di Toby Litt
[dal Guardian del 26 maggio 2007. Privato di qualunque attenzione critica di spessore, Falling Man di DeLillo è passato quasi inosservato. Non esiste in stampa, di fatto, un ragionamento all’altezza né dello scrittore né del testo, la cui apparente “delusività” è un elemento che indurrebbe a riflessioni profonde, ma che finora ha guadagnato al grande autore americano un discredito abbastanza comico da Body Art in poi. Non si tratta di un vizio italiano – è a emblema che riproduco qui la sapiente stroncatura comminata a DeLillo dal collega Toby Litt, memorabile autore dell’indimenticato Hospital. gg]
L’uomo che cade è il romanzo di Don DeLillo sull’11 settembre. I lettori lo hanno atteso con ansia. Con la sua intuizione che, attualmente, sono i terroristi, in luogo degli artisti, a comunicare direttamente con l’inconscio collettivo, DeLillo, tra tutti gli artisti, è colui che più si è avvicinato a prefigurare, se non a predire con esattezza, gli attacchi su Washington e New York. E così è capitato che, perfino mentre si ricevevano le prime notizie di quegli attacchi, il nome di DeLillo fosse il primo ad affacciarsi — così come quello di J.G. Ballard quando si conobbero gli estremi della morte della principessa Diana.
Come ha DeLillo affrontato l’impresa? Si direbbe: in maniera mediocre.
Non c’è il minimo tentativo di redigere un nuovo Grande Libro come Underworld. Piuttosto, al modo dei suoi due romanzi precedenti e cioè Body Art e Cosmopolis, L’uomo che cade risulta ambizioso nella prospettiva ma non nello esiti raggiunti. E’ un romanzo scrupolosamente intimistico e coniugale, costantemente sottotono. Se una scena può essere rappresentata in retrospettiva, non c’è dubbio che venga scritta; se il comparto drammatico può essere sottratto anticipatamente, non c’è dubbio che venga levato. Il che è un vecchio trucco desunto dal teatro di Shakespeare. Ovviamente, il pubblico elisabettiano sapeva alla perfezione quanto fosse stata vittoriosa l’impresa di Enrico V al momento della conquista della Francia. L’esito, per quegli spettatori, non era mai messo in dubbio. Motivo per cui, al fine di affrontare una simile situazione, Shakespeare adotta l’espediente del Coro che dice: “Guardate bene: ecco ciò che non avete visto — le motivazioni, il dietro le quinte. Conoscete il cosa; eccovi il perché”.
Ciò che L’uomo che cade afferma al suo pubblico in maniera implicita è parecchio simile: “Ok, abbiamo tutti visto lo stesso accadimento, la medesima ripetizione ciclica in replay di impatto ed esplosione. Ma il mio lavoro sono le le parole, ed ecco che io trasmuto il mio atto di vedere in un atto di comunicazione linguistica”. Al suo meglio, DeLillo è uno dei massimi osservatori e traduttori di visione in lingua del nostro tempo.
Il romanzo incomincia dopo che la prima Torre, quella Sud, è già collassata su se stessa. Un uomo qualunque e senza nome, che in seguito sapremo chiamarsi Keith Neudecker, stava lavorando nell’edificio quando il primo aeroplano ha impattato. E’ riuscito a uscirne vivo, portandosi dietro una ventiquattrore che appartiene a uno sconosciuto. Ecco DeLillo che descrive Keith ricordare la discesa per le scale. Attenti alle tre parole finali per ottenere la ricompensa:
“Qui è dove bottiglie d’acqua venivano passate da qualche parte sotto, e anche le bibite, e certa gente riusciva anche a scherzarci: i trader d’assalto.”
Gran descrizione: sembra di essere proprio sul posto.
