di Carlo Loiodice
Ettore Petrolini, in un suo celebre pezzo, “Gastone”, disse la famosa frase: «A me m’ha rovinato la guerra». Avendo vissuto sessant’anni di pace, sono tuttavia alla ricerca di qualcosa che giustifichi i miei scacchi esistenziali. E allora potrei dire: «A me m’ha rovinato la scuola». E nel dir questo, so che molti insegnanti sanno di cosa si tratta, anche quando personalmente non si ritengono rovinati.
Non so se Gastone avesse motivi di particolare risentimento nei confronti del general Cadorna. Ne avrebbe avuto ben donde…
Il mio general Cadorna si chiama Luigi Berlinguer, e a lui vanno imputate due colpe fondamentali: 1° ha aperto lo spiraglio che poi Moratti, Fioroni e Gelmini hanno trasformato in voragine; 2° ha demotivato e massacrato gli insegnanti che, politicamente, avrebbero dovuto stare dalla sua parte, sostenendone lo sforzo riformatore. Lasciato il servizio attivo, qualcuno mi chiese come stavo e sorpresi me stesso con la risposta che lì per lì mi venne: «È come il 25 aprile: ho perso la guerra ma è una liberazione…» Purtroppo la battuta vale soltanto a livello individuale. Ma già da tempo mi pareva di aver capito di cosa ha bisogno la scuola, nelle persone di chi la frequenta: studenti, docenti, personale tecnico e di supporto. La scuola ha bisogno di liberazione.
Liberazione, non dalla politica (della quale ha invece tanto bisogno), ma dai politici, esseri spesso immondi, sempre pronti a mettere il loro cappello sul primo posto che vedono vuoto e disponibile per farne uso disinvolto.
Liberazione, non dalla pedagogia (con questo termine intendendo l’insieme delle discipline che ci permettono di meglio conoscere in che modo si sviluppano nei ragazzi i meccanismi dell’apprendimento e la formazione delle inclinazioni), ma da quei pedagogisti che, rinchiusi negli istituti universitari e senza sperimentare di persona ciò che accade in una classe, si mettono poi a disposizione del ministro di turno con tutto il loro strampalato patrimonio di argomentazioni astratte, gratuite e strumentali.
Liberazione, non dall’economia (la scienza che, con tutti i limiti che può avere, studia il modo migliore di utilizzare con profitto le risorse a disposizione), ma dagli economisti che mettono il loro sapere (ammesso che sapere sia) al servizio di interessi unilaterali e non sempre condivisibili.
Liberazione, non tanto dalla burocrazia (intesa come sistema di procedure in grado di coordinare al meglio il lavoro di tanti), quanto da burocrati carrieristi e ottusi, interessati più a schivare che ad assumersi responsabilità.
Liberazione, non dalle famiglie (con le quali la scuola dovrebbe instaurare un rapporto finalizzato alla crescita intellettuale dei giovani), ma da quelle forme di familismo che, fingendo di proteggere i ragazzi, ne riduce le effettive capacità di autogestione e produce un vero e proprio genocidio intellettuale degli adolescenti.
Ciò che oggi sembra avere poco a che fare con la scuola è proprio quella cultura che dovrebbe costituirne l’ingrediente principale. A fronte della fraseologia altisonante con cui vengono battezzati istituti, corsi e progetti, troviamo i desolanti risultati conseguiti dai nostri studenti nei test Pisa. Ma se anche non ci si vuol far suggestionare dalla frigidità dei dati statistici, basterà un’annotazione: nella scuola italiana manca praticamente del tutto l’ultimo secolo di storia. E non mi riferisco alla storia come materia, il cui insegnamento si arresta alla seconda guerra mondiale. Mi riferisco alla filosofia, all’arte, alla letteratura, alla musica, alla matematica, alla fisica, alle scienze sociali e a quelle della psiche; materie i cui progressi nel XX secolo sono tanto giganteschi quanto ignorati. Persino le «tre I» di berlusconiana memoria — impresa, informatica, inglese — sono un vuoto slogan senza rispondenza alcuna nella realtà scolastica. Potremmo cominciare a discuterne se a scuola si formassero degli imprenditori, dei sistemisti e dei comunicatori internazionali. Ma qui, ad aprire nuovi negozi (imprese) sono i pakistani, mentre con l’inglese e l’informatica imparati a scuola si fa davvero poca strada.
