di Francesco Lo Duca
Qui le precedenti puntate.
“Sta nel nero della pelle
nella festa collettiva
sta nel prendersi la merce
sta nel prendersi la mano
nel tirare i sampietrini
nell’incendio di Milano
nelle spranghe sui fascisti
nelle pietre sui gipponi…”
Rocco tossisce. Il sapore acre dei lacrimogeni brucia ancora la gola e il respiro rimane affannoso. Chiude gli occhi, cerca di rilassare i muscoli in tensione, di placare il battito accelerato ormai da ore, ma non è possibile ritrovare la calma con la morte nel cuore e una pistola in tasca.
Rivede tutta la sua storia “politica” scorrere a ritroso, lentamente, non “tutto in un secondo” come succede, dicono, a chi si trova in punto di morte, ma rivede passare l’ intera vita davanti agli occhi in un istante. Come se la vita stessa volesse imprimere il sigillo al suo essere stata vissuta nel momento stesso in cui svanisce per sempre.
Le immagini scorrono e Rocco rivive l’intera giornata del 7 Marzo.
Era stata convocata una manifestazione di “forte” protesta contro la conclusione del processo a Panzieri, condannato a 9 anni per essersi difeso. Un delirio: tanto per cambiare si condannava una vittima della violenza fascista.
Un corteo tozzissimo e militante si era ripreso la città: caccia ai nazi e sanzioni ai loro covi; nuove occupazioni in Via Clavature; ronda proletaria nella sede dell’Opera Pia, proprietaria di decine di immobili oggetto delle occupazioni; autoriduzioni nei ristoranti e per finire, durante la notte, un paio di sezioni DC incenerite. Una giornata da manuale.
Ripassa mentalmente l’intero mese di Febbraio. Le facoltà universitarie, a valanga, erano state occupate contro il decreto Malfatti che, in sostanza, tentava di reintrodurre la selezione combattuta con immane fatica e lotte feroci. Giornate pienissime, neanche il tempo di respirare. Assemblee, collettivi, volantinaggi, fiumi di carta e di parole, azioni, interi collettivi di artisti underground e di indiani metropolitani che srotolavano chilometri di murales sulle facciate degli edifici per svecchiare l’aspetto muffo e stantio dell’Università.
La statua di Giò Pomodoro trasformata in totem sembrava l’incarnazione simbolica di tutti gli spiriti, passati e presenti, della rivoluzione. Da Marx, sia Carlo che Groucho, a Majakovskij, fino al “Che”, le anime nobili degli antenati vegliavano.
La notte, poi, il clima greve del grigio inverno bolognese veniva letteralmente incendiato dall’ energia di centinaia di corpi liberati che esplodeva dalle facoltà aperte dove musica, feste, sesso, poesia e rivoluzione creavano senza sosta nuovi linguaggi, nuova conoscenza e nuovi desideri, le porte aperte su altre realtà possibili.
Al ricordo delle nottate insonni, trascinato dal fiume collettivo da una casa all’altra, in letti sempre diversi in cui le parole e l’amore si mischiavano in continuazione, un barlume di sorriso solca la maschera stanca e indurita di Rocco.
Gli sembra di risentire le notizie provenienti da Roma, il 17 Febbraio. Lama e i suoi sgherri erano stati buttati fuori dalla Sapienza a pietrate e sprangate da un bel mucchio di gente. Quel cazzo di comizio sindacale, nel pieno delle occupazioni e dopo una serie ignobile di provocazioni da parte del Piccì, era suonato proprio come una resa dei conti; platealmente, alla romana, erano stati spazzati via i meschini burocrati e i cani da guardia, la loro arroganza, l’ archeologica mentalità fordista.
Nottata di bagordi e festeggiamenti, gioia da lacrime agli occhi.
Erano mesi fitti che a leggere L’Unità non ci si poteva credere. Attacchi violentissimi e delazioni infami, articoli assurdi, falsi come solo chi è stalinista d’animo, ben oltre l’ideologia quindi, poteva concepire. Praticamente fascismo di bassa lega, anche se sempre più spesso era il Movimento ad essere tacciato di fascismo, con grande imbarazzo e invidia da parte dei fascisti veri del MSI. Argomentazioni che neanche il più reazionario notabile democristiano avrebbe osato.
