di Luca Barbieri

ProcessoSetteAprile.jpgQui le precedenti puntate.

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3. Padova, palco della scena

Partiamo dall’ambientazione: il 7 aprile nasce a Padova, scena a quanto ci dicono i giornali, di una delle più pericolose trame eversive della storia repubblicana. Padova è una città particolare: “bianca”, dominata da una incontrastata e incontrastabile Democrazia cristiana, eppure “rossa”, nel suo piccolo uno dei punti di forza, insieme a Venezia, della sinistra veneta. Ospita un’università, considerata la più grande “fabbrica” del Veneto, con la quale convive con un po’ di sofferenza. Soprattutto, per i quotidiani del ’79, Padova è la città-laboratorio del terrorismo diffuso.

«Nel triennio 77-79 il Veneto — scrive Sartori sull’Unità del 12 marzo 1980 – ha registrato 1.197 atti di violenza, per oltre la metà concentrati a Padova: 817 attentati, 174 aggressioni, 206 tra rapine, espropri e devastazioni, saccheggi e così via. Dieci le persone ferite in attentati, sei i morti per terrorismo. Oltre l’80% di questi episodi va addebitato all’eversione di matrice autonoma, storicamente emanata dal “motore” padovano. Sono dati impressionanti: nel triennio, nella fascia centrale del Veneto, dove vive all’incirca il 5% della popolazione nazionale, è stato commesso il 18 per cento di tutti gli episodi terroristici ed eversivi d’Italia». I numeri fanno impressione. Ritornano, identici, su tutti i quotidiani. Figurano una città sotto continuo assedio, nella quale con le tenebre partono attacchi simultanei (le famose “notti dei fuochi”) nei diversi quartieri.
Si arriva a scrivere che dal ’77 al ’79 «Padova è come Beirut». Eppure, appunto, è una città “democristiana” (su questo tasto insiste per ovvie ragioni l’Unità) che con la violenza sembra aver imparato a convivere e i cui governanti (dentro e fuori l’università) ben poco fanno per contrastarla. Una città indolente insomma i cui cittadini sono in ostaggio ma non se ne preoccupano poi troppo. Per questo il processo al 7 aprile è il processo ai “suoi” anni di piombo. Padova ha il “suo” terrorismo, una violenza diversa da quella del resto d’Italia. L’Autonomia esiste anche altrove ma di “notti dei fuochi” se ne verificano solo qui. La spiegazione di qualche sociologo è che questo nuovo tipo di terrorismo rappresenti la risposta del partito armato alla fabbrica diffusa, alla polverizzazione del sistema produttivo. Un sistema di lotta che si è adattato, molto darwinianamente , a un ambiente molto differente da quello del triangolo industriale Milano-Torino-Genova.
Padova è quindi al tempo stesso vittima e colpevole: il suo è un male “interno”, che viene dal di dentro (in particolare dall’università) ma che da sola non è capace di estirpare, sia perché manca la volontà sia perché mancano i mezzi.
Dopo l’operazione 7 aprile, Padova, che il giorno dopo, secondo Calogero, era una città svelenita, mostra un’indifferenza costante. E questo nonostante il fatto che i quotidiani attendano e quasi invochino una reazione da parte del mondo autonomo. E dire che le persone coinvolte nell’operazione, sia le guardie, sia i ladri, sono perlopiù padovane. Un’indifferenza e un’indolenza che appunto durano negli anni, attraversano processi (mai seguiti dal pubblico) e clamorose rivelazioni. Di anno in anno crescono le rievocazioni. Rimane il ricordo cristallizzato della violenza, di una città “stregata” capace di trasformarsi da centro terziario del ricco Nord est in motore dell’eversione nazionale, dove il passato rischia di riemergere all’improvviso.
«Sono passati sette anni da quel 7 aprile 1979 quando la magistratura mise le manette ai capi e ai capetti dell’Autonomia operaia organizzata, in odor di terrorismo — scrive Antonio Ferrari sul Corriere nel 1986 – Padova allora era l’anticamera dell’inferno. Violenze quotidiane, lezioni interrotte, intimidazioni, minacce, le notti dei fuochi con decine di attacchi simultanei; nel centro della città e in provincia, professori sprangati, professori, giornalisti e dirigenti d’azienda azzoppati, professori immobilizzati e dipinti di rosso. Sono passati sette anni ed è come se non fosse successo niente: qualche anno di galera ai gregari e ai manovali, assoluzioni generose per capi e capetti più o meno togati».

Non si vogliono sminuire le violenze accadute, le sofferenze, i docenti vittime di barbari agguati, la tensione vissuta in una città piccola e nel passato relativamente tranquilla. Ma si vuole sottolineare il peso che espressioni come “Beirut” e “anticamera dell’inferno”, hanno sicuramente svolto nel determinare il procedimento del racconto della vicenda presa in esame

4. Per una definizione dell’operazione 7 aprile

Fin dai primi giorni la vicenda assume una sua “definizione” ben chiara. Negli anni, come vedremo, essa si modificherà, ma essenzialmente, almeno per i primi due anni, rimarrà immutata. E’ importante tentare di delineare quale sia questa immagine. Essa si impone oltre che per le sue caratteristiche oggettive anche per l’immagine che i giornali riescono ad imporre. Ci sono alcuni fatti (lo spiegamento di forze, la diffusione sul territorio nazionale, la segretezza) che la caratterizzano come una delle più grandi operazioni antiterroristiche mai condotte in Italia. Al di là poi degli esiti processuali, questa dimensione sulla grande stampa popolare rimarrà sostanzialmente immutata.
Ritengo che alla costruzione di questa sorta di “definizione” dell’operazione abbiano contribuito in modo determinante i primissimi giorni di narrazione, con lo Stato che, finalmente, a un anno dal sequestro Moro, dà la sensazione di muoversi veramente su un terreno concreto per contrastare il fenomeno terroristico. Senza aver bisogno di troppe conferme, giornali come il Corriere della Sera, schierano sul campo grandi firme, tutte a sostegno dell’inchiesta. Da Leo Valiani a Luigi Barzini, firma storica di via Solferino. In un fondo, a tre colonne, pubblicato il 10 aprile del 1979, intitolato “Gli arrampicatori della rivoluzione”, Barzini scrive:

Che Toni Negri, Franco Piperno, Oreste Scalzone, e qualche altro degli arrestati o ricercati di questi giorni fossero effettivamente generali comandanti del variegato esercito di terroristi rivoluzionari della sinistra e responsabili delle decine di morti e feriti nonché delle molte rovine di cui è stata seminata da essi l’Italia è cosa da provarsi giuridicamente. […] Vi è da pensare tuttavia che la ponderosa macchina della giustizia non si sarebbe messa in moto se i magistrati non avessero in mano qualche prova consistente e seria. Ciò che è certamente dimostrabile fin d’ora, sfogliando le collezioni di periodici specializzati, pubblicazioni a ciclostile, proclami e volantini, è che quei personaggi erano senza alcun dubbio i “guru”, i grandi capi spirituali, e le guide ideologiche degli autonomi, BR, NAP, Combattenti per il comunismo e molti altri oscuri gruppi simili. Questi non sarebbero nulla più che un disordinato e confuso polverone di dinamitardi, contrabbandieri, rapinatori, falsari, sicari, ladri, sequestratori di persona, senza un disegno, senza una strategia uniforme, se i loro maestri non avessero rigorosamente preparato il terreno con i loro discorsi, studi, tesi pseudofilosofiche, i loro libri, le loro diagnosi sui mali della società e le indicazioni precise sulla strategia da seguire, così precise talvolta da costituire ordini di operazione.
Toni Negri è certamente il personaggio più interessante. E’ (come del resto anche Piperno ed altri) un uomo dalla intelligenza eccezionale, che in un altro paese o in Italia in altri tempo magari meno calamitosi e agitati, avrebbe rapidamente percorso una carriera accademica eccezionale, frenata solo dal sospetto che egli potesse essere un esaltato maniaco da tenere d’occhio. […] Negri parla di preferenza a pochi interlocutori, con un forte accento veneto, seguendo con intensità lo svolgimento logico dei suoi ragionamenti. Parla a se stesso, al Dio degli atei, assorto e invasato come un profeta.
Ciò che dice (come ciò che sta scritto sui volantini delle BR, che, se non sono dettati personalmente da lui, sono certamente ispirati dalle sue dottrine, copiati dai suoi testi, o da note prese durante qualche colloquio con lui) non tiene affatto conto della realtà del mondo contemporaneo. Non lo riguarda. La sua ignoranza o dimenticanza di come le cose funzionino realmente è indiscussa. […] La “città del sole” di Negri è un’utopia vaga, non ancora chiaramente definita, una società organizzatissima e tecnicamente molto avanzata in cui tutti lavorano due sole ore al giorno e se la spassano il resto della giornata. Ma il futuro non gli interessa quanto il compito presente, che è quello di spazzar via ciò che esiste.
Egli è un uomo magro, quasi ascetico, con un naso prominente. Parla bene diverse lingue, soprattutto il tedesco. Abita spesso a Milano, in via Boccaccio, dove è stato arrestato, ma ha abitazioni pronte ad accoglierlo a Parigi (dove ha insegnato), a Venezia e a Padova. Non gli mancano i soldi.
[…] E’ chiaro che non è possibile a questo punto dedurre nulla di preciso dai precedenti culturali e dalla personalità dei protagonisti. Sono uomini di valore, pensatori astratti, ma acuti, che ambiscono (cosa assai naturale) più che di mutare il mondo, di ascendere a posizioni di comando, di diventare marescialli di un nuovo impero. Per certi aspetti somigliano agli arricchiti della politica che essi vogliono distruggere più che ad apostoli della povera gente.
[…] I capi non si occupano, per quanto si sappia, direttamente di organizzare colpi di mano. Si affidano ai loro gregari. Si dice, tra i bene informati, che i capi si limitarono a correggere e a rivedere i programmi delle BR al tempo del rapimento Moro, ma che si disinteressassero della faccenda quando i gregari decisero di uccidere il presidente della Dc contro la volontà dei loro maestri. Da questo si deduce che il robot inventato, costruito, e animato dagli alchimisti intellettuali ha cominciato a vivere di vita propria, che fa realmente le cose che fino a pochi anni fa erano vaneggiamenti di sognatori, e che essi non possono più fermarlo, né imporgli una condotta razionale ed intelligente.

Anche questo editoriale, quasi come l’intervista di Salvalaggio a Calogero, potrebbe funzionare da paradigma. Barzini inizia l’articolo (questo è un “omaggio” garantista che faranno molti editorialisti) dicendo che non sa se Negri sia o no colpevole di quello che gli inquirenti gli attribuiscono. Una cosa è però certa: in un modo o nell’altro, Negri e gli altri, sono comunque colpevoli. Anche perché, crede Barzini, è impossibile pensare che il terrorismo italiano viva in questa confusione di gruppi e gruppuscoli eversivi. Insomma qualcuno tira i fili dell’eversione.
Non è un’affermazione da poco. Sostenere questa tesi vuol dire gettare le premesse per promuovere la credibilità sociale del teorema Calogero. Sui quotidiani l’affermazione dell’unificazione dei terrorismi di sinistra si basa su un affastellamento di date e coincidenze che sembrano dimostrare inequivocabilmente che tutto ha un senso e, per fortuna dicono i giornalisti, ora un magistrato ha trovato la giusta chiave di lettura del fenomeno.
Quindi, si è visto nel capitolo terzo, il blitz del 7 aprile è innanzitutto un’operazione antiterrorismo. Un’operazione preparata con cura che arriva dopo un silenzioso lavoro durato più di un anno. Inquirenti e polizia, prima raccolgono il plauso dei quotidiani, poi arrivano loro stessi a dare una definizione del proprio operato che peserà a lungo sull’interpretazione della vicenda. Aldo Fais, procuratore capo a Padova, viene intervistato da Antonio Ferrari del Corriere della Sera nei primissimi giorni dell’operazione. Il procuratore lascia intendere che quella appena conclusasi sia solo la prima fase di un’operazione che avvicina «una soluzione definitiva di un problema sociale enorme qual è il terrorismo».