Una decina di anni fa, il matematico Lucio Russo scriveva:
«La grande maggioranza degli studenti della nuova scuola finirà semplicemente con l’assumere l’uno o l’altro degli infiniti ruoli di mediazione tra produzione e consumo nati per alimentare il mercato distribuendo in rivoli minimi parte della ricchezza che sgorga da poche sorgenti lontane e inaccessibili. Le capacità e le competenze richieste per tali ruoli sono minime e diminuiscono di anno in anno. Le continue ondate di innovazione tecnologica, che immettono nel mercato prodotti sempre nuovi, spesso basati su tecnologie raffinate, richiedono in compenso masse di consumatori “evoluti”, attenti cioè alle novità, capaci di mutare continuamente le abitudini di consumo, abbastanza “colti” per recepire rapidamente i messaggi pubblicitari e leggere manuali di istruzioni, ansiosi di superare l’amico e il vicino nella rapidità di acquisto dei prodotti dell’ultima generazione, consumando in rapida successione i prodotti lanciati via via sul mercato. In definitiva la nuova produzione, concentrata e automatizzata, richiede più conoscenze ai suoi clienti che ai suoi dipendenti. La nuova scuola deve quindi preparare soprattutto consumatori, oltre che contribuenti ed elettori».
Dopo l’uscita del suo libro, Russo fu tanto elogiato quanto criticato. Ma non è delle sue vedute specifiche che voglio discutere. Voglio invece sottolineare un rischio che si corre ogni volta che si affrontano discorsi su scala globale. Nelle parole citate sembra di intravvedere un disegno organico, una regìa intelligente, un progetto esecutivo di una volontà perversa, quella del capitalismo, immagino, che pian piano mira a sottrarci a noi stessi per alienarci nel grande meccanismo della generazione del profitto. Mi permetto di dissentire, poiché, se così fosse, se le cose stessero a questo punto, se stessimo parlando di una sorta di destino laico e terreno, a nulla varrebbe cercare di comprendere per cambiare. Diciamo allora che le parole di Russo sono il giudizio storico di quanto avvenuto sin qui e non la profezia di quanto dovrebbe o potrebbe avvenire; perché questo dipende, oltre che dalle condizioni materiali oggettive, anche da quanto riusciremo ad esprimere di soggettivo.
In Inghilterra l’aggettivo “privato” non si applica al mondo dell’istruzione. Ci sono le “state schools” e le “public schools”. Cambia il gestore: lo stato nel primo caso, altri nel secondo. Ma non è evidentemente in discussione il carattere “pubblico” dell’istruzione. Dalla Francia abbiamo avuto notizia dell’esistenza di “lycées” privati, frequentati da gente povera, quando un insegnante di quei licei, Daniel Pennac, si è affermato anche da noi come romanziere. Negli Stati Uniti molte scuole sono gestite dalle confessioni religiose, ma questo non vuol dire che siano riservate ai credenti delle rispettive chiese. Capita che una famiglia — se non integralista – mandi i propri figli a studiare presso la scuola di una tale o tal altra chiesa in base alla sola reputazione didattica. Qualcosa del genere capita in Italia, esattamente a Bolzano, dove famiglie italiane preferiscono iscrivere i figli al liceo tedesco, proprio in base a una valutazione didattica.