E tutto il movimento a ingoiare rospi e a rodersi il culo.
Non passava giorno senza che la nuova polizia lanciasse anatemi, facesse nomi e cognomi, incitasse al pugno di ferro. L’ Unità vomitava veleno e veline a camionate alla questura.
A Bologna, ormai, la lista delle aggressioni e delle provocazioni da parte dei nazi era stata sostituita dall’elenco dei pestaggi e delle provocazioni da parte dei “Kompagni” di Via Barberie, con l’unica differenza che a Bologna i fasci non erano nessuno, mentre il Piccì era il potere.
Adesso Rocco socchiude gli occhi e vede riemergere dal magma dei ricordi un giorno imprecisato; una delle tante manifestazioni antifasciste.
Il movimento chiedeva la messa al bando dell’ MSI, una politica immediata contro il carovita e il comunismo subito.
“Fuoco – fuoco – fuoco sull’MSI /
Il vero antifascismo / si fa così”
“L’aumento di benzina / non vi conviene /
Ne compreremo poca / ma l’useremo bene”
Si rivede, dopo il corteo, le cariche e le manganellate, sdraiato sul letto ad ascoltare Alice “ …la rivoluzione Mao Dadaista… ma ci siamo ripresi la città… A/Traverso la città…”
In testa, come sempre dopo gli scontri, un frullatore di immagini, non in movimento come sequenze di un film, ma milioni di fotogrammi che si succedono vorticosamente; ogni tanto un’immagine esplode e si fissa. Risale l’adrenalina e il respiro si fa corto. Poi tutto riparte.
Vede scorrere al rallentatore i suoi gesti: mentre accende una sigaretta, o cerca di fermare la rotazione planetaria dentro la testa; lo sforzo di riconnettere qualche pensiero razionale. Gli scontri di quel giorno imprecisato gli fanno rivivere, dentro le viscere, quelli delle settimane precedenti, dei mesi passati e di tutti gli anni ormai trascorsi.
A quattordici anni, primo anno di Ginnasio, gli sembrava di poter agguantare il mondo, l’intero universo. L’eco del ’68 era esploso intorno a lui, gli aveva incendiato il cuore e aperto la mente. Era sicuro che, insieme a quel fiume inarrestabile di studenti che invadeva le strade e le piazze, e al fianco di una certa classe operaia di cui tanto si parlava, avrebbe cambiato il mondo in breve, sconfitto il conformismo e debellato l’ipocrisia, cancellato le guerre e il potere con la forza della ragione e della verità. Si sentiva onnipotente quando sfilava con altre migliaia di ragazzi come lui, a cui il mondo stava stretto. Tra i muri severi della scuola aveva temuto di essere l’unico a sognare silenziosamente di vivere tra uguali, senza differenze di razza e colore; ma ben presto si era accorto che era meraviglioso urlare a squarciagola i suoi sogni circondato da maree di giovanissimi che urlavano i loro sogni. Ed erano tutti uguali ai suoi.
Non era solo.
I fuochi delle molotov di Parigi ancora incendiavano il suo bisogno di ribellione; a fascisti e borghesi restavano pochi mesi. Era mosso da sentimenti che sembravano inconciliabili: odio viscerale contro ogni ingiustizia, disuguaglianza e potere costituito, ma al contempo una specie di amore universale verso l’umanità che sta in basso, con le pezze al culo. Un po’ da hippie del cazzo…, ma era ancora un adolescente, politicamente inconsapevole, e il mondo che minacciava di bruciargli intorno era ancora troppo grande per le sue forze.
Rivive l’emozione delle prime occupazioni, qualcosa d’impensabile nel clima rigidamente conformista che dominava l’ “istituzione” scuola durante gli anni sessanta, quando ancora gli insegnanti sembravano avere potere di vita e di morte sulle giovani vittime da immolare sull’altare della conoscenza.
Via Saragozza. L’ ITIS, fucina della futura classe operaia specializzata, era occupato da giorni e resisteva all’imminenza dello sgombro da parte dei celerini. Riecheggiava di bocca in bocca, di scuola in scuola, il racconto della grottesca “presa del palazzo”, divenuta immediatamente impresa eroica e immortale, da parte degli occupanti. Il preside, sul portone di accesso, spalleggiato da alcuni insegnanti, si ergeva a baluardo estremo della civiltà contro l’incalzare dei barbari devastatori.
