di Francesco Zucconi
Il tragico terremoto che nella notte di lunedì 6 aprile ha colpito l’Abruzzo cade in un momento particolare dell’anno, nella settimana che precede la Pasqua. Si tratta di una coincidenza di per sé insignificante — insignificante e probabilmente inutile, un eufemismo in relazione alla portata catastrofica dell’evento – e tuttavia ampiamente sfruttata dai giornali e dalle televisioni nella costruzione dell’impianto retorico e valoriale attraverso il quale veicolare il racconto testimoniale dei fatti.
È il giorno di Venerdì, il Venerdì Santo nel quale secondo la religione cristiana si consuma la Passione di Gesù Cristo, e i giornali e telegiornali come anche altri approfondimenti televisivi non si lasciano scappare l’occasione per un titolo ad effetto: “L’Aquila: il giorno della Passione”.
Si svolgono i funerali di 205 tra le ancora non completamente accertate vittime del terremoto. Una serie di testimoni racconta dei tragici momenti in cui è avvenuto il crollo delle abitazioni, a circa cinque giorni di distanza, ma soprattutto esibisce il proprio smarrimento, il pianto, la commozione nel ricordo delle vittime. Una signora rilascia una dichiarazione alle telecamere: “forse Dio ci ha puniti perché non siamo mai contenti”; nulla possiamo dire nei confronti delle parole attraverso le quali le persone coinvolte cercano di attenuare la propria disperazione. Inconsapevolmente, in una risposta mediata dal montaggio televisivo, il Vescovo de L’Aquila che celebra i funerali risponde: “Il silenzio, quando viene dall’Alto, non è mai un abbandono”.
Pure i giornalisti riprendono le Sacre Scritture e riassumono, citano a memoria dai tempi lontani del catechismo, interpretano ed esemplificano la portata ottimizzante di alcuni passi: “il dolore ha un valore redentivo” e, ancora, “la morte ci porta all’essenzialità della vita”.
Le telecamere infieriscono sui crocifissi metallici saldati alle bare, mentre il montaggio alterna con le immagini delle alte cariche presenti alla cerimonia: lo Stato, i suoi apparati di gestione e amministrazione del territorio sembrano “appoggiarsi” al Crocifisso.
Nelle trasmissioni della sera si continua a proporre tale analogia e l’articolazione dei piani operata dal montaggio televisivo non fa che esplicitare una relazione, un ponte, tra l’iconografia della Passione e della Crocifissione di Cristo e le forme del racconto della sofferenza adottate in relazione al terremoto abruzzese; come nelle parole di Susan Sontag, “i fotografi-testimoni forse ritengono più corretto dal punto di vista morale rendere lo spettacolare non spettacolare. Ma lo spettacolare è parte integrante delle narrazioni religiose attraverso cui si è dato un senso alla sofferenza per gran parte della storia occidentale. Del resto, percepire la vitalità dell’iconografia cristiana in alcune fotografie che documentano guerre o disastri non è una proiezione sentimentale” (1).
La relazione allegorica stabilita dalla coincidenza del calendario, ripresa dalle voci dei testimoni e nient’affatto ingenuamente sfruttata dai media non può fare altro che invitarci a riflettere sulla dimensione tran-storica, sull’attualità implicita e implicata nei modi del vivere comunitario del dispositivo della Passione e della Crocifissione di Cristo, del sistema di valori che esprime (la solidarietà, la compassione), ma anche del portato politico e ideologico di tale modo di figurazione del dolore e di gestione di un lutto individuale e collettivo.
Mentre i media fanno il loro lavoro “documentando” la cronaca secondo determinate e mai neutrali strategie di costruzione del discorso testimoniale, proseguono i dibattiti e le riflessioni sulla necessità o meno di mostrare i corpi delle vittime dei massacri di guerra o delle sciagure naturali, sull’opportunità di intervistare i superstiti che tramite le posture della disperazione offrono ai media un materiale spettacolare a bassissimo costo e nelle quali lo spettatore cerca di identificarsi, di consolare il proprio senso di colpa, la propria fortuna, la propria estraneità.
Dove si ferma il diritto di cronaca, ma, ancora di più, quali le strategie di scrittura corrispondenti al costante richiamo nel dibattito intellettuale di un’etica della forma?
Riprendendo ancora le parole di Sontag, in quello che rimane un punto di riferimento nella problematizzazione dei rapporti tra media e politica nei confronti della testimonianza del dolore, “l’immaginaria partecipazione alle sofferenze degli altri promessaci dalle immagini suggerisce l’esistenza tra chi soffre in luoghi lontani — in primo piano sui nostri schermi televisivi — e gli spettatori privilegiati di un legame che non è affatto autentico, ma è un’ulteriore mistificazione del nostro rapporto con il potere” (2).
Scansando i facili attacchi e le polemiche – ponendoci fuori dal merito delle vie e dei percorsi individuali adottati dai singoli superstiti come dalle famiglie per superare il lutto e riprendere la vita — ci proponiamo di riflettere sulle immagini mediatiche e sul loro riconfigurarsi in relazione ad una iconografia ben precisa. Tenendo in considerazione, raccogliendo l’invito della Sontag a penetrare la stratificazione dei discorsi mediatici per comprenderne il funzionamento, a non sottovalutarne la portata, che cosa vediamo nelle immagini e nei servizi televisivi che provengono dai luoghi del terremoto nel giorno della Via Crucis?
