Su tutta la costa della riviera maya da Cancun a Playa del Carmen, da Tulum a Chetumal e giù giù fino al Belize, lo sfruttamento del lavoro è all’ordine del giorno e gli stipendi sono depressi dall’enorme afflusso di disoccupati che alimenta le file del precariato e costituisce un gruppo di riservisti sempre pronti a rimpiazzare chiunque a qualunque costo. “Dai tre ai quattromila pesos al mese (circa 200 euro) per turni di 10 ore al giorno, sei giorni a settimana passati qua a la barra”, si lamenta Juan, barista dell’Hotel Oasis di Cancun, “…e poi resta la mujer, la casa e i figli da mantenere”. La triste alternativa c’è e si chiama doppio turno: una quindicina di ore al giorno a fare il cameriere, il guardiano, il barista, il muratore, il facchino, ecc… per arrivare a un salario dignitoso in cambio di una vita privata e sociale ridotta a zero.
Quasi tutti arrivano dalle regioni meridionali del Messico, come Tabasco, il Chiapas, Oaxaca, Puebla, la capitale o Veracruz, in cerca di migliori condizioni di vita e poi, quando hanno trovato un lavoro più o meno stabile (per quanto il termine possa ancora avere un significato visti i tipi di contratto flessibile in boga), richiamano le loro famiglie per costruire la Cancun del boom demografico (siamo quasi a quota 800mila abitanti accumulati in vent’anni), dei grandi alberghi e delle megadiscoteche da 40 euro a sera, per chi può permettersele. Lungo gli oltre 20km della costera degli hotel, nella cosiddetta zona hotelera, la battigia s’è di fatto trasformata da bene pubblico federale a bene privato, visto che le strutture fisiche degli hotel e la sorveglianza scoraggiano o rendono impraticabile il passaggio al mare e alla spiaggia pubblica.
Anche all’osservatore disinteressato non sfugge, come mi dissero un paio di amici che hanno visitato da turisti queste zone, il fatto che quasi tutti gli impiegati del bar e dei ristoranti, così come gli ambulanti che hanno il permesso di entrare verso sera a vendere prodotti artigianali negli hotel, abbiano un’apparenza stereotipata e tipica, quasi vi fosse una selezione naturale del messicano sornione, piccolino, sempre allegro e scuretto per alcune mansioni di front office o servizio al cliente. Il visitatore europeo o nordamericano viene così immerso completamente nel folclore e nella messicanità autentica proprio come s’aspettava anche se, in realtà, non esce dalle mura della mastodontica casa d’accoglienza che ha deciso di affittare per le sue vacanze nel mondo maya. Invito a verificare.
Un po’ più a sud, Ana, ventunenne guatemalteca, senza vestiti tipici indosso, è da quattro anni a Belize City per lavorare in un ristorante-bar ed ha appena perso il marito in un incidente, ergo, non può e non vuole più uscire di casa, perché passerebbe da svergognata agli occhi di alcuni, come dice la sua datrice di lavoro. D’altronde la città non invoglia, con le sue strade di polvere e traffico, con le sue quotidiane sparatorie e le orde di disoccupati che gozzovigliano per il centro in cerca di “elemosine forzate” e lavoratori in frettoloso rientro. In questa specie di Harlem ottocentesco, Ana forgia il suo presente e reinventa il suo passato raccontandolo malinconicamente agli avventori, tra il lavoro al bar e i B-movie americani trasmessi in televisione nelle ore di bassa del locale. La sera, sfama e disseta con alcune oneste bottiglie di Belikin, la birra orgogliosamente nazionale, i gruppi di lavoratori, per lo più di origine honduregna, guatemalteca e salvadoregna, che migrano alla ricerca di qualche impiego stagionale nelle strutture turistiche o nell’edilizia. Di solito si tratta dei giovani figli delle guerre civili centroamericane, magistralmente rappresentati dal regista messicano Luis Mandoki nella pellicola Voces inocentes, i cui genitori trovarono rifugio in Belize negli anni ottanta e novanta.
Per sei mesi all’anno, l’infrastruttura dei trasporti del paese è sottoposta all’incessante ticchettio delle piogge tropicali che preannunciano uragani di diversa intensità e durata. In genere verso novembre si respira ma si contano i danni. Il turismo, risorsa fondamentale per l’economia, ne risulta gravemente pregiudicato dato che i siti archeologici e le riserve naturali diventano impraticabili e quindi tutti i visitatori si concentrano sulla costa dove, per lo meno, le strade sono percorribili anche se a costo di dover scendere per alcune centinaia di metri dall’autobus e proseguire a piedi per permettergli di attraversare zone impervie o allagate. Sulle spiagge della meravigliosa baia di Placencia, quasi al confine con l’Honduras, i neri e i mulatti, cercatori di fortune turistiche stagionali, attendono servizievoli le ragazze inglesi e le coppie di canadesi per poter offrire loro qualche servigio o qualche scambio: marijuana in cambio di una cena, una “ragazza sola” o anche “three sisters”, come recita un annuncio, tutte insieme in cambio di un pacchetto di dollari, un paio di birre in cambio di semplice compagnia oppure un tour marino personalizzato per accarezzare squaletti e mante in cambio di una cospicua mancia e così via. Chiaramente (quasi) tutte queste attività si possono fare anche ufficialmente, pagando le salate tariffe ai rispettivi operatori di settore.