– Dovrete passare sul mio corpo per entrare e occupare la scuola! – Il piglio del preside rievocava l’italica fierezza di un nefasto ventennio non molto remoto. Era stato un attimo, senza pensarci più di un nanosecondo in molti erano passati sul suo corpo e avevano occupato l’ITIS. Un flusso continuo di fiancheggiatori esterni portava derrate alimentari e generi di conforto, cesti legati a corde issavano i rifornimenti ai piani alti dell’Istituto dove gli occupanti vivevano barricati.
La scena cambia. Uggioso pomeriggio d’inverno durante la prima occupazione del Galvani. Risente la voce che concitatamente aveva interrotto un verboso intervento in assemblea – C’è un certo Malatesta Rocco? Lo vuole un tipo che sembra proprio uno sbirro della polizia politica. Deve andare giù in portineria.
Gelo immediato.
Tutti si guardavano l’un l’altro come per indovinare chi potesse essere la prima vittima della repressione borghese nel Liceo più borghese della città.
Ricorda di essersi alzato, vedendosi già con una palla al piede, vecchio e malato alla fine dei suoi giorni, di avere sussurrato con la poca forza della voce adolescenziale che Rocco era lui, e di essersi avviato, con le gambe di ricotta e il martirio nel cuore, verso l’uscita. Due ali di studenti si erano aperte per farlo passare e tutti avevano tentato di consolarlo, chi con un incitamento chi con una pacca sulle spalle, ma nessuno si era poi mosso per accompagnarlo, per proteggerlo.
“Gli eroi sono sempre soli nel momento estremo” pensava, mentre scendeva lo scalone per andare incontro al suo destino.
Sul portone una figura avvolta in un impermeabile nero, con un cappello calato sugli occhi lo aspettava. Lo sguardo che pose sul ragazzino spaventato non era minaccioso come quello di un questurino, il sorriso che si aprì sul volto dell’uomo non era beffardo e crudele. Era suo padre.
– Sono venuto a prenderti perché tua madre e io abbiamo paura che mandino quelle bestie di celerini a sgombrarvi a manganellate. Non vorrei prendermi un ergastolo perché mi hai costretto a vendicare il tuo martirio – Rideva per sdrammatizzare e tentare di ridare un po’ di colore alla faccia color cencio del figlio.
L’ affermazione e la logica sottostante erano stringenti e non ammettevano replica. Il padre rappresentava ancora l’eroe dell’infanzia. Quell’uomo colto, che scriveva per ore e che gli aveva riempito la fantasia di incredibili racconti di guerra, scappato da una Sicilia opprimente per respirare l’aria del mondo; sopravvissuto, giovanissimo ufficiale, alla guerra in Francia, in Albania, in Grecia e alla tremenda campagna di Russia, era stato, ed era ancora, per Rocco il faro, il punto di riferimento che ogni adolescente vorrebbe trovare nella figura paterna. Sentiva in lui l’autorevolezza di chi aveva pieno titolo per parlare di giustizia, di libertà, di vita e di morte.
Per un istante Rocco riprende contatto con lo spazio e il tempo reali. Volge lo sguardo intorno a sé, sui giardini di cemento, grigi, apparentemente privi di vita, un paradosso lessicale e forse anche architettonico, eppure riconosce a quel posto assurdo una sua logica, anche estetica. Il verde che spunta dal cemento grezzo, le linee geometriche e squadrate che condividono lo spazio con gli elementi tipici dei giardini bolognesi restituiscono un bizzarro senso di armonia e, perché no, di bellezza.
Una traballante associazione di idee tra ricerca estetica urbana e processi creativi antagonisti fa improvvisamente correre il flusso malinconico dei pensieri fino a un avvenimento collettivo che era stato, in molti modi, ambasciatore di tutto quello che sarebbe successo l’inverno successivo.
La sesta festa del proletariato giovanile al Parco Lambro di Milano, dal 26 al 30 giugno 1976.