…Il colloquio (ci sono elogi per tutti: per il PM, per gli uomini della DIGOS, per i carabinieri) si conclude con un appello. Una richiesta di collaborazione “alla stampa, ai partiti democratici, all’area democratica, ai sindacati, alle associazioni, all’opinione pubblica perché ci aiutino a portare a compimento la nostra operazione contro il terrorismo e a far tornare la pace”. Il congedo in due parole: “Siateci vicini!”…

Questo è, a mio parere, uno dei punti più delicati dell’intera vicenda. “Siateci vicini!” ? Le parole del Procuratore sono una vera e propria chiamata alle armi. Lasciano intendere che qualcuno o qualcosa nelle ore immediatamente successive potrebbe compiere azioni clamorose per vanificare i risultati dell’operazione. A chi è rivolto quest’appello? In prima battuta alla stampa, ma poi anche alle forze politiche, all’area democratica (qualsiasi cosa voglia dire), ai sindacati, alle associazioni, all’opinione pubblica. Cosa rimane fuori? Direi solo i terroristi. Quindi, chi non sarà vicino alla magistratura, chi non appoggerà l’operazione del “7 aprile”, chi può essere se non un terrorista o un suo fiancheggiatore?
La situazione, se ne deduce, è simile a una guerra civile: l’appello alla mobilitazione (cos’altro può essere quel «siateci vicini»?) riferito a tutte le componenti della società per «far tornare la pace», ne è una spia. Quindi, c’è una guerra.
Importante, ai fini dell’analisi dei quotidiani, è soprattutto l’appello alla stampa. E’ un processo tipico dei conflitti: l’unione della struttura sociale, la definizione del gruppo, avviene per contrasto, in base alla definizione del nemico. Se questo è il “terrorismo”, l’antiterrorismo si deve identificare con l’operazione 7 aprile. Può un quotidiano di massa rimanerne fuori?
Forse no, anche se qualcuno, magari, potrebbe commentare, obbiettare, ribadire che sì, si tratta di un’operazione importante ma che, forse, le parole del Procuratore sono inopportune, sembrano chiedere alla stampa una cosa che essa non dovrebbe mai dare: un assegno in bianco alla magistratura.
Ma in fondo siamo di fronte ancora solo alle parole di un Procuratore Capo. Fais è anche un personaggio particolare, sanguigno, che si distinguerà ancora in futuro per le sue dichiarazioni quantomeno singolari. La situazione non è ancora cristallizzata.
Passa un solo giorno e il Presidente della Repubblica in persona risponde all’appello di Aldo Fais con un telegramma:

Facendo seguito alla mia telefonata, riconfermo piena solidarietà a Lei et ai magistrati di Padova per la fermezza e il coraggio con cui stanno agendo in difesa delle nostre istituzioni democratiche. Sandro Pertini

I magistrati di Padova sono coraggiosi, fermi, e a loro tutto il Paese deve essere grato perché stanno difendendo, con l’inchiesta, le istituzioni democratiche. Firmato Sandro Pertini. Il telegramma non ha bisogno di commenti. Si spiega solo con un abbaglio collettivo, con l’idea che veramente la magistratura abbia messo le mani sui responsabili del più grave delitto politico dell’Europa post-bellica, ovvero il delitto Moro. Ma l’effetto, per quel poco che rimaneva (c’è comunque da dubitare) di senso critico, è devastante. Lo stesso telegramma, a freddo, sembra tutto tranne che “opportuno”.
Eppure della singolarità del fatto sembra accorgersi solamente Luigi Pintor sul Manifesto del 12 aprile 1979:

Inutile definire la gravità della telefonata e del telegramma di Pertini al procuratore Fais, che già aveva sportivamente invocato la solidarietà della stampa, come fossimo a un match. […] Da quando in qua i magistrati vanno incoraggiati ed elogiati nel corso di un procedimento giudiziario, fosse anche il più limpido?

Anche Enzo Biagi (sulla sua rubrica “Strettamente personale” sul Corriere del 19 aprile) sul fatto ha, con toni pur garbati, qualcosa da ridire: « Avrei preferito che il suo consenso ai magistrati di Padova lo avesse espresso dopo. E magari a voce». Il problema è che Pertini ha fatto l’uno e l’altro. Prima ha telefonato e poi, con un telegramma, ha voluto rendere pubblico il proprio appoggio.

