di Franco Pezzini
[Non sembra tardi per proporre all’attenzione due splendide letture, edite nel 2007, che arricchiscono il panorama critico sull’epica omerica. Questo brano è stato pubblicato su “LN-LibriNuovi”, n. 46/2008, che ringrazio.] (F.P.)
Uno tra i molti motivi per amare i poemi omerici sta certamente nel fascino del loro costituire la punta di un iceberg. Anzitutto in senso letterario: non possiamo neppure immaginare quanti poemi sulla Guerra e il Ritorno — due categorie-chiave della cultura occidentale che lì trovano un primo, straordinario statuto — restino come allusi nei testi sopravvissuti. Ombre di poemi, dunque: e anche solo a grattare superficialmente tra i versi, qualcosa emerge.
Se è vero infatti che i testi hanno un contenuto sapienziale (usiamo pure questo termine impegnativo per l’interiorità) e strutturale compiuto nella forma a noi giunta, a un diverso livello d’indagine svelano stratificazioni non meno serrate di quelle sulla collina fatale di Hissarlik. Basti pensare al duello tra Menelao e Paride descritto dall’Iliade, con tanto di presentazioni di Elena sulle mura: una scena che nell’attuale posizione ha certo un profondo significato, ma che si può ben immaginare originariamente collocata nel primo anno di guerra, e non alla fine. Di più: a fianco dei poemi perduti dell’area “greca” — mettiamoci tutte le virgolette del caso — è plausibile che altri ve ne fossero nell’ambito dell’epica anatolica. Se il frammento ritmico/poetico in lingua luvia pubblicato nel ’59 dal Laroche che suona “Quando essi vennero dall’erta Wilusa” (XIII secolo) si riferisce, come probabile, a qualche conflitto nella Troade, possiamo supporre ragionevolmente l’esistenza di corpi narrativi paralleli. Senza nutrire eccessivi ottimismi, è possibile che qualcosa emerga quando mai si ritrovasse l’archivio ittita di Dattassa o qualche altro delle corti “perdute”.
Ma un secondo ordine di ombre, strettamente connesse al primo, riguarda l’esistenza più generale di documentazione storica. Se sulla cultura protogreca nota come micenea parecchio sappiamo — anche se indubbiamente moltissimo resta da chiarire — possiamo ben domandarci quale tipo di vita si svolgesse a Troia. D’accordo, gli archeologi sono divisi in due scuole: e una considera il conflitto narrato da Omero come puramente virtuale, nel senso che cucirebbe scampoli di vicende diverse, più o meno fantasiose o comunque non riconducibili a una guerra sull’Ellesponto. La Ilio/Troia di Omero potrebbe in sostanza essere Ialiso oppure Trysa, città collocate in altre zone dell’area egeoanatolica: e tutto ciò senza considerare le ipotesi più fantasiose, per esempio su location scandinave. Tuttavia, le fonti antiche presentano una sostanziale continuità nell’identificazione dei luoghi omerici: e un’altra scuola, forte di scavi che continuano a Hissarlik, sottolinea l’esistenza di indizi importanti a confermare un’interpretazione “tradizionale”.
