ceci-n-est-pas-une-pipe.jpgdi Maurizio Vito*

Per il resto non c’è che da attendere.
Se gli ultimi anni hanno visto rifluire i
rottami di un secolo ardimentoso, ciò
non ha nulla di particolarmente negativo.
Il dramma è nel fondo e non è solo
un portato dei tempi.
F. Ferrucci

1. Ceci n’est pas une épique

La cultura occidentale si è caratterizzata fin dalle origini per la sua endemica conflittualità, non solo nei contenuti letterari (il sacrificale duello tra Achille ed Ettore), ma anche tra i soggetti che ne partecipano, ossia autori e critici (dal dissacrante sberleffo della serva tracia nei confronti del saggio Talete raccontato nel Teeteto di Platone, a Socrate deriso dal commediografo Aristofane nelle Nuvole). Spesso, il conflitto testuale degenera, e si giunge al parricidio e/o alla fagocitazione. Nel caso di uno di tali originari mostri mitologici, Crono, le cose si complicano ulteriormente: a scapito della prole. Crono, infatti, dopo aver ucciso il padre Urano, e sposato la sorella Rea, si mise a mangiare i propri figli a causa di una profezia che gli aveva annunciato la morte per mano di uno dei propri discendenti. Si sa, le peggiori profezie, in letteratura, spesso si avverano (chiedere ai Troiani, a Lord Macbeth, o al padre di Edipo, per eventuale conferma).

bakhtin.jpgDunque, quando una anomala forma letteraria, né drammatica né epica, il romanzo, divenne prominente (all’incirca nel diciottesimo e diciannovesimo secolo), l’istinto vessatorio della cultura occidentale riemerse. Per molto tempo, infatti, la critica letteraria considerò il romanzo nientemeno che il becchino dell’epica classica, forse sulla scorta della binarietà oppositiva che i Greci hanno inventato e ci hanno tramandato in quantità inesauribile ed inesausta a tutt’oggi (di dicotomie è lastricato l’inferno delle nostre discipline umanistiche). Cosí, l’epica, che da Hegel in poi era considerata il genere assoluto, monologico, totalizzante, tipico di un tempo inattingibile e di un’unica voce autoritaria, fu contrapposta al romanzo, ritenuto una specie di derivato, corrotto, plurivoco, e refrattario alla gerarchizzazione. È la celeberrima tesi di Michail Bachtin (foto a sinistra): l’epica ed il suo eroe rappresentano un mondo che riflette un unico sistema di pensiero, al punto che l’eroe ed il suo destino si estendono all’intera comunità (si pensi all’Achille di Omero, o all’Enea di Virgilio). Nell’epica, l’eroe può essere opposto ad altri eroi (Ettore ad Achille) ma tutti condividono lo stesso sistema di valori (le divinità olimpiche si schierano per entrambi i contendenti, come è noto). Inoltre, l’epica bachtiniana si fonda sulla memoria (unica), sulla tradizione. Il romanzo, invece, sostiene Bachtin, ricorre alla varietà, e questa viene acquisita tramite l’esperienza che, facendosi conoscenza, permette di modificare il futuro. Mentre l’epica, dunque, si presenta inevitabilmente ciclica, ripetibile, e stabile, il romanzo procede per prove ed errori, per così dire, come Don Chisciotte.

moretti.jpgNegli ultimi decenni le cose sono un po’ cambiate: la molteplicità del moderno si è riversata ovunque e ha reso meticcia anche questa finora intonsa terra della conflittualità binaria. Le tradizioni, anche quelle più inveterate, ne hanno dovuto prendere atto. La perdurante concezione dell’epica quale genere immutabile, neppure sfiorata finora da alcuna fase lamarckiana (nella quale il soggetto in questione si sarebbe adattato alle circostanze e perfezionato col passare del tempo) ha scoperto di avere a che fare con un organismo che recava in sé, darwinianamente, elementi secondari — ma non recessivi — che contraddicevano la sua pretesa univocità. Nel 1994 Franco Moretti (foto a destra) ha introdotto il concetto di “opere mondo”, descrivendo l’epica come “un’ipotesi di ricerca” che si discosta dal modernismo ormai “diventato inservibile perché conteneva troppe cose” (Opere mondo, pp. 4, 5) e le opere mondo “capolavori mancati [la cui imperfezione] è il segno che vivono nella storia” (6-7). Moretti afferma, ad esempio, che potremmo “vedere nell’inerzia di Faust l’unica chance della totalità epica moderna” (16). Al seguito di questa concezione poetica morettiana che tiene assieme il mondo, il moderno e l’epico, ma sforzandosi di evidenziare il legame che ancora intercorre tra l’epica classica e le opere mondo, sembrerebbe essersi messo uno studioso statunitense, Joseph Farrell (foto a sinistra), che ha affermato:

farrell.jpgstudi comparativi stabiliscono senza dubbio alcuno la natura performativa ed orale dell’epica di Omero, ed in questo modo arruolano l’Iliade e l’Odissea nel campo della moderna world epic contro la — tuttora in voga — antica, medievale e rinascimentale interpretazione della epica europea “classicizzante” tipica della tradizione omerica (J. Farrell, “Walcott’s Omeros”, 276).[1]

Opere mondo (come il Faust di Goethe o l’Ulysses di Joyce analizzate da Moretti) o world epic (come l’Omeros di Derek Walcott, di cui parla Farrell) che dir si voglia, importa notare che il paradigma critico è ormai messo in questione da più parti. Recentemente, Massimo Fusillo ha ripreso la critica sulla unidimensionalità dell’epica classica (genere di opere che trasforma una tribù in una entità politica, scritte in versi, appartenenti ad un passato senza connessione col tempo della narrazione, etc), sottolineando che la restrizione operata su di essa è determinata, invece, proprio dalla necessità di affrancamento dal passato tipico dell’età moderna:
“È stata l’ossessione occidentale dell’originario a descrivere l’epica come un blocco monolitico e organico, inattingibile nella sua assolutezza: d’altronde enfatizzare la discontinuità, creando miti di passato assoluto, è uno dei modi con cui la modernità si autolegittima” (“Fra epica e romanzo”, in F. Moretti (ed.), Il romanzo, vol. II, “Le forme,” pp. 11-12). Il riferimento di Fusillo sembra in particolare diretto a Bachtin ed alla sua categoria di “passato assoluto” contenuta in Epos e romanzo, ma tocca anche altri teorici classici, da Schiller a Lukács, via, ovviamente, il già menzionato Hegel.

Le osservazioni riportate sopra di Moretti, Farrell e Fusillo sembrano centrare uno dei principali snodi polemici sollevati attorno al memorandum sul NIE pubblicato nell’aprile 2008 da Wu Ming 1, la legittimità o meno della definizione “epica” applicata alle opere elencate dall’autore in prima, seconda, e terza battuta (due edizioni del memorandum, e la recente pubblicazione del volume). [2] Ovviamente, c’è molto altro in gioco: “le categorie del dibattito pubblico” (S. Jossa), lo “scardinamento del postmoderno” (C. Boscolo), il realismo, il ruolo della critica letteraria e di chi la fa (o di chi rinuncia a farla), i generi e la loro fine, mezzo, inizio, la mitopoiesi (come mi ha ricordato Giuseppe Genna behind closed doors), la questione degli UNO come Gomorra o Sappiano le mie parole di sangue.
A me interessa la questione dell’epica, e Moretti, Farrell e Fusillo propongono sguardi prospettici che credo siano molto stimolanti e colgano nel merito.

2. Storia e narrazioni

maya_calendar.jpgAlcuni critici non accettano la periodizzazione proposta dal memorandum, 1993-2008, attribuendo un grado di eccessiva arbitrarietà al termine iniziale. Capisco l’obiezione, ma non vorrei che fosse una renitenza irriflessa, derivante dalla periodizzazione introdotta da Giovanni Gentile nella scuola dell’obbligo e che ci ha, volenti o nolenti, inculcato l’amore (o l’odio) per i (maiuscoli) secoli del Trecento, Cinquecento, e Novecento. Eric J. Hobsbawm si è sentito autorizzato ad accorciare il secolo ventesimo, ribattezzandolo “il Secolo Breve”, pur attribuendo a tale periodo una coerente prospettiva storica; Paolo Getrevi, nel suo L’incerta favola del personaggio. 1881-1923: il romanzo italiano (1995), considera un periodo letterario a sé stante il tempo trascorso tra Malombra e I Malavoglia (1881) e La coscienza di Zeno (1923), in disaccordo proprio con l’impostazione gentiliana. [3] Dunque, forse si può tentare anche in questo caso una riduzione tematico-temporale senza perdere in efficacia. E dunque, tornando all’epica:

