[Il 14 settembre 2008, dopo un’indegna ondata continuativa di allarme infondato sulla sicurezza propalata dai media nazionali, veniva ucciso a Milano Abdoul Salam Guiebre, 19 anni, di Cernusco sul Naviglio, massacrato a colpi di spranga intorno alla Stazione Centrale da padre e figlio baristi, proprietari di un locale dove il ragazzo e alcuni suoi giovani amici “forse” avevano rubato per bravata un pacchetto di biscotti. Di origine burkinabé, il ragazzo decedeva all’ottavo colpo di spranga. Alla generale mobilitazione a Milano, non partecipò il Sindaco. Il processo si è iniziato, dopo che i colpevoli, il cui volto non è mai stato mostrato in tv o sulla stampa, hanno offerto prima 50.000 euro e poi 100.000 per risarcire la famiglia Guiebre; e hanno formulato per bocca dei loro avvocati un pentimento in occasione della prima udienza. In merito, riceviamo e volentieri pubblichiamo questo appello inviato dalla traduttrice e teorica della letteratura Donata Feroldi. La Redazione]
Non lo chiamerò Abba perché non lo conoscevo personalmente. Non lo chiamerò Abba perché vorrei farla finita con la finta confidenza giornalistica che spiana la strada all’indifferenza solleticando la vena sentimentalistica di questo paese che ama sentirsi migliore nel momento stesso in cui archivia la pietà e la solidarietà umane incarnate in una forma dignitosa, non lacrimevole. Non lo chiamerò Abba perché, a differenza dei suoi amici, non sono adolescente: a loro dunque, a loro soltanto, il privilegio di chiamarlo col nome dei giochi e degli scherzi, col nome del cuore. A loro, ai suoi genitori, ai suoi fratelli e sorelle: alla sua famiglia e a tutti quelli che, davvero, gli hanno voluto bene quando ancora era vivo.
Vorrei che noi, abitanti di questo paese, di questa città che è stata la sua, pur così matrigna, potessimo vedere il volto dei suoi assassini e interrogarci su quello che si può leggere negli occhi di qualcuno che in una notte di furia abbatte un innocente, senza fermarsi un momento a guardare il volto umano che ha di fronte: accecato di rabbia immotivata. Vorrei che potessimo vedere quegli occhi senza sguardo che sono anche i nostri occhi: occhi dimentichi di ogni bene, privi della luce che fa di un uomo un uomo, occhi ciechi.
I loro nomi non sono niente. Dopo tanti mostri sbattuti in prima pagina — per esserlo, per essere quei mostri che vogliamo che siano, per poterli meglio dimenticare — viene negato a tutti noi, cittadini di questo paese, di conoscere il volto di qualcuno che, pur restando umano, pur restando di questa carne e di questa terra, fa un passo fuori dal consorzio degli uomini, si arma di una spranga e nella notte insegue un ragazzo e lo ammazza così, come un cane, sull’asfalto di un marciapiede, “per futili motivi”. Di chi sono i volti, di chi sono le mani che hanno armato la mano che si è armata di una spranga?
Anche questi volti, anche queste mani — mani armate di penna e microfono — vorremmo vedere sul banco degli imputati. E vorremmo sentire dalle loro bocche, dalle bocche di tutti e non solo da quelle degli assassini di Abdoul — che ancora non hanno parlato, lo hanno fatto solo per interposta persona, per bocca dei loro avvocati — vorremmo sentire, se non un mea culpa, una parola di dignità, se non di pentimento, una parola di presa di responsabilità umana perché “siamo umani e niente di quello che è umano può esserci estraneo”.
Non ci è stato negato invece l’osceno spettacolo dei momenti che hanno preceduto la morte di Abdoul, la marcia violenta e inesorabile dei corpi armati di spranga nell’immagine sgranata di una telecamera di sorveglianza — la prova dei fatti, trasmessa in prima serata in supremo disprezzo per il dolore di un padre e una madre, di fratelli e sorelle, di amici ed amiche, che hanno così potuto assistere agli ultimi istanti di quell’essere amato. Perché dare in pasto quel video alla platea sempre satolla e distrattamente avida di cibi ed emozioni forti all’ora del desco serale? Per quale idea di verità? quale idea di giustizia? quale diritto di cronaca? Cosa può giustificare una simile violazione delle basi più elementari del rispetto umano, di quel naturale istinto alla pietas, noto a tutte le latitudini ma evidentemente non qui, nella patria dello spettacolare integrato, diffuso e concentrato al contempo? Non ho visto quel video, me l’hanno riferito, non avrei guardato, mi sarei coperta gli occhi in segno di pudore.
Qual è il prezzo della vita di un uomo? La vita di un uomo, di un ragazzo, non ha prezzo. Ma non è questa una ragione per offrire un’elemosina irrisoria per la pelle di un giovane di differente colore, per infliggergli l’estremo insulto di un obolo gettato dalle mense dell’abbondanza, quand’anche l’abbondanza non fosse la condizione di chi lo ha abbattuto. La mano che getta questo obolo è imbeccata da altre mani — armate di disprezzo —, e sono queste le mani che vogliamo interpellare, questo il gesto che non possiamo più tollerare. Non vi è risarcimento possibile per la morte di un innocente, e quand’anche fosse provata in sede processuale l’innocente scorribanda adolescenziale, nulla potrebbe giustificare lo spregio di una moneta gettata per terra, su quello stesso asfalto su cui Abdoul ha incontrato la morte per mano di un padre e di un figlio che insieme, come in un apologo biblico, hanno sacrificato un Abele che era Cam e Isacco insieme. Cos’è questa sporcizia, questo nero purulento che normalmente chiamano bianco? Cos’è questo candore di pelle che occulta abbagliando una nera melma rabbiosa dimentica delle proprie origini meticce, “mediane”?