In mezzo a quel mare di canadesi minuscole e di residuati militari di chissà quale guerra, la tenda di Rocco sembrava di un lusso sfrenato. Cecoslovacca, nuovissima, forse l’unica tre posti al mondo in cui si stava larghi in quattro. Pesava un accidenti ma era indistruttibile e aveva pure un secondo telo, che si prolungava formando una verandina abbastanza ampia. Una vera chiccheria.
Naturalmente il privilegio dello spazio era solo sulla carta. Infatti, durante quei tre giorni e quelle tre notti di delirio la tenda era stata abitata da non meno di sette persone. Non sempre tutte conosciute, quasi mai le stesse.
Inutile tentare di ricostruire un ordine cronologico di quelle giornate. Gli eventi, la musica, la pioggia torrenziale, l’esproprio al camion dei polli e al supermarket, gli scontri degli autonomi con i lacrimogeni fin dentro il parco; tutto mischiato col frullatore. Ripensando a quella baraonda gli sembra una forzatura inutile dare successioni temporali a tre giorni completamente fuori di testa, in cui tutti i meccanismi della comunicazione e della politica erano completamente cortocircuitati.
Solo lunghe sequenze di flash, fermi immagine e sensazioni aggrovigliate, impastate tra loro dallo sconsiderato abuso di sostanze di ogni tipo.
Ma com’era partita la faccenda? Una sera che languiva a casa di Gigi, tra una canna e un brano dei Rolling Stones, mentre l’amico disegnava, era nata l’idea di mollare la militanza per qualche giorno, far su armi e bagagli e andare al grande happening.
Il festival del Proletariato Giovanile era stato organizzato dalla rivista Re Nudo con l’appoggio di alcune organizzazioni tra cui Lotta Continua, IV Internazionale, Falce Martello, il Partito Radicale e le riviste Umanità Nova, A rivista anarchica e Rosso.
Se ne era discusso una sera al circolo anarchico durante una riunione del N.A.U. il nucleo anarchico universitario.
Era metà giugno, il caldo si faceva sentire e la voglia di vacanze, lontano da esami, riunioni, robe pese tipo volantinaggi davanti alle fabbriche, attacchinaggi ecc. cominciava a farsi ineludibile. La discussione non era stata per niente scontata; la componente più “tradizionalista”, quelli che Rocco e gli altri chiamavano “i compagni culi di pietra”, a causa della loro spiccata propensione a stare col culo incollato alle sedie per ore e giorni in interminabili riunioni, dibattiti, convegni, stesure di documenti e bla, bla, bla, opponevano apertissime e severe critiche alla natura troppo frikkettona dell’evento, ma, poiché sia Umanità Nova che la rivista A erano tra i promoters dell’organizzazione del Festival, allora, si, era giusto partecipare. Anche se unicamente, o quasi, in prospettiva dello spazio politico che si sarebbe aperto… degli incontri già programmati sulla condizione del proletariato giovanile… sulle prospettive internazionali dopo la sconfitta dell’imperialismo USA in Vietnam….
– Si vabbe’, però probabilmente sarà anche l’ ultima edizione di un festival che, per quanto criticabile sotto il profilo della gestione politica organizzativa delle scorse edizioni, ha espresso la controcultura che in questi anni ha portato alla nascita dei circoli del proletariato giovanile, alla radicale messa in discussione dei modelli culturali… anche quelli ormai stereotipati della sinistra extraparlamentare. Insomma è importante esserci per continuare il discorso sulle nuove forme di socialità, di comunicazione anche musicale, per dire forte e chiaro ai troppi compagni che ne fanno uso che l’eroina non è affatto liberatoria ma è uno strumento del dominio di classe dei padroni, mentre invece le cosiddette droghe leggere devono essere liberalizzate.
Dario, uno dei primi iscritti in assoluto al DAMS Spettacolo, la metteva sull’antropologico/sociologico/politico e, naturalmente, culturale, per dribblare il trabocchetto della “partecipazione si, ma principalmente alle iniziative politiche”.
La verità è che l’ala avversa ai culi di pietra non ne voleva mezza di andare al Lambro per fare ancora e sempre riunioni, dibattiti, documenti; e che palle! Anche la rivoluzione ogni tanto tira fiato, si fa una bella canna e una grassa risata.
