di Gioacchino Toni
Massimo De Angelis, The Beginning of History: Value Struggles and Global Capital, London, Pluto 2007, 294 pp., £22.50
Negli ultimi tre decenni l’analisi economico-politica si è trovata in una situazione di stallo sospesa tra post-strutturalismo e neoliberalismo in sincronia con la tesi di Francis Fukuyama circa la “fine della storia”. Si è così fatta strada l’idea che con l’avvento dei mercati capitalisti globali e la rapida diffusione della democrazia occidentale, l’umanità si sarebbe trovata all’apice della sua evoluzione, almeno a livello di modalità di produzione, di forma e cooperazione sociale. Il saggio di De Angelis, al momento disponibile soltanto in lingua inglese, piuttosto che limitarsi ad una facile critica a Fukuyama, preferisce insistere nel dimostrare come le varie lotte per i beni comuni e la dignità sviluppatesi negli ultimi decenni, abbiano attraversato la gerarchia salariale planetaria mirando ad una realtà “altra”, quella dell’ “inizio della storia”, dell’affermarsi di modi di “produzione in comune” radicati in “valori-altri” rispetto a quelli promossi da quella forza sociale che è il capitale.
Centrando il suo apparato teorico sulla problematica della riproduzione sociale e dei commons, l’autore propone una prospettiva del conflitto sociale diversa da quella del marxismo ortodosso e degli autori post-strutturalisti. Da una parte, concetti tradizionali del marxismo quali valore, accumulazione primitiva e capitale, sono de-feticcizzati e la loro essenza vitale è evidenziata ricorrendo alla categoria di “lotte tra pratiche di valore”. Secondo tale lettura, basata sull’approccio definito dall’economista Harry Cleaver Autonomist Marxism, il conflitto sociale non è visto come una variabile tra le altre, ma costituente fondamentale delle pratiche sociali, comprese quelle che vanno sotto il nome di “economia”. D’altra parte, De Angelis rifiuta l’atteggiamento post-strutturalista che intende il conflitto sociale come semplice combinazione di punti di resistenza, argomentando che la lotta di classe si sviluppa attorno a modi di produrre valore, ciò che egli definisce “pratiche di valore”, e che quindi tali conflitti rappresentano modalità diverse di una lotta di classe “frattalizzata”.
Tale linea interpretativa che pone il conflitto di classe come conflitto tra pratiche di valore eterogeneo e diffuso lungo tutta la gerarchia salariale planetaria, compresi i soggetti non salariati, permette a De Angelis sia di sviluppare una struttura teorica che mette in relazione concetti come commons, recinzioni, autonomia, disciplina e riproduzione sociale, che di chiarire i meccanismi utilizzati dal capitale globale per riprodursi ed accumulare a fronte dei conflitti sociali che esso stesso genera. Lo studio di tali dispositivi di cooptazione delle lotte all’interno dei meccanismi sistemici al fine di risultare utili alla riproduzione del capitale risulta fondamentale affinché le forze sociali dei movimenti pongano le radici della loro ricomposizione politica in una riproduzione sociale “altra” rispetto al capitale.
Secondo De Angelis affrontare la problematica della totalità della riproduzione sociale non significa necessariamente assoggettarsi a una grande narrazione, come la critica post-strutturalista ha sempre osservato, con tutti i suoi pericoli di subordinare autonomie sociali ed istanze di lotta a queste. Abbracciando alcune linee argomentative del pensiero femminista ed ecologista dell’economia, affrontare la totalità è invece in primo luogo riconoscere che la totalità non è il capitalismo, ma un sistema di rapporti sociali ben più ampio che include il capitalismo al proprio interno, ma include anche modi di produrre “altri”: quelli basati sull’economia del dono, della sfera domestica, di cyber-networks produttivi di software, di solidarietà tra soggetti in lotta, di comunità indigene, ecc.
Riconoscere il capitalismo come sotto-sistema insieme al conflitto sociale come costituente delle forme sociali di produzione, significa in primo luogo basare l’analisi critica del presente sull’esistenza di un “fuori” dal capitale. Questa è una dimensione sociale non cooptata, un fare “altro” che si pone in forma autonoma, sebbene spesso anche in modalità ibrida nella misura in cui tale “fare” deve necessariamente corrompersi all’interno del ciclo produttivo del capitale per garantire la sopravvivenza dei produttori.
Riconoscere il capitalismo come sotto-sistema non deve far dimenticare che il capitale è una forza sociale totalizzante, che aspira alla totalità. La grande narrazione da smantellare è quella del capitale, quella che vede la riproduzione sociale assoggettata a pratiche di valore specifiche e che si trovano discorsivamente riprodotte nelle costruzioni dell’economia quali competitività, efficienza, scarsità, profitto, minimizzazione del costo, ecc. La frontline si trova quindi proprio qui, nel conflitto tra pratiche di valore opposte, tra modi di riproduzione sociale opposti, tra colonizzazione e ristrutturazione della riproduzione sociale attorno alle pratiche di valore del capitale e forme sociali che invece cercano “altre” pratiche di valore.