Questa città che è un incrocio, e persino nel nome porta testimonianza della propria natura ibrida, di luogo di sosta e passaggio, ha potuto tradire così il proprio omen, senza che nessuna voce si alzasse a contraddire lo scempio, a riportare il presente e la storia nel loro alveo?
Tutti noi sappiamo i nomi di quelli che hanno armato le mani, sono conservati negli archivi dei telegiornali e dei quotidiani, tutti noi abbiamo dovuto ascoltare ad nauseam i discorsi che — come i proclami della Radio delle Mille Colline in Rwanda — hanno fatto crescere l’odio e la diffidenza per qualcuno che, pur umano, pur cittadino, veniva costantemente additato come diverso: un corpo estraneo, espulso infine, abbattuto, come un animale in un mattatoio, un cane randagio in mezzo a una strada. A questo è ridotta la nostra città, il nostro paese. A questo episodio, emblematico tra altri altrettanto emblematici e innumeri. E la serie sembra non voler finire.
Chi sono questo padre e questo figlio che, insieme, hanno potuto compiere un crimine così tremendo, hanno potuto intrecciare il loro legame di sangue al versamento di un sangue innocente, adolescente? Chi sono? Chi siamo? Cosa siamo diventati?
Chiedo per Abdoul Salam Guiebre, a nome mio e dei miei concittadini, un processo giusto, un processo che restauri in pienezza la nostra dignità di abitanti di questo paese, di qualunque provenienza e colore, di qualunque lingua, usanza e religione. Chiedo ai miei colleghi intellettuali, ridotti a proletariato mentale, a manovalanza cognitiva alienata e complice, privata di qualsiasi dignità, di assistere al processo per l’assassinio di Abdoul con un silenzio assordante, un anonimato che si renda visibile e pressante, perché sia resa giustizia alla sua vita e al suo nome, ai sacrifici e alla dignità di suo padre, di sua madre e dei suoi fratelli e sorelle. Chiedo a noi stessi una rivolta muta e pesante, un silenzio che possa dimostrarsi più forte di qualsiasi osceno sentimentalismo spacciato via inchiostro e via etere, via pixel e via radio, chiedo un soprassalto di dignità che sappia essere all’altezza della lezione che ci è stata impartita dai suoi familiari e dalla sua comunità nel corso di tutta questa vicenda. Possiamo ancora diventare uomini e donne. Non è detta l’ultima parola.
Vorrei concludere con le parole pronunciate alla 39ª sessione dell’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite a New York, il 4 ottobre 1984, da Thomas Sankara, allora Presidente del Burkina Faso, parole prese a prestito dal poeta tedesco Novalis:
“Presto gli astri ritorneranno a visitare la terra da cui si sono allontanati durante i nostri tempi oscuri; il sole deporrà il suo spettro severo, tornerà stella tra le stelle, tutte le razze del mondo si riuniranno di nuovo, dopo una lunga separazione, le vecchie famiglie orfane si ritroveranno e ogni giorno vedrà nuovi incontri, nuovi abbracci; allora gli abitanti del tempo che fu torneranno verso la terra, in ogni tomba si risveglierà le cenere spenta, ovunque bruceranno le fiamme della vita, le vecchie dimore saranno ricostruite, i tempi antichi si rinnoveranno e la storia sarà il sogno di un presente di durata infinita.” (1)
Spero che la terra d’Africa, dove è sepolto, sia per Abdoul più lieve di quanto non sia stata questa grigia contrada che non merita il nome di “Terra degli Uomini Integri”, qual è quello della patria dei suoi avi, il Burkina Faso.
Spero che i suoi assassini possano trovare il perdono di qualche dio, qualunque sia il suo nome, o di nessun dio, qualunque sia il destino prescritto alla nostra specie, perché non meritano l’odio, che hanno seminato, e neppure il disprezzo, che hanno dimostrato, ma solo la coscienza che, se nulla di quello che è umano può esserci estraneo, è necessario per tutti noi interrogarci su cosa sia diventata e cosa diventi giorno dopo giorno questa nostra incarnata umanità.
Del suo assassinio e della morbosa e ipocrita complicità che ne è seguita, del gioco delle riprovazioni, strumentalizzazioni e controstrumentalizzazioni, io provo vergogna.
La prossima udienza del processo per l’assassinio di Abdoul Salam Guiebre si terrà a Milano, il 14 maggio 2009.
1. “Bientôt les astres reviendront visiter la terre d’où ils se sont éloignés pendant nos temps obscurs ; le soleil déposera son spectre sévère, redeviendra étoile parmi les étoiles, toutes les races du monde se rassembleront à nouveau, après une longue séparation, les vieilles familles orphelines se retrouveront et chaque jour verra de nouvelles retrouvailles, de nouveaux embrassements ; alors les habitants du temps jadis reviendront vers la terre, en chaque tombe se réveillera la cendre éteinte, partout brûleront à nouveau les flammes de la vie, le vieilles demeures seront rebâties, les temps anciens se renouvelleront et l’histoire sera le rêve d’un présent à l’étendue infinie”.