L’uso dell’aggettivo “epico”, in questo contesto, non ha nulla a che vedere con il “teatro epico” del Novecento o con la denotazione di “oggettività” che il termine ha assunto in certa teoria letteraria. Queste narrazioni sono epiche perché riguardano imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose: guerre, anabasi, viaggi iniziatici, lotte per la sopravvivenza, sempre all’interno di conflitti più vasti che decidono le sorti di classi, popoli, nazioni o addirittura dell’intera umanità, sugli sfondi di crisi storiche, catastrofi, formazioni sociali al collasso. Spesso il racconto fonde elementi storici e leggendari (Wu Ming, New Italian Epic, 14).

Così si esprime l’autore del memorandum, espressione che in seguito rimodulerà, sottolineando che “L’epica è un «di piú», il risultato di un particolare lavoro sulle connotazioni del racconto” (72). Forse ha ragione Wu Ming 1, o forse no. Forse è una questione di connotazione, un’ipotesi di ricerca (Moretti); forse “epica” oggi descrive un diverso soggetto, appartiene ad una diversa geografia, come sostengono Farrell e Fusillo. Siccome sembrerebbe che la questione principale sia la definizione di un territorio concettuale, potremmo al tempo stesso e più semplicemente dire con Farrell che “la rigida concezione dell’epica […] è in generale la provincia dei teorici che trovano tale teorizzazione utile ai propri fini discorsivi, e dei non-specialisti, che per definizione non si interessano troppo all’epica” (283, il corsivo è mio) [4]. In altre parole, considerare l’epica in modo strettamente classico fa correre il rischio di ridurre l’epica ad Omero, anzi alla sola Iliade, osserva Fusillo (l’avventurosa Odissea costituirebbe già un passaggio successivo, un’ibridazione del genere), terreno praticabile solo da classicisti iperspecializzati. Opinione rispettabilissima, sebbene non l’unica plausibile.

Questo basti per liquidare, per ora, la questione della forma, e perché ci si possa occupare di cosa c’è in questo territorio. Per cominciare, vorrei suggerire che Wu Ming 1, attraverso il memorandum e la definizione di un nuovo epico italiano (questo è il “sesso” preferito dall’autore, come chiarito nel recente “New Italian Epic: reazioni de panza” 1a parte), sta affermando il ritorno del “moderno” (definizione contingente, e solo perché mi trovo in mancanza di un termine migliore, anzi del termine). In altre parole, NIE appare sintesi dialettica tra la ripresa del romanzo storico (Il sorriso dell’ignoto marinaio, La storia, Le strade di polvere, etc…emersi tra gli anni ’70 e ’80) e la fine della stagione che ha visto imperversare il testo postmoderno.

motherboard.jpgL’esaurimento della spinta postmoderna, con le sue frammentazioni, i paradossi, e la metafiction, ha liberato uno spazio storico- tematico, per così dire, e sollevato la necessità di individuare agenti (opere, personaggi) che ne raccontino o interpretino le dinamiche. In anni recenti, in Italia, ciò ha generato alcuni consonanti tentativi narrativi più o meno riusciti, più o meno ambiziosi. Questa disordinata sintonia è stata interpretata da WM1 e tradotta in una “scheda madre” che accoglie e armonizza le risorse presenti ma sconnesse. L’involucro epico moderno, oggi, può partecipare a tale elastica tassonomia proprio perché scevro della rigidità e univocità tipiche del passato, sia per quanto riguarda le vicende narrate che per gli eroi che ne sono parte. E a questo proposito pare difficile dissentire da ciò che Angelo Petrella ha scritto nel 2006, e cioè che “È con l’epica della “moltitudine” che probabilmente la letteratura dovrà fare i conti per uscire definitivamente fuori dall’impasse della postmodernità” (“Dal postmoderno al romanzo epico. Linee per la letteratura italiana dell’ultimo Novecento,” in Allegoria, nn. 52-53). Credo che ciò sia esattamente quello che sta succedendo, e la presenza della moltitudine quale funzione-soggetto già evocata da Boscolo costituisce per me uno dei tratti più potenzialmente fecondi della nebulosa NIE.