Amir, un ragazzo di 33 anni nato in Nicaragua ma cresciuto nei riformatori di Los Angeles e poi emigrato in Belize, offre dell’erba che spesso, sostiene, arriva galleggiando in neri sacchetti di plastica dalla sponda nord della baia, gettata o scartata, secondo lui, da alcune imbarcazioni colombiane che fanno manovra in quella parte dei Caraibi. Anche in Nicaragua, la guerra che, nel 1979, ha visto trionfare i sandinisti del giovane guerrigliero e rivoluzionario Daniel Ortega (attualmente il Presidente eletto del paese centroamericano) contro il regime dittatoriale e dinastico dei Somoza nella persona di Anastasio Somoza Debayle, produsse per un paio di decenni il tragico effetto collaterale di migliaia di rifugiati politici sparsi da Panama a New York, persi nelle Americhe senza patria né nome.
Amir mi fa vedere orgogliosamente i documenti di residenza regolare in Belize, ma la sua carta d’identità, quella vera, sono i tatuaggi che porta come bandiera su tutto il torace oltre ad un paio di vistose cicatrici sulla tempia e sulla guancia sinistra che, mi conferma, sono i segni di un’adolescenza passata al riformatorio e tra alcune pandillas latinas (o gang). Subito dopo, passati i vent’anni, finisce in prigione per 48 lunghi mesi e viene espulso dagli Stati Uniti. Dopo un breve approdo in terra natale e una peregrinazione in Guatemala e in Messico, sbarca in Belize dove vive ormai da oltre un lustro.
Cerca amicizia Amir, anche lui adora sapere che succede nel “civilissimo” e moderno Messico, ormai ha chiuso con gli States, vuole parlare spagnolo, la lingua dei suoi genitori morti, e se poi si riesce ad avere un po’ di riso e fagioli (un piatto nutritivo d’origine cubano conosciuto anche come moros con cristianos) al ristorante cinese di Placencia, tanto meglio, visto che è più economico e fa le dosi abbondanti. Andiamoci e good luck — perdón — mucha suerte.
Sempre sulla costa, ma fuori dalle vie del turismo e dei viaggi organizzati, anche Davi parla inglese perfettamente ed è sudamericana. E’ la sua prima lingua e non l’ha appresa negli Stati Uniti perché viene dalla Guayana, un altro territorio dimenticato come il Belize o il Suriname, forse perché spesso queste enclaves, ex colonie o territori, alcuni dei quali sono ancora in mano alle ex grandi potenze (come la Guyana francese, le isole di Guadalupe e Martinica, sconvolte da proteste sociali contro il governo francese di Sarkozy, le Antille olandesi, le Islas Malvinas, rivendicate dall’Argentina, e molte isole dei Caraibi), non si considerano come parti integranti dell’America Latina e posseggono, in effetti, identità ibride e sconosciute ai più.
La ragazza abita in una triste e tranquilla terra di frontiera, nella città di Corozal che, insieme ad Orange Walk, compone la zona nord del Belize, la più ricca del paese per le sue coltivazioni di zucchero, agrumi e banane che, anche quest’anno, sono state gravemente compromesse dalle inondazioni. La città si presenta come un agglomerato di case di legno, molte fatiscenti, e alcune costruzioni comunali di cemento nella parte più centrale. Dopo le sette di sera il buio pesto, il silenzio e le serrande chiuse s’impossessano delle piazze e delle stradine, tutte organizzate intorno a dei blocks abitativi di forma quadrata. Pochi girovaghi e i lavoratori che tornano a casa costruiscono la solitudine cittadina che aleggia tra i resti del mercato e il deserto malecón, il lungomare atlantico privo d’innamorati e di musica così come l’altra via principale, la statale che tira dritto per il Messico a cui mancano solo 12 chilometri. Come al solito il visitatore è avvicinato da qualche vagabondo in cerca di una mancia o di un po’ di “compagnia interessata” a un pasto caldo in uno dei tanti ristoranti cinesi o messicani. A Davi tutto questo non piace ma lo sopporta. E’ dovuta emigrare dalla Guyana a causa della morte del padre, dopo la fuga a New York della madre e della sorella e, più in generale, per le difficoltà economiche del suo paese, una striscia di terra schiacciata tra il Venezuela, il Brasile e il Suriname.
La sua vita scivola tra le casse di un supermercato della periferia e i lavoretti in qualche hotel come guardiana notturna o donna delle pulizie. Il suo grande sogno è poter vedere Chetumal e Cancun, rispettivamente a 20 e a 400 km dalla sua adottiva Corozal dato che, tra un anno, potrà ottenere la residenza permanente e, forse, la nazionalità belizegna che le permetterà di spostarsi lungo il corridoio della riviera maya messicana. Non sono ammessi sgarri né tentazioni ulteriori: non oltre la costa, recitano le norme migratorie messicane. La nostra Davi spera così di conoscere le persone giuste per poter poi lavorare a condizioni “migliori” in quella terra così piena di turisti e dove sicuramente servono il suo talento e, soprattutto, il suo inglese, entrambi ottenuti col duro lavoro e con l’esperienza visto che l’università, dice, “è solo per quei pochi che hanno i soldi e possono perdere tempo, non per noi”. Dopo qualche anno potrà forse ritrovare la madre e la sorella, con cui mantiene i contatti, riemigrando dal Messico a New York per continuare la risalita dall’enclave dimenticato al paradiso decadente.
Qui altre foto dal Belize.