Non possiamo pretendere di forzare i dati, ma esistono suggestioni interessanti. A partire dall’esistenza dei toponimi anatolici Wilusa e Taruisa quali plausibili matrici per Ilio/Troia: e il fatto che certi documenti egizi sembrino differenziarli in due diverse località non costituisce un vero problema. È possibile per esempio che in Anatolia esistessero più Taruisa, toponimo forse evocante un luogo “alto” e insieme plausibilmente collegato con un antico dio degli Hatti — la popolazione preindoeuropea soppiantata da Luvi e Ittiti — Taru Signore della tempeste. Che, guarda caso, corrispondeva funzionalmente a un Tarhu dei Luvi, il popolo indoeuropeo che occupava l’Anatolia occidentale: e le trascrizioni grecizzate suonerebbero rispettivamente Troo e Teucro. Nella città, del resto, dovevano parlarsi tutte le lingue di un grande porto: e gli scribi di corte usavano credibilmente sia la lineare micenea che il luvio. Un sigillo con iscrizioni in questa lingua, sia pure dalla città successiva alla Troia “omerica”, costituisce l’unico reperto con scrittura finora rinvenuto negli strati profondi. Parecchi nomi che la tradizione assegna ai Troiani risultano del resto documentati negli archivi ittiti: Priamo come Pariyamuwas, Paride come Parizitis, Alessandro (altro nome di Paride) come Alahsandus. Persino i nomi di personaggi minori potrebbero trovare consonanze con altri documentati: come nel caso di Motilo, un governatore che accoglie i fuggitivi Paride ed Elena, e sembra la grecizzazione del nome ittita Muwatalli.
Dopo che per anni gli scettici hanno dileggiato Omero sulla base delle dimensioni della cittadella scavata a Hissarlik — una borgatella, si diceva — negli scavi recenti è emersa un’immensa città bassa, circondata da mura, una palizzata e un fossato: segno cioè che quanto prima si conosceva era soltanto l’acropoli, col palazzo reale e alcuni templi. Tra i quali plausibilmente quello che custodiva il Palladio, oggetto simbolico di natura ambigua. Forse, anzi, di Palladio ce n’era più d’uno: una specie di spaventapasseri con le armi della Dea guerriera — la vergine che nasce dalla battaglia, eventualmente propiziata dal sacrificio di qualche sventurata Ifigenia — ma anche un betilo, o forse una primordiale immagine della Dea-civetta emersa dalla terra in scavi arcaici e dunque considerata protettrice della città. Poteva esserci anche un tempietto di Apollo, o meglio del suo corrispettivo anatolico, anche se il grande santuario del Dio protettore dei Troiani è rammentato dai classici come ubicato fuori le mura. Sarebbe anzi suggestivo immaginare (ma ovviamente indimostrabile) che proprio i teologi della città avessero elaborato un’identificazione tra varie identità divine poi confluite in Apollo: anzitutto Sminteo, il sacro Sorcio di Lazpas (Lesbo) folgoratore di malattie e guaritore, e il Lupo fratello dell’Orsa patrono dei pastori ed eponimo degli anatolici Lukka e forse in generale dei Luvi (Luk-wiya?). Mentre sul misterioso Apulunas anatolico sussiste il dubbio di un errore di trascrizione…
Il ciclo troiano racconta come i Greci, arrivando sulle coste anatoliche, attaccassero la Misia per sbaglio pensando che fosse il regno di Troia: episodio plausibilissimo, visto che un po’ tutte le guerre, in barba all’ intelligenza di missili o comandanti, hanno conosciuto simili sviste. E d’altra parte la Misia classica dovrebbe identificarsi con quella Terra del fiume Seha di cui parlano i documenti ittiti quale luogo di lunghi scontri con la gente di Ahhiyawa: e in quest’ultima si dovrebbero riconoscere i “micenei” (con tutte le virgolette del caso) chiamati Achei. A capo della Misia/Terra del fiume Seha il ciclo troiano colloca del resto un Telefo dal nome di assonanza ittita — Telepinu — mentre di suo figlio Euripilo l’ Odissea canterà l’arrivo sotto Troia con un contingente di “Cetei”, popolo misterioso che ancora una volta richiama agli Ittiti (Hetei).