Le persone arrestate, si continua a dire con uno specioso e ipocrita pro forma, forse sono colpevoli, forse no. Comunque per il Giornale, che parla di clamoroso successo, «non sono teneri agnelli». Anzi, «in un certo senso, i brigatisti fanno figura di moderati perché si accontentano, almeno per ora, di azioni individuali». Non sono teneri agnelli, quindi bestie, peggio dei brigatisti. Ancora una volta: tutti “comunque colpevoli”.
L’operazione sembra oscillare tra questi due estremi: come minimo ha messo fine a un centro ideologico che, con i soldi e le strutture dello Stato, seminava le parole d’ordine dell’eversione in tutta Italia, al massimo ha sgominato un “lucidissimo disegno eversivo” (Unità del 18 aprile). I giornali, in questa fase, propendono ovviamente per la seconda ipotesi.
L’operazione raccontata dai quotidiani ha quasi valore di “frattura storica” poiché rischia di riscrivere letteralmente la storia di tutta l’eversione di sinistra in Italia, squarciando un velo di menzogne, falsità, e forse anche protezioni.
Come scrive l’Unità del 18 aprile 1979: «Quello che avvenne verso la fine del 1973 fu uno scioglimento fittizio di Potere operaio, che invece si divise in due filoni — BR e Autonomia, sostenitori dell’insurrezione immediata e propugnatori della guerriglia di massa — solo apparentemente scollegati, ma in realtà legati da mille fili e coordinati in un solo disegno da un unico vertice cui apparteneva Antonio Negri assieme ad altri degli attuali arrestati». Si parla di una «complessa opera di mimetizzazione e di distribuzione delle parti nel gioco eversivo». Fin qui i giornalisti, si potrebbe dire, in effetti si limitano a raccontare come è loro dovere, il teorema Calogero, un’ipotesi accusatoria elaborata dalla magistratura. Quindi se si fermassero qui, magari mettendoci in mezzo qualche condizionale, qualche formula dubitativa, sarebbe già un successo. Ma siccome (è il ragionamento) la magistratura evidentemente dice solo quello che si fonda su prove certe, allora i quotidiani (che sulle prove hanno parametri un po’ più laschi) dicono il resto. Come l’Unità, che azzarda ipotesi anche più ardite: «Fu in quei mesi, aggiungiamo, che si formarono anche i NAP, sui quali possiamo aggiungere alcune notizie inquietanti. Secondo la requisitoria dei pubblici ministeri napoletani Volpe e Di Pietro al processo contro il nucleo storico dei NAP (primavera ’76) questa organizzazione ebbe origine — attenzione alle date — “dalla scissione dell’ala radicale di Lotta continua avvenuta ufficialmente nel dicembre del 1973, e nella formazione di gruppi autonomi (la cosiddetta area dell’Autonomia operaia e proletaria) alcuni dei quali vennero organizzando per la lotta armata”. Si ripete proprio negli stessi mesi la storia delle Brigate Rosse e Autonomia». Non solo, perché a congiurare e dar forza alle ipotesi dell’Unità ci sono anche altre coincidenze, come il fatto che nel marzo del ’74 una riunione dei NAP si sia tenuta all’albergo “Corona Ferrea” di Rovigo, «a due passi da Padova». «Parallelismi che possono essere molto significativi: come mai la riunione dei NAP, la prima e più importante, si tenne nei pressi della città veneta? Vi fu decisa la strategia dell’organizzazione?». Per non parlare, come abbiamo visto nel terzo capitolo, delle fantaipotesi che collegano immediatamente Negri alla morte del magistrato Emilio Alessandrini.
Come si può notare insomma il “teorema” non rimane nel suo alveo naturale, quello impostato dalla magistratura, già di per sé abbastanza “totalizzante” e omnicomprensivo. Tende a espandersi a macchia d’olio, ingoiando come un vortice tutto ciò che lo sfiora, tutto ciò che la vicinanza cronologica e le assonanze lessicali possono far credere sia collegato. E la definizione del 7 aprile, deus ex machina dell’antiterrorismo, principio esplicativo di tutto ciò che non è ancora stato spiegato, si amplia sempre più. Tanto che nei primi giorni l’atmosfera è elettrizzante: si registra un sentimento di attesa, diffuso, che qualcosa di nuovo, “qualcosa di grosso”, debba sempre accadere.
Siamo di fronte alla più grande operazione dell’antiterrorismo. Se tutte le accuse fossero confermate la magistratura avrebbe portato dietro le sbarre i vertici del terrorismo italiano, i responsabili del delitto più clamoroso della storia repubblicana. Eppure, come si legge sul Corriere, «In questa tormentata vigilia di Pasqua, l’inchiesta è a una svolta. Se ne avvertono i sintomi, mancano le conferme.[…] Da un momento all’altro si attendono clamorosi sviluppi […] Ed è logico supporre che si stia aspettando qualcosa (ma che cosa?) per procedere agli altri arresti». Una frenesia sembra essersi impossessata dei mass media che sentono imminenti nell’aria (o forse chiedono, reclamano) altri avvenimenti clamorosi, arresti, rivelazioni, spettacolo. Se sono state arrestate le menti del sequestro Moro, allora ora si scopriranno le coperture, tutta la rete potrà essere sgominata in poco tempo.
Questo è il 7 aprile del 1979 sui quotidiani esaminati (a parte il Manifesto ovviamente che serve da contrappunto). Con il passare dei mesi, con i mancati nuovi arresti, l’atmosfera si smorza forse, ma la narrazione è stata in qualche modo “modellata” e procede lungo binari prestabiliti. Non si può spiegare altrimenti la scarsa attenzione che ricevono i dati che contrastano con il quadro (le scarcerazioni), e quella enorme che ricevono fatti al limite dell’incredibile (come la sparatoria di Piperno).
In una impostazione simile quindi, il blitz del 21 dicembre ha funzionato come rafforzativo. Si parla per la prima volta di delitti concreti, è vero, però basterebbe leggere le date (tutte dal ’71 al ’75) per dubitare che si sia veramente messo mano al gotha del terrorismo italiano. Se ne può certamente dedurre che, se le accuse verranno confermate, chi è in carcere si è reso responsabile di gravi crimini. Ma non si può dire che questo confermi in toto il quadro del 7 aprile. Con il particolare, al limite del ridicolo, che per mesi quotidiani come l’Unità e Repubblica hanno ribattuto duramente a chi chiedeva “le prove” e che ora, al 21 dicembre, dicono: “Visto che le prove ci sono!”. E prima?
Per dare una coerenza a una narrazione, in fondo a un’idea e a un teorema, è indubbio che alcuni quotidiani abbiano letteralmente perso la propria. Ma evidentemente il momento storico non è dei migliori per permettere un ragionamento sereno.
Per Leo Valiani, il 22 dicembre sul Corriere della Sera, gli arresti disposti dalla magistratura sono «coraggiosi». Cosa vuol dire che un arresto è coraggioso? Sicuramente, come ricorda Valiani, il magistrato che lotta contro il terrorismo rischia di diventare bersaglio per le persone che colpisce con i propri provvedimenti. Sicuramente sono coraggiosi nel senso che chi li dispone in qualche modo si espone. Ma, tenendo conto anche dell’obbligatorietà dell’azione penale sancita dalla nostra Costituzione, la definizione di coraggiosi data agli arresti in qualche modo sembra rinforzare il provvedimento. Gli conferisce cioè una qualità in più. Probabilmente è un arresto più meditato (appunto perché esposto a ritorsioni), forse un arresto più spettacolare. Certo è che il coraggio, che è inizialmente e logicamente dei magistrati, linguisticamente si trasmette, per una sorta di proprietà transitiva, ai provvedimenti e conferisce loro una quantità di credibilità in più.

