massima autorità dello Stato, il Presidente, che decide come comportarsi con gli altri Stati. Su Persichetti pendeva una decisione favorevole all’estradizione della suprema autorità giudiziaria, che per anni la Presidenza francese non eseguì per la scelta politica tramandata da François Mitterrand. Fu poi eseguita in un baleno quando la parola data da Mitterrand venne gettata nel dimenticatoio. Battisti potrebbe ritrovarsi con una analoga spada di Damocle sulla testa, benché protetto non da una dottrina come quella Mitterrand, ma da una decisione scritta, motivata e inappellabile del governo. Divenisse Mendes presidente, si può star certi che eseguirebbe l’estradizione annullando il rifugio politico.
Ma Gilmar Mendes è ambizioso, e mira a far passare nella giurisprudenza del STF le sue posizioni in contrasto con le decisioni governative. Il tentativo maggiore nel caso Battisti, sarà quello di far considerare illegale la decisione di concessione di rifugio politico. Arrivarci non è evidente, e uno dei percorsi di Mendes passa dalla rivendicazione che sia solo il STF a determinare la qualificazione di ‘reato politico’; per la legge, questo è il caso nei procedimenti di estradizione, mentre è il Conare, rispettivamente il Ministro di giustizia, a decidere il rifugio politico, che pure considera gli eventuali reati politici del richiedente. Di più: c’è l’articolo 33 della legge del rifugio (legge n. 9.474 del 1997), secondo il quale “il riconoscimento della condizione di rifugiato osta al proseguimento di qualsiasi domanda di estradizione basato sui fatti posti a fondamento della concessione di rifugio”, da sormontare. Mendes ci ha già provato, subendo una sonora batosta, con il caso Medina, colombiano delle FARC che ottenne il rifugio politico mentre era imprigionato per la procedura d’estradizione, e di conseguenza scarcerato. Mendes dice oggi che a differenza di Battisti, Medina non era ancora stato condannato in patria. Ma all’epoca della decisione (2007), si ritrovò contro tutti e 10 i ministri del Supremo; per esempio il giudice Joaquim Barbosa commentò che “la giudiziarizzazione il procedimento estradizionale è fatta in favore dell’estradando, è concepita come uno strumento della sua protezione. Nel momento in cui il Potere Esecutivo lo considera inestradabile, perché rifugiato politico, non vedo che ruolo possa giocare il STF.” E Cesar Peluzo, oggi relatore sul caso Battisti: “Non vedo nessun motivo per riconoscere l’incostituzionalità dell’art. 33 della legge sul rifugio. Non è assolutamente in gioco, a mio modo di vedere e col dovuto rispetto, il principio della separazione dei poteri.”
Che Gilmar Dantas Mendes tornerà alla carica, è certo. Ma almeno sappiamo perché.