Vediamo le forme del discorso e i codici compositivi mirati a veicolare in tutte le case una lettura dei fatti dell’ultima settimana attraverso il sentimento della compassione e la vicinanza emotiva: pensiamo all’utilizzo delle musiche con effetto patemizzante, all’infierire delle telecamere sui dettagli somatici dei testimoni o alla trasfigurazione epica dell’operato delle forze di polizia, dei Vigili del fuoco, dei volontari che prestano con serietà e generosità il loro servizio; poco importa chi siano e quali siano le singole storie delle persone che vengono intervistate — i tempi ristretti della diretta come della differita impongono una evidente stilizzazione -, quello che conta è piuttosto l’efficacia del dispositivo retorico attraverso il quale la tragedia viene gestita. Come emerge dallo studio sulla rappresentazione mediatica delle esperienze extra-ordinarie condotto da Luc Boltanski, dove si evidenzia l’efficacia di alcuni modi di articolazione (topiche) del discorso testimoniale, “una delle proprietà essenziali […] della topica del sentimento era il fatto di stabilire un sistema di posti distinto dalle persone umane suscettibili di occuparli. Infelice, spettatore, persecutore, benefattore, ciascuno poteva essere a turno l’uno o l’altro. Quest’obbligo era necessario per assicurare una compatibilità minima tra una politica della pietà e lo stabilirsi di una società politica che soddisfi agli obblighi di comune umanità nel quadro di una città” (3).
In questa rilettura di una “vecchia storia” – la Passione di Cristo – attraverso i tragici accidenti di una “storia nuova” — il terremoto degli Abruzzi -, in questo racconto di una “storia nuova” attraverso l’architettura sempre efficace di una “vecchia storia”, emerge come in poche altre occasioni la capacità e il potere del discorso mediatico di orientare la narrazione di un evento che appartiene alla cronaca e alla storia del Paese in modo tale da selezionare i valori, le chiavi di interpretazione e accettazione della tragedia da parte dell’opinione pubblica.
Gli schermi chiedono vittime, chiedono figure compassionevoli e solidali che tentino di alleviare la disperazione e il dolore; sembra di vedere, di nuovo, in filigrana, un vecchio dipinto riguardante la Crocifissione di Cristo, uno dei tanti: il martire al centro e ai piedi le figure dei devoti compassionevoli che istruiscono i valori fondanti del cristianesimo all’osservatore esterno all’icona. C’è un potere moralizzante, e con questo un potere ideologico e politico delle immagini che non possiamo trascurare.
Viene da chiedersi che cosa effettivamente celi il ricorso a tale repertorio iconografico, a tale spettacolarizzazione del dolore, nel racconto dei fatti di Abruzzo. Le vittime ci sono e ci sono state, non sappiamo ancora quante; i superstiti disperati pure. Ma a definire la condizione degli uomini in quanto vittime o superstiti è stata la tragedia stessa e l’impossibilità da parte della società di sventarla. E questo può essere raccontato e testimoniato in molti modi. Altra cosa sono invece le strategie alle quali ricorre il discorso dei media per “costruire” la sofferenza, la morte e la solidarietà come “oggetti” di consumo e propaganda, come modalità attraverso le quali attenuare la portata problematica dell’evento e proporne un’immagine sterile, incapace di suscitare una reale riflessione che possa inquisire e migliorare i modi di organizzazione della vita sociale, delle emergenze.
Non è questo il momento di polemizzare, lo dicono i saggi, lo dicono i politici, lo ripetono i media, ed è una posizione che può essere condivisa. Ma mentre noi non polemizziamo, intanto, qualcuno lavora e pone le condizioni per una circolazione dei valori attraverso i quali leggere, interpretare e dimenticare gli eventi che accadono: “quella che si definisce memoria collettiva non è affatto il risultato di un ricordo ma di un patto, per cui ci si accorda su ciò che è importante e su come sono andate le cose, utilizzando le fotografie per fissare gli eventi nella nostra mente. Le ideologie creano archivi di immagini probatorie e rappresentative che incapsulano idee condivise, innescano pensieri e sentimenti facilmente prevedibili” (4).
Numerosi esponenti del cinema italiano — da Paolo Sorrentino a Mimmo Calopresti — hanno deciso di aggiungere le loro macchine da presa o telecamere alle tante portate negli ultimi giorni in terra abruzzese da parte dei media. Il tentativo è probabilmente quello di aprire in una molteplicità di direzioni il nostro sguardo, problematizzare ciò che accade nei luoghi sui quali si è focalizzata l’attenzione di tutti.
Nel tentativo gravoso di agire al di fuori dalle retoriche contestuali e demistificare le ideologie (nel senso lato del termine), il discorso letterario, quello cinematografico, quello artistico, cercano di restituire testimonianza degli eventi attraverso le forme di un racconto che non cerchi una “giusta distanza” nei confronti del reale. Non sembra esistere una giusta distanza, ogni distanza definisce, del resto, una “visione del mondo” e individuando una determinata strategia retorica, veicola un’ideologia al lettore, allo spettatore. Si tratta piuttosto di lavorare ad una problematizzazione e opacizzazione continua dei punti vista attraverso i quali restituire i fatti, ad una mobilitazione delle immagini presenti in archivio, mettendo ininterrottamente “fuori gioco” le forme del discorso, le retoriche adottate per produrre effetti conciliatori che modulano una visione “mansueta” e “anestetizzante” del reale.
1) Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2006, p. 78.
2) Ivi, p. 97.
3) Luc Boltanski, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 188.
4) Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, cit., p. 83.