L’evoluzione della definizione

Gli anni passano, e come abbiamo visto gli elementi principali vengono a mancare. Gli arrestati non sono più i responsabili del sequestro Moro, non sono nemmeno brigatisti, alla fine alcuni, per la magistratura, non sono nemmeno terroristi e hanno scontato in carcere anni che non dovevano affatto scontare. Cosa rimane quindi del 7 aprile? Può sorprendere, o forse no, ma l’operazione non viene affatto screditata dai magri successi processuali. Dell’operazione 7 aprile si enuncerà sempre il suo carattere rivelatore, la si presenterà sempre come una delle operazioni che hanno inferto un colpo mortale al terrorismo italiano. «La vicenda giudiziaria che comincia con gli arresti del 7 aprile — scrive Giancarlo Pertegato sul Corriere del 15 gennaio 1980 – ha aperto uno squarcio»
Negli anni precedenti le sentenze, bisogna attribuire un certo ruolo anche alle auto-definizioni che la magistratura nelle sue diverse sedi (requisitorie, ordinanze di rinvio a giudizio, tutti documenti che sono oggetto di articoli e attenzione da parte dei media) dà dell’operazione. Scrive ad esempio Ciampani (ripreso da Repubblica il 25 gennaio 1981): «certo è che Autonomia operaia ha continuato nella sua attività penalmente rilevante sino a che l’iniziativa dell’autorità giudiziaria (cioè del PM di Padova Pietro Calogero, ndr) a partire dal 7 aprile 1979 le ha per quel che si conosce, imposto un colpo mortale, privandola della classe direzionale».
Importanti in questo senso anche gli anniversari, occasioni di bilanci e ricostruzioni. Ricorda ad esempio Antonio Ferrari sul Corriere dell’8 aprile 1981:

Da un volume cento si è passati ad un volume uno (nelle violenze). Vuol dire che il sostituto procuratore della Repubblica Pietro Calogero non aveva sbagliato due anni fa, mettendo in galera i grandi capi dell’Autonomia operaia organizzata: Toni Negri, Oreste Scalzone, Luciano Ferrari Bravo, Emilio Vesce, gli altri. Una fetta della facoltà di scienze politiche in prigione. E dopo la cattura, la fine — o quasi — degli atti di violenza. “E’ la realtà” dicono perfino i superscettici, quelli che fino nel ’79 gridavano istericamente contro il processo alle idee e alle opinioni. […] Il processo chiarirà i dubbi, probabilmente placherà le polemiche. Bisogna però dire che non ci sono più gli attacchi furibondi all’istruttoria, non ci sono più le illazioni gratuite.

Oppure, lo stesso Ferrari all’apertura del dibattimento nel 1983: «Il 7 aprile ’79 si abbatté su Padova come una potente frustata. Finiva il limbo di impunità che molti avevano accettato, troppi avevano tollerato e pochi avevano avuto il coraggio di denunciare».
Bisogna dire che, con la fine della vicenda giudiziaria, quindi dal 1987 in avanti, le ricostruzioni giornalistiche della vicenda 7 aprile si riempiono di errori. Le date vengono confuse (anche di anno in anno) e così anche i provvedimenti. Il fatto è abbastanza spiegabile con una veloce lettura delle firme degli articoli. Succede in pratica che oramai questi articoli, estemporanei, vengano affidati a giornalisti che evidentemente non hanno seguito la vicenda, e che si basano sul materiale d’archivio dei quotidiani. Che è a volte un cattivo materiale con numerosi buchi, imprecisioni ed omissioni.
Come hanno influito gli esiti processuali sulla definizione dell’operazione 7 aprile? Sicuramente la attenuano ma non la stravolgono, come verrebbe da pensare. Il ragionamento è grosso modo questo: “forse l’operazione 7 aprile in sé non era giustificata, alcuni degli imputati erano innocenti, però tutto questo viene in qualche modo giustificato dai risultati che sono quelli di aver sgominato una volta per tutte il terrorismo italiano”. La frase spesso utilizzata dai quotidiani, è quella di aver tolto l’acqua in cui nuotava il pesce del terrorismo.
Anche Antonio Ferrari, inviato speciale del Corriere della Sera, guardando con occhio freddo alla vicenda, sostiene questa tesi: «Alla fine il processo 7 aprile non è stato un successo giudiziario ma dal punto di vista politico è stato un importante passo avanti. […] Forse l’indagine aveva alzato troppo il tiro. Aveva creduto di far quadrare un cerchio che era frutto dell’intuito e dello studio di parte della magistratura. Alzando troppo il livello si è rischiato di compromettere poi quelli che erano i risultati. Sta di fatto che il 7 aprile ha portato al chiarimento di quello che era il rapporto tra le Brigate Rosse e l’Autonomia e ha svuotato di significato, o comunque ridotto, quello che era l’impatto dell’Autonomia in questo ciclo di microviolenze che aveva stravolto la vista di intere città come ad esempio Padova».
Più radicale Michele Sartori che del 7 aprile dà ancora oggi un’interpretazione forte: «L’inchiesta 7 aprile per primo ha stroncato il terrorismo. Di fatto. Secondo, ha rappresentato qui a Padova un nuovo modo di condurre inchieste che poi è stato adottato anche per le inchieste di mafia: partire dall’alto invece che partire dal basso, non cercando di risalire faticosissimamente dal basso». Anche Giovanni Palombarini ammette che «certo nell’immaginario collettivo, di gran parte della stampa e dei commentatori, il 7 aprile è stato un colpo importantissimo in questa battaglia (quella contro il terrorismo)».