I regni anatolici di occidente erano formalmente autonomi dal regno ittita, ma gli restavano legati con complessi trattati. Se però Wilusa — cioè probabilmente Troia — e la Terra del fiume Seha risultavano almeno relativamente fedeli, lo stato più ambizioso dell’area, cioè il regno di Arzawa (“terra dei liberi”) aveva dato al labarna (re) ittita infiniti grattacapi. La capitale di Arzawa era Apasas, la Città dell’Ape — un nome della Grande Dea — e i suoi re in passato avevano tentato disinvolti giochi di diplomazia internazionale, persino con l’Egitto. Ora Arzawa sembrava quieta, ma non è troppo irrealistico pensare che alla corte di Priamo/Pariyamuwas sussistesse una pluralità di simpatie politiche e forse di partiti, con alcuni più filoittiti e altri vicini agli irriducibili di Arzawa. E altri simpatizzanti dei Greci/Ahhiyawa, come la stessa tradizione imputa ad Antenore (il personaggio che avrebbe accolto in casa Menelao e Odisseo venuti a richiedere ufficialmente la restituzione di Elena): una contrapposizione in realtà più sfumata di quanto appaia, visto che gli Ahhiyawa in Anatolia ci stavano probabilmente di casa. La stessa tradizione greca infatti racconta del figlio dell’anatolico Tantalo, Pelope (un altro Telepinu? La somiglianza tra il dio nell’orcio degli Ittiti e l’eroe nel calderone del mito di Pelope sembra sospetta): ed è proprio lui, gran conduttore di carri come i principi ittiti, a lasciare il nome al Peloponneso — figura storica o simbolica di una dinastia di “uomini nuovi” che si sovrappose agli antichi re danai della Grecia meridionale. D’altra parte il ciclo troiano stesso ci avverte di una rivalità — e dunque, probabilmente, di un altro partito di corte — tra i due rami della famiglia di Troia, quello di Priamo / Pariyamuwas e quello cadetto di Enea, principe dei Dardani insediati ai piedi dell’Ida, il Monte-Foresta della Troade.
Un intreccio tra dati storici e letterari non può che dichiarare la sua natura di gioco d’ipotesi: ma certo gli incastri possibili sono infiniti e affascinanti. Prendiamo per esempio un personaggio minore del ciclo troiano, quel Laomedonte che la tradizione considera padre di Priamo. Laomedonte è il re-quaqquaraqquà che promette sempre e non mantiene mai: a Poseidone e Apollo perché costruiscano le mura della città (poi li tratta male e suscita le loro ire), a Poseidone perché risparmi Troia dall’allagamento (la ottiene a patto di sacrificare la figlia Esione, ma poi manda Eracle a salvarla), a Eracle che uccide il mostro inviato contro Esione (e non mantiene i patti neanche con lui). Il risultato è che alla fine Eracle uccide Laomedonte con parte della sua famiglia, e impone sul trono di Troia il piccolo principe superstite Priamo: e la storia si può ovviamente leggere in molti modi, a partire dalla pura fantasia letteraria. Ma per esempio, pensa Graves, potrebbe contenere il travisamento di concetti teologico-liturgici dell’età del bronzo: con buona pace di tutta un’iconografia pruriginosa su principesse incatenate (nude) in balia dei mostri finché l’eroe non arrivi a salvarle, si tratterebbe di una pantomima col dio-eroe e la dea-sacerdotessa associata al Gran Mostro cosmico. Tutto ciò non esclude però un livello d’interpretazione storicistico: che il re di Wilusa si cimentasse in funambolismi politici non pare strano, e i voltafaccia di Laomedonte potrebbero tradire quelli da lui effettivamente giocati tra Ittiti e Ahhiyawa. C’è poi un altro aspetto, legato all’interpretazione del nome del re: “duce del popolo” (Lao-medonte) poteva essere indubbiamente un nome proprio ma anche un soprannome legato a una carica, visto che i documenti micenei ci parlano di un lawagetas, appunto “conduttore del popolo”, subordinato solo al re sacro, il wanax, e che gestiva il potere delle armi. Considerando che l’albero genealogico dei re troiani è un po’ troppo eponimo, diciamo così, per non apparire sospetto, sembra almeno suggestivo ipotizzare una storia shakespeariana in cui un ambiguo “duce del popolo” elimina un parente e si cala la corona in testa, salvo poi essere rammentato dalla tradizione col vecchio titolo/soprannome (un po’ come, millenni dopo, Giovanni Senza Terra quando ormai la terra l’aveva avuta).