3. Moltitudine

virno2.jpgSe Boscolo e Petrella hanno ragione, nelle opere in questione una certa moltitudine (poiché moltitudine non è chiunque) porta avanti, sia come rappresentatrice (autori collettivi e strumenti collettivi autoriali inclusi) che come rappresentata, la ricerca della propria soggettività, coesa ma espressione di un’unità non assoluta. La moltitudine sembra perciò poter assumere la funzione-soggetto di questo preciso momento storico, e non solo letterario. Della moltitudine alla ricerca di soggettività così parla Paolo Virno (foto a destra): “Anche i molti abbisognano di una forma di unità, di un Uno; ma, ecco il punto, questa unità non è più lo Stato, bensì il linguaggio, l’intelletto, le comuni facoltà del genere umano. […] L’unità non è più qualcosa (lo Stato, il sovrano) verso cui convergere, come nel caso del popolo, ma qualcosa che ci si lascia alle spalle, come uno sfondo o un presupposto” (Grammatica della moltitudine, 8-9, il corsivo è mio, MV).

Sfondo, presupposto, iniziatore, sovrano, Stato tralasciato: nel NIE questa unità è spesso incarnata dal Vecchio, mitologema che appartiene alla narrazione e la determina. Il Vecchio è una figura della realtà che si intreccia con il racconto. Ma è anche una figura trapassata e proprio per questo va assimilata, metabolizzata, riconosciuta, e infine superata. Uno dei tratti dominanti nelle opere NIE è proprio l’affacciarsi su una soglia—storica, politica, simbolica, allegorica—e, dunque, su una finale resa di conto; un finale di partita dalla quale ci si è già congedati, o si sta per farlo, e si è costretti a spingersi in avanti:
“Ora che il tempo finiva, ogni cosa trovava compimento” (Wu Ming, Manituana, 579);
“Migliaia di morti… Nulla sarà più come prima…” (V. Evangelisti, Black Flag, 4);
“Dopo la guerra niente era stato più come prima” (Wu Ming 4, Stella del mattino, 127);
Tu quoque, Oxford. Se perfino gli inservienti si mettevano a scioperare, forse i tempi stavano davvero cambiando” (ancora Stella, 131).

Forse non è un caso che in una recente intervista Wu Ming 1 e Wu Ming 2 abbiano rinunciato a negare la possibile morte del soggetto del memorandum, permettendo che l’intervistatore, Jadel Andreetto, ne ricavasse un necrologio e suggerisse l’ipotesi che l’evento fatale andasse letto come un momento del ciclo naturale delle cose:
“Il New Italian Epic è morto. È morto perché recava in sé il suo epitaffio con tanto di date: 1993-2008; ed è giusto che sia così, in un paese in cui non sembra morire (né nascere) mai nulla, in cui il ciclo della vita è arrugginito, inceppato.” [5]

Il NIE è morto (o morta), dunque? Nel caso, pazienza. Ad ogni modo, se davvero così fosse, è stato meglio lasciarlo che non averlo mai incontrato, per dirla con Fabrizio De Andrè. Con ciò detto, rimane il compito, individuato da Jossa, che attende chi si pone di fronte al NIE: “né liquidarlo né osannarlo, ma verificarne le potenzialità sul piano poetico” (“New Italian Epic and New Italian Criticism”; oppure, nella versione “Malavasiana”: “Non piangere né ridere, ma comprendere”, Scirocco, 64).
Aggiungerei a questo compito poetico un altrettanto chiaro ed impellente compito politico, e ritengo che sia proprio attraverso lo sguardo della moltitudine (questo è oggi il “soggetto che viene”) che dobbiamo volgerci alle rappresentazioni NIE. Il compito è quello di riconoscere ruoli, cifre simboliche, funzioni politiche in senso lato, che la moltitudine già rappresenta, dentro e fuori la letteratura.