Quanto detto vale fino alla fine degli anni Ottanta. Dando uno sguardo ai quotidiani degli anni Novanta, forse, verrebbe da concludere che dell’operazione 7 aprile non è rimasto assolutamente nulla. Nessuno, se non i giornali padovani, cui va riconosciuta la capacità di ricostruire la vicenda nella loro complessità e contradditorietà, ne parla più. E’ rimasta una data nella biografia di Toni Negri, o nella cronistoria del terrorismo italiano. E dire che si tratta, oggettivamente, di uno dei fatti più clamorosi di quel periodo. Si parla sicuramente molto di più di fatti meno importanti.
Interessante, ma non è un risultato che potesse essere acquisito con questo mio lavoro, sarebbe stato vedere cosa è rimasto dopo questa “rimozione” della storia da parte dei quotidiani, e cosa rimane invece nel ricordo degli italiani, quale “definizione” di quell’evento sia loro rimasta in mente.

5. Il castello assediato

Veniamo ora ad esaminare i singoli elementi che compongono questa narrazione. Personaggi e luoghi che caratterizzano l’inchiesta attraverso le pagine dei quotidiani. Come si è visto, il lettore si è trovato di fronte a un avvenimento “epocale”. Abbiamo anche visto che dalle pagine dei quotidiani si attendono due cose: da una parte “nuovi clamorosi sviluppi” e dall’altra parte una “reazione” da parte del mondo dell’Autonomia che si suppone colpito a morte. Ad alimentare questo timore ha contribuito l’esplosione che a Thiene, a pochissimi giorni dal blitz, ha ucciso tre giovani autonomi che stavano confezionando un ordigno. A Padova, pur non essendo successo ancora nulla (anzi il mondo dell’Autonomia presenta vistosi segni di sbandamento), la stampa teme imminenti violenze. A rivelarcelo sono anche le domande che i giornalisti pongono ai protagonisti dell’inchiesta. Così sul Corriere della Sera il 17 aprile Ferrari chiede al procuratore Calogero: «Ha avuto paura, qualche volta in questi giorni?». «No, ho avuto troppo da fare», risponde il procuratore. «Ma è pallido, nervoso, ha dormito quattro ore per notte negli ultimi giorni (due volte su una brandina della Questura), ma riesce a sorridere. E’ uscito dal bunker…».
Un primo elemento: il bunker. Se Calogero è costretto a dormire solo quattro ore a notte, su una brandina (nemmeno un letto), in una Questura che è stata trasformata in un vero e proprio bunker, pensa il lettore, allora la situazione deve essere seria. L’immagine è quella di un’inchiesta “sotto assedio”, in continuo pericolo di reazione. La Questura è come un’isola all’interno di una città in parte ostile. L’Autonomia si muove, come un pesce, nel corpo sociale della città, e uscire può essere (ed effettivamente lo è) pericoloso. L’idea è quella di un castello assediato. Per tutto il 1979 circolano continue rivelazioni di attentati in corso di preparazione contro il Pubblico Ministero Calogero, di manifestazioni, di trame che si stanno elaborando non si sa dove né quando. Per fare un esempio sul Corriere d’Informazione del 26 aprile un’intera pagina viene dedicata a un riassunto dei risultati ottenuti finora dall’inchiesta. Una fonte padovana definita molto vicina al magistrato rivela che l’operazione 7 aprile è stata anticipata (e forse gli arresti, come accenna il titolo, sono stati eseguiti troppo presto bruciando alcune piste) perché «era stato scoperto un piano per una serie di attentati di grandi proporzioni. Tra cui un attentato allo stesso magistrato». Questo per ribadire come tutta la prima fase dell’inchiesta sia segnata da minacce imminenti che mettono in pericolo la vita delle persone.
E la “sfuggevolezza”, questa “inafferrabilità” del mondo dell’Autonomia, che può avere sì il suo centro a Scienze politiche, ma muoversi ovunque, costringe al contrario gli inquirenti a “localizzarsi” in modo molto netto, ad avere quindi un centro di comando facilmente difendibile. E quando ne debbano uscire ovviamente a dotarsi di tutte le precauzioni possibili (scorte, segretezza di destinazione, eccetera).
Il “castello assediato” è quindi in prima battuta Pietro Calogero, in seconda l’intera inchiesta. Nelle cronache dei giornali dei primi giorni il luogo concreto che diventa simbolo di questa condizione è la Procura di Padova.
Isolata ma non del tutto. Non tutta la città le è ostile. La soglia del castello assediato in cui è asserragliato il temerario magistrato, pur circondato dall’indifferenza di una città troppo democristiana, viene comunque varcata da cittadini coraggiosi che sono disposti a squarciare il velo di silenzio e a raccontare tutto ciò che sanno. «Tutti i testi si sono presentati spontaneamente: questo afflusso è ancora in evoluzione? E non hanno paura? “Certo ma sono cittadini con la spina dorsale”» (Corriere della Sera, intervista a Fais). Cittadini insomma, capaci di resistere e non farsi impaurire dalle intimidazioni e dalle minacce degli autonomi. Magari con la tessera del PCI in tasca…
Il 1979, nonostante la violenta manifestazione di dicembre, passa comunque senza una reazione concreta diretta contro gli inquirenti. Ci sono sì le scritte minacciose sui muri, quelle che compaiono sulle case dei testi, i progetti, scoperti, di attentati a Calogero, altri episodi di violenza all’interno dell’università (come l’agguato al professor Angelo Ventura) ma, per fortuna, nulla di più. Se ne dovrebbe dedurre che forse la capacità di reazione del mondo dell’Autonomia padovana (che si segnala per il fatto di non riuscire quasi mai a organizzare una manifestazione unitaria) non è quella che si temeva all’inizio. Invece, pur diluita, questa tensione sui quotidiani rimane viva. A contribuire a questa sorta di paura diffusa anche le precauzioni (eccessive) dello Stato per questo processo. Tanto che per il troncone padovano accanto al carcere Due Palazzi a Padova, in piena campagna, si costruisce anche una nuova aula bunker (più grande di quella del Foro Italico che verrà presidiata da mezzi anfibi ed elicotteri): costa nove miliardi, è protetta da un centinaio di porte blindate, vetri antiproiettili e un sistema di telecamere a circuito chiuso e…ci piove dentro. Sono particolari che nell’economia di un articolo dedicato a un processo inevitabilmente a tratti noioso pesano oltremodo, creando ansie, paure e timori che se forse erano giustificati nel 1979, di certo non lo sono più, in questa misura, nel 1985.