Qualcosa del genere, molto più stemperato per un verso ma anche più significativo per un altro, capitava a Bologna ai tempi d’oro dell’istituto tecnico «Aldini-Valeriani». Perché mandare un figlio lì e non allo statale Belluzzi? Inutile dilungarsi. Chi vive a Bologna lo sa. L’«Aldini-Valeriani» era accreditato di un maggior valore formativo e di un maggior aggancio con la realtà economica del territorio. Né dimentichiamo l’«Elisabetta Sirani», che assieme all’altro istituto concorreva a formare un patrimonio scolastico che non apparteneva allo stato italiano, bensì al comune di Bologna. Scuole pubbliche; non perché detenute da un ente pubblico, ma perché vi si coltivava lo spirito pubblico, come provato anche dall’ampiezza di offerta formativa anche sotto forma di corsi serali.
Nelle idee di Francesco Zanardi — primo sindaco socialista di Bologna, eletto nel 1914 – c’era quella di
«provvedere ad una più larga diffusione della scuola, non soltanto elementare, ritenuta insufficiente ai bisogni odierni, ma anche professionale, onde in ogni luogo si addestri la gioventù italiana ad una esatta valutazione del lavoro produttivo, ora lasciato alla stregua del più cieco empirismo, ad una più alta dignità delle sue opere, ad un senso profondo di indipendenza».
Ed è davvero un peccato che la sinistra abbia lasciato nelle mani di forze reazionarie come la Lega il discorso del decentramento della scuola. A leggere i documenti che hanno portato alla statalizzazione delle scuole appartenenti al Comune di Bologna, si può cogliere qualche tratto di ipocrisia, segno del sopravvenuto disinteresse, tra la maggioranza che regge la nostra città,per una politica dell’istruzione che promuova le specificità del territorio. Nell’allegato alla deliberazione PG n. 180007/2008 si legge:
«…al fine di giungere ad una transizione di competenze che non alteri il buon funzionamento degli Istituti, tenendo conto delle aspettative degli studenti, del personale docente e non docente risulta opportuno specificare alcuni punti della convenzione succitata e definire congiuntamente alcuni aspetti di gradualità della transizione…».
Viene da chiedersi: perché mai questo trasferimento di competenze dovrebbe o potrebbe alterare il buon funzionamento degli istituti? Evidentemente si mettono le mani avanti rispetto ad un possibile calo di qualità che potrebbe essere indotto dal passaggio allo stato. Per contro, la sinistra, già dalla metà degli anni ’90, ha aperto una linea di credito verso le scuole private, eufemisticamente dette paritarie, mentre le si dovrebbe dire semplicemente cattoliche.
Ed eccoci al punto su cui innestare la mia anticonformistica posizione. Stante che in Italia esiste da sempre un settore scolastico definito di volta in volta privato, parificato, legalmente riconosciuto, paritario, ecc, perché non portare la battaglia all’interno di quel settore? Se temiamo che lo stato, rilevando dal Comune di Bologna la gestione di un istituto come l’«Aldini-Valeriani» possa alterarne (in peggio) la qualità, perché non dichiarare alto e forte che lo stato certe cose non le può fare, e sono cose a cui teniamo moltissimo? Perché non ripensare criticamente il discorso dell’istruzione come obiettivo e della scuola come strumento? È mai possibile che si faccia un così gran parlare di «autonomia» per poi rimanere intrappolati in una ragnatela di circolari ministeriali che fungono da ceppi e pastoie ai piedi di tanti insegnanti e operatori scolastici ricchi di idee e di voglia di fare? A chi giova questa perdurante ottusità che si ostina a confondere “pubblico” con “statale”?