Buona parte del saggio è dedicata all’analisi del capitale globale moderno come forza totalizzante, ma in un contesto sistemico che non è mai chiuso; la totalità è assai più grande del capitalismo e, pertanto, lascia sempre spazio a processi per la costituzione di alternative. L’analisi sistematica di queste forme totalizzanti del capitale risulta fondamentale al fine di identificare quello che i vari movimenti che si costituiscono nei diversi punti di questa frontline si trovano a contrastare. L’autore mostra infatti l’esistenza di nessi comuni tra lotte che si trovano in condizioni assai diverse (dalle lotte delle donne a quelle ambientaliste, da quella degli indigeni a quella dei lavoratori dei sweatshops, da quelle dei migranti a quelle degli studenti, da quelle dei contadini brasiliani alle comunità indiane che lottano contro l’espropriazione dei loro fiumi). Tutte queste lotte che si sviluppano in diversi punti della “fabbrica globale”, presuppongono e danno luogo a forme alternative di riproduzione sociale e pongono la grande problematica ricompositiva sulla base della lotta comune per la riproduzione sociale. Il testo offre numerosi esempi di processi ove il “fuori” dal capitale sembra anche emergere da “dentro”. Le soggettività ricompositive non sono però viste come il frutto di “un” soggetto sociale, sia esso il lavoratore immateriale del post-operaismo, o il lavoratore di fabbrica del marxismo ortodosso: «nessuno dei soggetti coinvolti nel conflitto ha la proprietà di essere “soggetto universale” (…) in un sistema (…) di feedback quale quello della produzione capitalistica, ogni parte è strumentale nella produzione del tutto e quindi nessuna parte è “centrale”, tuttavia ogni parte è luogo di conflitto.» (pag. 71) Inoltre, come mostrano i primi capitoli del libro, in ogni sua fase il capitalismo produce una gerarchia sociale che attraversa anche la classe, una gerarchia che la problematica ricompositiva non può ignorare. La ricomposizione tra i vari soggetti di questo conflitto é pertanto da intendersi come una problematica aperta.
Esiste un’altro conflitto che contrasta questo processo ricompositivo tra soggetti sociali, ed è alla base della riproduzione del capitale ed al centro della problematica dell’ ”inizio della storia”. Emanciparsi da quel sottosistema-capitalismo significa porre una barriera invalicabile a quella forza sociale totalizzante che è il capitale, e che è predicata su un tipo di antagonismo che «emerge dalle condizioni sociali di esistenza dei produttori». L’autore qui riprende Marx che, nella sua prefazione della Critica dell’economia politica, descriveva le forme borghesi di produzione come l’ultima forma antagonista del produrre sociale, non nel senso di un antagonismo tra individui, ma nel senso di un antagonismo che sorge «dalle condizioni di vita sociali degli individui». La “preistoria” della società umana si chiudeva per Marx con questa formazione sociale, con questa forma di antagonismo. Questo è il senso di “inizio della storia” che De Angelis intende sottolineare e che le varie lotte di questi decenni hanno, per certi versi, posto come progetto politico da sviluppare. Il superamento di questo antagonismo che sorge «dalle condizioni di vita sociali degli individui», si pone come problema urgente nei recenti processi di globalizzazione. Le politiche neoliberiste, infatti, hanno cercato, per mezzo di recinzioni, di attacchi ai diritti e di espropriazioni delle risorse comuni, di chiudere gli spazi della riproduzione sociale alternativi al mercato capitalistico, di restringere le opzioni della riproduzione e del fare produttivo a quella forma che pone i produttori in antagonismo l’uno contro l’altro all’interno di un meccanismo competitivo e disciplinare dei mercati per il quale la riproduzione di un soggetto può avvenire solo attraverso la minaccia alla riproduzione di un altro soggetto.
Il superamento dell’antagonismo che sorge «dalle condizioni di vita sociali degli individui» non può che essere la costituzione di modi e forme diverse di articolare i poteri sociali. La condizione di base per tutto ciò è la possibilità di aumentare le risorse alle quali le comunità produttive dispongono in maniera “indipendente” dai mercati disciplinari. Diviene pertanto necessario estendere i commons in ogni sfera e ad ogni scala del fare sociale, in modo da ridurre la dipendenza dei produttori dal mercato.