Il castello assediato, si diceva, è metaforicamente tutta l’inchiesta. Dal concreto (la persona di Calogero, la Procura) si passa a qualcosa di più astratto (l’insieme degli atti degli inquirenti, addirittura gli esiti processuali). In che senso l’inchiesta è sotto assedio? Lo è perché continuamente insidiata da voci, polemiche e azioni per contrastarla. Forse ancor più che il tema del pericolo fisico (che si concentra nel ’79) è questo il tema che attraversa maggiormente la vicenda, e che più deve far riflettere sul ruolo della stampa.
Due parole innanzitutto sugli schieramenti in campo: la stampa si può definire tutto sommato compatta al fianco dell’inchiesta (come già era accaduto sul caso Moro al fianco del partito della fermezza). Fanno eccezione è vero alcuni giornali di sinistra, e i giornali locali dimostrano forse una maggior prudenza su alcuni temi. Ma i quotidiani nazionali, almeno fino a metà del 1980, fino insomma alle rivelazioni di Patrizio Peci, sono compattamente schierati al fianco dell’inchiesta. Esaminare il corpo sociale è più difficile: ma dalla lettura dei quotidiani è difficile individuare un fronte anti-inchiesta se non nel mondo dell’Autonomia (e come potrebbe essere altrimenti) e in qualche intellettuale di sinistra. Quindi si può supporre, almeno dai testi presi in esame, che l’inchiesta abbia goduto di un ottimo appoggio. Sicuramente tra la stampa e tra le forze politiche, forse anche di una sorta di sostegno popolare. Lo confermano anche i protagonisti che abbiamo interpellato. Lo stesso Sartori, cronista dell’Unità che ha seguito tutta la vicenda processuale, parla inizialmente di una stampa divisa tra “contro” e a “favore”. Ma poi, quando si tratta di citare quali sarebbero le testate “contro”, a parte Manifesto e Mattino di Padova non può citarne nessun’altra. Non è un problema di memoria. Il fatto è che in effetti la stampa, soprattutto quella nazionale, sul 7 aprile è fortemente compatta a sostegno dell’inchiesta avviata da Calogero.
Dalla lettura dei quotidiani appare invece una realtà completamente differente. Sorprendono e stupiscono i continui riferimenti a oscure manovre messe in atto, anche sulla stampa, per screditare l’inchiesta. Gli interventi in questo senso sono veramente numerosi. Sino ad arrivare ad affermare che se l’inchiesta avesse avuto un appoggio maggiore allora avrebbe conseguito i risultati che aveva prefigurato all’inizio.
Dopo pochi giorni l’inchiesta quindi viene avvolta da un grande “polverone” (l’espressione è tratta da un corsivo dell’Unità). Cosa sarebbe questo polverone? Compare soprattutto sulle pagine di Corriere e Unità: il polverone sono quelle voci, quegli opinionisti e quei giornali che continuerebbero a tentare di screditare l’inchiesta, gettando fango, avanzando dubbi.
Qualche brano:
«Una sapiente orchestrazione di voci, illazioni, ipotesi, invenzioni, insinuazioni, calunnie sta già creando presso una parte dell’opinione pubblica l’effetto sperato: impedire che si cominci finalmente ad intravedere un pezzo concreto del terrorismo concreto che da anni sta insanguinando non solo Padova ma l’Italia». (Unità, 25 aprile 1979, un fondo non firmato “Garantisti o neutrali?”)
«L’inchiesta Calogero è da bruciare? No certamente, ma qualcuno ci prova» (titolo di testa, pagina 3, Repubblica del 26 aprile 1979).
Sull’Unità del 21 aprile 1979 nell’articolo di Michele Sartori, “Padova: altri tre nomi nell’inchiesta. Uno è Balestrini”, l’ultima parte è interamente dedicata al tema “continuano le manovre per screditare gli inquirenti” (così annunciato nel sommario dell’articolo):

…In compenso, le manovre screditanti che abbiamo già descritto nei giorni scorsi continuano a trovare sostenitori nonostante la loro evidente inconsistenza e strumentalità. La “talpa” ad esempio: è stato più volte smentito ufficialmente che si siano verificate fughe di notizie dai tribunali in favore degli arrestati eppure questa falsa voce continua a circolare e a essere accreditata da alcuni quotidiani. Tanto per dare un’idea del clima esistente: anche ieri parecchi inviati hanno assediato il procuratore Fais bombardandolo di richieste: “La talpa, la talpa, la talpa…”. Il magistrato ha chiamato un carabiniere, dicendogli: “Porti subito qui la talpa”. E quello è rientrato poco dopo con un animaletto di peluche che Fais ha ironicamente esibito alla stampa: ormai la beffa pare essere l’unica arma di difesa possibile viste inascoltate le smentite ufficiali.