E c’è di più, poiché DeLillo sa anche ascoltare benissimo. Questa è la descrizione di un momento a cui tutti noi abbiamo tentato di dare forma:
“Sentì il suono del secondo crollo, o lo avvertì nel tremore dell’aria, la Torre Nord che veniva giù, un sollevarsi ovattato di voci paurose e distanti.”
Dubito si possa fare di meglio.
Dopo la catastrofica apertura del romanzo, tutto il resto è all’incirca soltanto questo: le conseguenze. Sebbene ferito, Keith non va in ospedale, ma a casa della donna da cui ha divorziato, Lianne. In capitoli appropriatamente intercalati, seguiamo le vicissitudini di entrambi, avanti e indietro nel tempo. Keith riporta la ventiquattrore alla legittima proprietaria, Florence, anche lei di stanza alla Torre Sud. Comincia tra loro una specie di mezza storia. Lianne frequenta un gruppo di supporto per malati di Alzheimer. Insieme, tutti ripetutamente richiamano alla mente gli eventi del passato. I capitoli possono pur venire frammentati, ma i temi si avvicinano e si intrecciano fin troppo nitidamente.
DeLillo è uno scrittore celebre per le sue scene: l’Airborne Toxic Event di Rumore bianco, il matrimonio dei seguaci del Reverendo Moon in Mao II e la partita tra Giants e Dodgers in Underworld. Momenti che portano all’apice la sua scrittura. Direi quasi che DeLillo creda che il mondo evolva per scene. E però la quasi totalità de L’uomo che cade sembra un goffo tentativo di evitare la trasformazione dell’11 settembre in una grande scena — quasi che, se si facesse così, il risultato sarebbe di cattivo gusto. Alla fine, tuttavia e grazie a dio, DeLillo soccombe.
Le tre sezioni principali con protagonisti Keith e Lianne hanno tutte una breve coda. Queste appendici concentrano lo sguardo su Hammad, uno dei dirottatori del primo boeing. Lo seguiamo mentre si avvicina progressivamente al punto di impatto. Qui la prosa, ritmica e dinamica, contrasta al massimo con gli snervanti passaggi descrittivi della scomparsa di Keith nel mondo dei giocatori di azzardo e con i dialoghi da conte philosophique tra Lianne, sua madre e il di lei compagno.
Nonostante ciò, gli attentatori dell’11 settembre secondo DeLillo paiono una debole eco delle bande che l’autore aveva descritto nella sua passata produzione narrativa — e soprattutto dei seguaci di Moon in Mao II, compressi nei loro furgoni a intensificare ossessivamente la loro fede monodirezionale.
“Guardarono dalle finestre e videro i volti di tutti i caduti. La visione completava il loro attaccamento al vero unico padre. Tutti a pregare tutta la notte, a volte, salmodiando, levando lamenti, sollevandosi dalle posture di preghiera, supplici che mormoravano amorose preghiere al Signore, oh!, Ti prego, oh!, sì…”
Ecco Hammad che empatizza allo stesso modo dei miscredenti, allo stesso modo sottoposto a visione:
“Questa vita, tutta, questo mondo di distese digradanti verso le acque e hardware stipato in scaffalature senza fine, era una totale sempiterna illusione. Nel campo d’addestramento, in quella piana ventosa, erano stati trasformati in uomini. Avevano sparato con armi e avevano fatto detonare esplosivi. Erano stati istruiti alla Grande Guerra Santa, che consiste nel fare scorrere il sangue, il proprio e l’altrui sangue”.
Si riscontra qui una caduta stilistica totale. Solo pochi anni fa, le armi di DeLillo non avrebbero semplicemente “sparato” né i suoi esplosivi sarebbero stati fatti banalmente “detonare”. Questa non è la visione che parla: questa è la ripetizione pura e semplice. Poiché la verità vera è che il suo grande libro sull’11 settembre, DeLillo, l’aveva già scritto ed era Mao II— parecchio tempo prima della data specifica degli attentati e che l’evento predetto si realizzasse.