I diciassette capitoli che compongono il saggio di De Angelis si suddividono in quattro aree tematiche. Nella Prima parte si discutono le caratteristiche generali del modo capitalistico di produzione e riproduzione sociale. Qui ci si preoccupa di mostrare come il conflitto sociale e le lotte sia dei salariati che dei non salariati siano parte integrante della costituzione dei circuiti del capitale e dei suoi processi di omeostasi e quindi della dinamica riproduttiva del sottosistema capitalista. Nel Secondo capitolo si discute il punto di partenza ontologico di tale opera. La nozione del conflitto è riformulata nei termini di conflitto tra pratiche di valore, opposizione tra modi di essere, fare, dare significato ed articolazione di poteri sociali. Tale approccio, oltre a permette di interpretare il conflitto di classe come “lotta tra valori”, permette anche di riconoscere il “fuori”, “l’altro” dal capitale e quindi di «reclamare un’autonomia degna nei confronti di un delirio di una forza sociale che vuole subordinare tutto per il perseguimento dei suoi fini» (pag. 13). Nel Terzo capitolo, viene preso in esame il “nemico”, cioè non il capitalismo, che è «il nome di un sistema che scaturisce dalle lotte tra pratiche di valore», ma il capitale, «una forza sociale che aspira a colonizzare la vita con il suo modo peculiare del fare e di articolare poteri sociali.» (pag. 13) Seguendo una lettura moderna di Spinoza, si introducono categorie come il “conato di autopreservazione” del capitale. Nel Quarto capitolo l’autore elabora i circuiti del capitale utilizzati da Marx per analizzare il carattere illimitato dell’aspirazione del capitale all’accumulazione. Sottoponendo questo strumento analitico a una lettura diversa da quella ortodossa, il testo mostra come questa “conato di auto-preservazione del capitale” basato sull’espansione, l’accumulazione e la colonizzazione, implica un intervento strategico continuo contrastato dalle lotte. Tale schema viene supportato da una serie di esempi storici. Nel Quinto capitolo si estende l’analisi alla discussione dell’ “accoppiamento” tra i circuiti di produzione e – non salariato – di riproduzione. Riprendendo una critica femminista degli anni Settanta, ed applicandola nell’attuale contesto della globalizzazione, l’autore sostiene che la divisione storica tra il fare salariato e quello non salariato è una divisione gerarchica fondamentale per il mantenimento del capitalismo e la riproduzione «dell’antagonismo capitalista tra produttori» di cui parlava Marx. Le forme contemporanee di quest’ultima sono discusse nel Sesto capitolo attraverso un’analisi dei circuiti di produzione e di riproduzione sociale planetari. Qui si delinea un’impalcatura di base entro la quale concepire i processi sistemici dei mercati capitalisti che tentano, attraverso la competizione, di spiazzare i conflitti e così facendo di dare energia innovativa al capitale stesso. Non è che le soggettività conflittuali siano intrappolate da questi circuiti. Al contrario, le forme sociali sviluppate dal capitale a fronte di queste conflittualità aspirano ad intrappolare tali soggettività, ma in nessun punto c’è un intrappolamento completo, perché nuove lotte e nuovi spazi sono continuamente creati.
La Seconda parte del libro, muovendosi da questo impianto teorico, propone una serie di letture critiche circa il processo di globalizzazione. Nel Settimo capitolo si identificano tre coordinate strategiche di base del capitale: recinzione, mercati disciplinari e governabilità. In tale capitolo l’autore si sofferma sull’analisi critica di quest’ultima analizzando la letteratura sulla “governanza neoliberista”. Nei Capitoli otto e nove si utilizza l’apparato analitico dei capitoli precedenti per leggere criticamente il dibattito circa la globalizzazione e si formula un’analisi delle tendenze socio-economiche di questi ultimi decenni. In particolare, si analizzano le forme di commercio e di produzione globale come modalità contemporanee dei meccanismi disciplinari di mercato la logica delle quali è di ottenere uno “spiazzamento” del conflitto.