Le testimonianze a noi giunte di quel lontano mondo rappresentano esigui brandelli, spesso di difficile inquadramento per le categorie troppo rigide del nostro approccio: e una lettura di quel testo straordinario che è Atena nera di Martin Bernal (sia il primo che — soprattutto — il secondo volume) può risultare di preziosissima provocazione. Il mondo antico era molto più “meticcio” di quanto spesso si voglia ammettere: e in particolare l’età di convulsioni del 1200 a.C. rappresentò una fucina straordinaria per l’immaginario del mondo occidentale.
Ombre, dunque, di epopee e di popoli: e qualche volta l’evocatore esperto riesce a coglierne il mormorio — come Odisseo con gli spettri dell’Ade — o persino frammenti di sguardi o sorrisi. Come riesce a fare Bettany Hughes, considerata in Inghilterra la migliore divulgatrice televisiva di storia, nel suo bel saggio Elena di Troia. Dea, principessa, puttana: un viaggio affascinante e rigoroso sulle tracce della prima femme fatale dell’Occidente. Dove fatale va inteso nel senso più ampio, storico e simbolico di un vertiginoso portare a compimento i destini individuali e collettivi. Gli uomini, da Paride a Faust, hanno inseguito Elena da sempre per il suo magnetismo anzitutto fisico, insieme numinoso ed erotico: eppure, come in certe versioni del mito, sono finiti a scannarsi per un semplice spettro, mentre l’Elena reale si trovava lontana in qualche Egitto della geografia o dell’anima. Attraverso una prospettiva assai ampia, che attinge alla letteratura e al mito ma anche all’arte, alla vita sociale, al profilo stesso dei paesaggi di un orizzonte egeo-anatolico in fermento, l’Autrice incalza felicemente le tracce di una figura ambigua e triplice, insieme divina, storica (almeno virtualmente) e simbolica di una bellezza femminile “al tempo stesso concupita e disprezzata”.
Ma Elena torna coi suoi contemporanei anche in un altro bellissimo studio, stavolta di Barry Strauss. Con rigore scientifico (si veda la ricca bibliografia) e stile avvincente, La guerra di Troia presenta un grande affresco su questo Vietnam dell’epica greca, ripercorrendone fasi ed elementi in termini di ipotesi plausibili alla luce delle ultime scoperte. Smontando senza timore i luogo comuni: una lettura smaliziata degli interessi incrociati di Paride ed Elena, per esempio, li fa accostare meglio a Juan ed Evita Perón che ai bellocci da soap opera di Troy. Strauss studia in dettaglio i luoghi del conflitto e gli assetti militari alla luce di modelli d’epoca, in particolare quelli ben documentati dei regni orientali; analizza i profili giuridici, linguistici, culturali e di vita quotidiana del mondo che Omero narrava a distanza, e adattando i ricordi alla propria percezione della realtà. E la “novità” postulata dal titolo originario del volume (The Trojan War. A New History) non sta tanto sul piano delle singole informazioni — in genere note ai cultori di antichità egeo-anatoliche — quanto nel tentativo di interpretazione più meditato delle medesime. Qualcuna delle ombre, insomma, sta ottenendo ascolto.
Bettany Hughes, Elena di Troia. Dea, principessa, puttana (tit. orig.: Helen of Troy. Goddess, Princess, Whore, 2005, trad. dall’inglese di Irene Abigail Piccinini), Il Saggiatore (collana: Nuovi Saggi Storia), Milano 2007, pagg. 511, euro 22,00.
Barry Strauss, La guerra di Troia (The Trojan War. A New History, 2006, trad. dall’inglese di Lorenzo Argentieri), Laterza, Roma-Bari 2007, pagg. 302, euro 20,00.