Ironia certo. Quello dell’Unità è un atteggiamento profondamente in sintonia con gli inquirenti, tanto da sorprendersi che le smentite ufficiali non abbiano valore di verità assoluta. Una cosa abbastanza sorprendente per un giornalista, ancor più dell’Unità, che delle versioni ufficiali è sempre portato a diffidare almeno un po’.
L’editoriale dell’Unità del 22 dicembre ’79 (subito dopo il blitz di Natale) se la prende con i giornali che ora, posti finalmente davanti alle prove inoppugnabili della colpevolezza degli imputati del 7 aprile, si sorprenderebbero della fondatezza delle accuse. «La domanda: “Perché vi stupite?” noi la rivolgiamo non a questa opinione pubblica disorientata bensì ai responsabili della sua manipolazione: organi d’informazione, personaggi politici e intellettuali».
Anche Leo Valiani, sempre il 22 dicembre ’79, batte lo stesso tasto. Il suo editoriale (entusiasta) inizia così: «Dalla scorsa primavera sentiamo il dovere di difendere due magistrati, il procuratore della Repubblica di Padova, Calogero, e il consigliere di istruzione di Roma, Gallucci, dalle calunnie che si sono attirati col coraggio e la lucidità di cui hanno dato prova, individuando e colpendo un paio di santuari dell’eversione». A parte il fatto che sembra curioso che il ruolo della stampa sia quello di difendere i magistrati, qualcuno dovrebbe spiegare dove sono queste calunnie e queste offese.
Antonio Ferrari sul Corriere del 25 gennaio 1981 (in occasione della requisitoria Ciampani) parla di «una polemica alimentata anche da un’insistente campagna denigratoria orchestrata contro Calogero».
Gli anni passano, l’inchiesta è andata avanti ma, ricordando quei giorni, ci si ricorda anche del grande fronte anti-inchiesta. Come il Gazzettino che, a tre anni dal 7 aprile, in prossimità del dibattimento, dedica un numero speciale di due pagine che inizia con una lunga ricostruzione storica basata esclusivamente su brani tratti dall’ordinanza di rinvio a giudizio del giudice Francesco Amato (per cui, mi sembra, molto parziale). Queste le prime parole dello speciale:

L’accusa è: “criminalizzazione”. Dal 7 aprile 1979 non si sente parlar d’altro. Suonando la grancassa, dando fiato a vecchi tromboni, manovrando fino a farli scoppiare moderni e costosi ciclostili, mobilitando logori arnesi che non negano mai la loro presenza a marce di protesta, approfittando della generosa e passionale voglia di fare di tanti giovani in buona fede, eccoli lì, loro, con il dito puntato. La polizia li trova con armi infilate alla cintola e li arresta. Loro pronti: “ci criminalizzano”.

La mia ipotesi è che si tratti di una sorta di figura retorica. Il pericolo in realtà non è reale: le opinioni che vengono attaccate e bollate come “pericolose” sono in realtà largamente minoritarie sulla stampa. Potrebbe trattarsi piuttosto di una specie di “serrate le fila”, un richiamo all’ordine forse. Ma anche un confine, un modo per limitare il discorso. Se già così le critiche a Calogero (timide, poco riportate sulla stampa e subito rintuzzate) sono considerate “calunnie” infamanti è difficile pensare che qualcuno possa farsi avanti. Una specie di delimitazione forzata dei confini del discorso.
E poi un’altra considerazione. Alla base di questo discorso c’è sostanzialmente un equivoco. I giornali lamentano che Calogero e l’inchiesta sono continuamente sottoposti ad attacchi. L’equivoco deriva dal fatto che mai, nel corso della vicenda, si chiarisce chi sono gli autori di questi attacchi. Non è casuale. Si tratta di voci, di espressioni, dubbi che coinvolgono un’ampia fascia di persone (forse anche una fascia sociale). Sicuramente l’area dell’autonomia. Ma non si possono attribuire a periodici diffusi in poche migliaia di copie come Rosso campagne di stampa. Ma il non indicarlo chiaramente lascia aperto lo spazio all’inserimento ad hoc in questa categoria di singoli “disubbidienti” (garantisti, comunisti non allineati, opinionisti). L’equivoco più grosso riguarda poi la grande carta stampata, quella quotidiana. I riferimenti a una certa stampa che getterebbe fango sull’inchiesta in effetti si sprecano. E letti adesso, sinceramente sorprendono. Il discorso vale essenzialmente per la prima parte della vicenda (prima dei processi insomma). I toni poi si allentano. Non c’è un solo grande quotidiano, non una sola forza dell’arco costituzionale, a parte i radicali, a schierarsi dall’altra parte. Anzi, soprattutto nel 1979, si assiste a un vero e proprio schieramento compatto. Le poche voci discordanti (ospitate su Rinascita oppure nella pagina dei commenti di Repubblica) vengono subito rintuzzate. E allora di quale attacco si parla? E se anche i quotidiani avessero riportato dubbi e opinioni di persone contrarie all’inchiesta (giuristi, politici, foss’anche autonomi) non avrebbero forse svolto semplicemente il proprio dovere informativo?
In questo caso è diverso. Avanzare dubbi, osservare discrepanze, vuol dire gettare fango, chiedere le prove vuol dire reggere il gioco dei terroristi ed esserne fiancheggiatori.

(17-CONTINUA)