La Terza parte abbandona le grandi dinamiche sociali che emergono dall’ordinamento capitalistico delle lotte tra pratiche di valore e si concentra sui processi essenziali che stanno alla base della produzione di valore del capitale. Nei Capitoli decimo ed undicesimo ci si sofferma sul fenomeno dell’accumulazione primitiva, o “recinzioni”. Le pratiche di valore del capitale trovano nelle recinzioni la loro genealogia, perché esse creano un contesto sociale che offre ai mercati disciplinari capitalisti il compito di articolare la riproduzione sociale. La lotta contro le recinzioni, dunque, è per nuovi commons, è strategicamente fondamentale per la prospettiva dell’ “inizio della storia”. Nel Capitolo dieci vi è una critica profonda al marxismo tradizionale che vede nelle recinzioni un fenomeno anteriore al capitalismo stesso, mentre, secondo l’autore, che trae spunto dall’analisi del testo marxiano stesso, interpretato alla luce del ruolo del conflitto nella costituzione del sociale, esse sono necessariamente un fenomeno continuo. Nel Capitolo undici viene fornito uno schema analitico ed una serie di esempi di recinzioni contemporanee. Nei Capitoli dodicesimo e tredicesimo viene discusso il centro di gravità delle pratiche di valore del capitale una volta liberatisi dai commons: la legge del valore è la misura del capitale. Nel Capitolo dodicesimo sono sottoposte a rassegna critica alcune critiche contemporanee alla “legge del valore” marxiana che hanno sostenuto che con il “post-fordismo”, il lavoro immateriale e l’emergere dell’economia dei servizi, il capitale non può più misurare il valore e quindi non può imporre il lavoro sul corpo sociale. Senza abbracciare il riduzionismo economico di stampo economicista, assai diffuso anche nella letteratura economica di ispirazione Marxista, De Angelis mostra che i mercati disciplinari capitalisti danno luogo a un processo sociale che misura il fare e quindi lo struttura, lo classifica e lo ordina lungo una gerarchia di valori e di ricchezza. Tale processo sociale coincide con il processo che genera quello che Marx chiama il “lavoro socialmente necessario”. «Questo e un processo cieco dal quale emergono le norme di co-produzione sociale dietro le spalle dei co-produttori stessi: per loro, i “come”, i “’cosa”, i “quanto” e i “chi”’ della co-produzione sociale diventano forze aliene, trasformando così “libertà” e “democrazia” in una beffa» (pag. 14)
Infine, nei Capitoli quattordicesimo e quindicesimo vengono analizzati due testi classici che aiutano a mettere in rilievo come ciò che emerge dai processi di misurazione capitalista chiamati da Frederik Hayek “l’ordine del mercato”, sia una geometria organizzativa di controllo sociale molto simile a quella ideata da Jeremy Bentham per una prigione, il panottico. Sottoponendo a critica costruttiva le interpretazioni moderne del post-fordismo che hanno visto in ciò la società di controllo, l’autore sostiene che non esiste controllo senza disciplina e che il progetto del capitale negli ultimi decenni si fonda sulla costituzione di un “panottico frattale” nel quale le conflittualità sono canalizzate in un modo di co-produzione sociale che crea scarsità nel mezzo dell’abbondanza e crea soggettività che per disposizione, paure e modalità di articolazione produttiva, riproducono il processo.
Nell’ultima parte l’autore torna alla problematica dell’ “inizio della storia”, cioè della separazione ed emancipazione dalle pratiche di valore del capitale. Non vengono fornite risposte programmatiche, ma viene offerto un contributo per la contestualizzazione della domanda del come sia possibile non solo andare fuori e oltre il capitale, ma come sostenere un processo di emancipazione da esso.
Concludendo, “l’inizio della storia” sviluppa una critica incisiva alla razionalità economica mettendola in rapporto alle lotte tra pratiche di valore. Nel loro antagonismo dinamico con il capitale, le soggettività sociali sconvolgono il normale funzionamento del capitale e pongono l’urgenza di una riproduzione sociale fuori da esso, dalla legge del valore, del profitto e attraverso commons. Il libro di De Angelis risulta decisamente utile nel suo contributo alla comprensione dell’attualità ed allo sforzo critico necessario per il suo supermento. Le pratiche di resistenza alle domande del mercato capitalistico, alla sua attuale crisi, ai rapporti sociali gerarchici, necessita chiaramente di una lotta che non si limiti a contrastare la logica espansiva dei rapporti sociali capitalistici, ma che sia in grado di creare e sostenere forme di riproduzione sociale basate su “altre” pratiche di valore. Ed è qui che torna alla luce il comunismo: «Il comunismo (…) è una forza sociale di separazione progressiva dai circuiti monetari del capitale e ciò può essere fatto solo attraverso l’estensione dei commons e delle corrispondenti comunità. L’inizio della storia è ovunque e promette abbondanza e convivialità. L’unica cosa che previene l’esserne parte sono i nostri bisogni, i nostri desideri e l’efficacia dei nostri poteri, cioè la portata della capacità organizzativa dei nostri poteri e desideri. Ma tale discussione non può essere parte del libro. Un autore deve stare in silenzio quando la questione è di concreta articolazione con l’altro, concreto processo di costituzione. Queste sono piuttosto questioni di strategia, farsi rete, di affetti e comunità in contesti specifici. Sono questioni di individui liberi che afferrano le condizioni di produzione e riproduzione delle loro vite e non c’è generalizzazione teorica adeguata a descrivere ciò che è, in ultima analisi, il flusso della vita così come è vissuto da soggetti liberi. L’inizio della storia deve essere vissuto, altrimenti è la fine della storia» (pag. 247)