Mi viene in mente una grande battaglia perduta dalla sinistra, senza che essa lo voglia ammettere: quella per le comunicazioni radiotelevisive. Chi ricorda gli anni ’70 ha in mente il proliferare di «radio libere» e di TV locali. Qualcosa esiste ancora in forma di network. Ma il PCI allora decise di puntare tutto su un malinteso “pubblico”, che consistette nella partecipazione alla lottizzazione della RAI. Ma con tutto il rispetto per le persone di Sandro Curzi e Angelo Guglielmi, il soprannome di Telekabul guadagnatosi in quegli anni da Rai3 credo che avesse a che fare più con le tessere di partito che con una reale diversità della qualità informativa. E comunque, trattandosi di lottizzazione, mancava una vera e accanita competizione con le altre due reti. E intanto Fininvest — poi Mediaset — cresceva, cresceva, cresceva… fino a fagocitare il tutto… E oggi è proprio dalla televisione commerciale, lasciata crescere senza reale contrasto, che viene un attacco alla scuola; la quale diviene sempre più ingestibile mano a mano che a prendere il sopravvento è l’ideologia televisiva dei quiz, dei reality e delle fiction. Ma se si vuole spegnere il sistema Mediaset-Murdock nella testa delle persone, bisognerà tirarle fuori di casa e condurle in luoghi dove è bello stare perché s’impara e si fa, si conosce e si vive. Dobbiamo ricordare che la «scholé» greca, corrispondente all’«otium» latino, consisteva non già nel non far niente, ma nel fare senza l’assillo del guadagno? Da questo punto di vista, la scuola di stato si sta trasformando in una «dyscholia», una non-scuola, poiché vi si predica non già l’apprendimento disinteressato, ma la formazione «spendibile». E siccome ciò che è spendibile ha a che fare con il mercato, vale a dire un luogo pubblico e aperto nelle apparenze scenografiche e tuttavia privato nelle dinamiche e negli interessi, ecco che la scuola di stato si avvia a diventare la vera scuola privata, cioè asservita agli interessi privati. Perché dunque non provare ad immaginare luoghi non statali dove si coltiva la dimensione pubblica? Un’idea mi viene trasversalmente dall’esperienza “privata” fatta da coloro che si sono dedicati ad insegnare l’italiano agli stranieri. Cosa c’è di più pubblico, anche se avviene in luoghi e secondo forme che nulla hanno a che fare con lo stato? Immaginiamo uno sviluppo di quei corsi dalla lingua alla cultura, da un lato introducendovi materie come la matematica o il montaggio video, dall’altro iscrivendovi italiani che andrebbero a vivere finalmente una relazione proficua con persone con le quali nella quotidianità non riescono a comunicare. Immaginiamo cose del genere e capiremo che in queste cose lo stato o gli enti locali potrebbero essere interlocutori soltanto a livello finanziario. La loro burocrazia non consentirebbe a un progetto di andare a soluzione se non dopo il pensionamento di chi lo ha formulato. E poi, diciamocela! Bisogna smetterla con questa mistificazione per cui un insegnante vale l’altro e quel che conta sono i moduli didattici. Un insegnante ha una sua propria personalità e una scuola può averne una propria se il personale che vi lavora ne ricerca e ne coltiva una. Non possono essere certo gli sciagurati meccanismi delle graduatorie, dei trasferimenti, del precariato, ecc, a creare le condizioni giuste. Chi ha insegnato in realtà periferiche lo sa: turn over altissimo e conseguente zero pianificazione, proprio là dove una Scuola sarebbe più necessaria.
Il discorso è stato fatto per sommi capi e senza suggerire soluzioni. Certo sarebbe bizzarro che chi in premessa ha dichiarato fallimento, si metta a scrivere linee guida. Ma credo che certi tabù vadano infranti. E a ben pensarci, non credo nemmeno che si tratti di veri e propri tabù. Ci sono tanti “compagni” che hanno mandato i figli a studiare dalle suore, e non certo per perbenismo. E a ben pensarci, credo anche che fra gli amministratori di sinistra che accettano di dar soldi alle suore ci sia chi potrebbe condividere parte del mio discorso: la parte che esprime sfiducia nei confronti dello stato. Solo che anche qui un altro paragone s’impone: quello con l’assistenza agli anziani. Bisognerebbe smetterla di pensare che pagando si risolve ogni problema. Tanto più se s’intende pagar poco. Apparentemente risparmi, ma in pratica t’impoverisci, perché ti va in fumo il capitale sociale costituito dalle relazioni umane. Se parliamo di scuola, dobbiamo parlare di relazioni umane, e qui lo stato non può nulla se siamo soggettivamente noi ad abbandonare il campo.