4. Ripresa

nebula.jpgPer tornare alle dicotomie che ci hanno intralciato il cammino sin dall’inizio, e rilanciare, vorrei riproporre di nuovo alcune considerazioni di Fusillo a proposito di epica e romanzo:
“Che cosa resta a questo punto dell’opposizione fra epica e romanzo? […] L’impasse si può superare se si smette di considerare l’epica e il romanzo come due entità fisse e immutabili, e li si tratta invece come due fasci di costanti transculturali che di epoca in epoca e di opera in opera possono essere più o meno attive, e possono anche trasformarsi del tutto” (Fusillo, 12-3).
L’invito che riceviamo è dunque ad aggiornare gli strumenti interpretativi della critica letteraria per andare oltre questa nuova impasse, concettuale e storica. Fasci di costanti transculturali, entità mobili e mutanti, oggetti che si confrontano con la propria prospettiva storica presente o appena trascorsa, ne determinano alcune direzioni, ne ridescrivono modi e soggetti e ne sono ridescritti, reinterpretati: così (anche così) credo si possano — e forse debbano — leggere le opere che Wu Ming 1 ha racchiuso nella nebulosa NIE.

NOTE

1. “Comparative study establishes without question the ultimately oral and performative character of Homeric epic and in this way aligns the Iliad and the Odyssey with modern world epic as against the remainder of the ancient, medieval, and early modern tradition of “classicizing” European epic in the Homeric tradition” (J. Farrell, “Walcott’s Omeros. The Classical Epic in a Postmodern World”, in Beissinger, Tylus and Wofford (eds.), Epic Traditions in the Contemporary World, 1999, pp. 270-296). Le traduzioni da Farrell, qui e in seguito, sono mie, MV.

2. Il volume si intitola New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro (Einaudi 2009) e contiene, oltre alla versione finale del memorandum, il saggio “Noi dobbiamo essere i genitori” (già pubblicato online) e l’inedito “La salvezza di Euridice,” scritto da Wu Ming 2.

3. Essendo stato io allievo di Getrevi (negli anni 1991-1993), ho memoria diretta, orale della sua ipotesi critica. Nel 1995, poi, lo studioso ha pubblicato il libro il cui titolo cito. Ho infine scoperto in questi giorni, proprio mentre lavoravo a questo scritto, che nel 1999 è apparso Quindici episodi del romanzo italiano (1881-1923), a cura di Federico Bertoni e Daniele Giglioli, i quali scrivono che il loro “volume presenta i risultati di una ricerca sul romanzo italiano […] coordinata da Franco Brioschi, Remo Ceserani e Mario Lavagetto” (p. 11). La pur corposa bibliografia non menziona L’incerta favola del personaggio (ma ricorda un altro testo di Getrevi, Il prisma di Tozzi). Ora, non so a chi spetti la paternità di tale periodizzazione, e non voglio alludere ad alcunché. Sottolineerò solo che oggi molti critici sembrano considerare “organico” il periodo compreso appunto tra Malombra e I Malavoglia e La coscienza di Zeno. Di nuovo, opere, non autori, come sottolineerebbe forse Wu Ming 1.

4.“the rigid conception of epic […] is by and large the province of theorists, who find such a construct useful for their own discursive purposes, and of nonspecialists, who are by definition not very interested in the epic.”

5. Rilasciata a “Panorama” e pubblicata il 23 gennaio 2009.

Un grazie a Wu Ming, a Wu Ming 1, a Carmilla, e al gruppo PolifoNIE. Senza di loro, questa breve riflessione semplicemente non sarebbe.

* Maurizio Vito è dottorando in Italian Studies alla University of California a Berkeley. Si occupa di filosofia e letteratura politica e di teoria letteraria. Ha pubblicato alcuni articoli in italiano e in inglese. Questo contributo è una versione abbreviata e modificata di un saggio sul New Italian Epic e l’autore collettivo al momento in revisione presso una rivista inglese. Per saperne di più su di lui, qui.