La vera parola d’ordine inconfessabile non poteva che essere l’icona della rivolta Rock partita dall’Inghilterra una decina di anni prima, rimbalzata negli States e da lì, sospinta dai placidi Alisei, tornata nel vecchio continente: “Sesso, Droga e Rock ‘n Roll”.
Si erano dati appuntamento per la mattina del 26. Una giornata quasi agostana in Via Del Falcone, proprio di fronte alla tipografia, sotto casa di Maurizio e Claudia.
Dario fumava come al solito la pipa. Capelli e barba rossi, calzoncini corti e sandali sembrava incarnare lo stereotipo del turista inglese (tedesco no perché almeno aveva avuto il buon gusto di non mettersi i calzini), con la consueta flemma dirigeva le ultime operazioni di carico, molto discretamente per non infiammare la suscettibilità anarchica e antiautoritaria del gruppo (tutti grandissimi piantagrane e massimi esperti planetari nell’arte della “tetrapiloctomia”, ovvero l’arte di spaccare il capello in quattro ad ogni piè sospinto).
Dopo un’ora, già stracariche di umanità dissoluta e roba di ogni tipo modello bazar, due macchine fremevano per partire. La “saponetta” (superbo esemplare di NSU Prinz celeste chiaro) di Gigi era certamente controcorrente rispetto all’iconografia ortodossa della macchina del compagno.
Renault 4, cinquino, 2 cavalli per i più fighetti, 127 per i più proletari, Ford Transit per i più scoppiati.
Ma la Prinz! Era la macchina dei nonni col cappello, col cane che dal lunotto scuote la testa troneggiante tra due meravigliosi cuscini fatti all’uncinetto, targata rigorosamente Modena. Una macchina segnata, senza se e senza ma. Gigi lo sapeva, la odiava ma non aveva alternative. La insultava e la maltrattava, ma la stronza se ne accorgeva e non perdeva occasione per vendicarsi e piantare rogne.
L’altro mezzo della carovana era la macchina del padre di Maurizio. Estorta con l’inganno, ovviamente. Uno splendido “Squalo” bianco, vetri fumés e mega stereo. Un lusso sfrenato. Probabilmente un filino borghese… ma a volte il senso della vita si assapora vivendo qualche piccola incoerenza, qualche deroga… un’ombra di trasgressione. Insomma, politicamente corretto o no tutti, fingendo di ostentare indifferenza o addirittura fastidio di fronte a quella macchina da padroni bastardi, avevano litigato a sangue per metterci il culo sopra.
Del resto chi aveva vissuto gli anni in cui i Marxisti Leninisti agitavano il libretto rosso recitando il pensiero del Grande Timoniere, o aveva partecipato alle scuole quadri che praticamente ogni gruppo imponeva ai propri militanti, francamente ne aveva le tasche piene della rigida ortodossia rivoluzionaria che aveva prodotto un conformismo contrario e speculare al conformismo borghese dileggiato e combattuto dal ’68 in poi.
Contraddizioni di classe o contraddizioni in seno al popolo? Boh. Vallo a sapere.
Comunque, erano partiti sotto il solleone. La saponetta davanti, a velocità deprimente, lo squalo dietro con il giuramento fatto col sangue di viaggiare insieme, casomai la Prinz avesse piantato grane, come consuetudine. Appena superato il casello di Casalecchio i privilegiati del Citroën si erano scocciati di mordere il freno e avevano spinto sull’acceleratore, scomparendo all’orizzonte.
Seduti in circolo nella tenda, mentre fuori spioveva, girava un chilum di afghano oppiato che era una mazzata.
– Ancora canne! Basta compagni. Tra poco inizia l’intergruppi e siete tutti fatti come frikkettoni – In un gruppo extraparlamentare marxista Marco sarebbe stato il commissario politico, il quadro dirigente o vattelapesca che accidenti. Per il nucleo anarchico universitario era un “culo di pietra”, bravo, preparatissimo, ma peso oltre misura.
Uscito Marco scocciato e un po’ schifato dal lassismo dilagante, tutti erano diventati più seri dando libero corso alle riflessioni, un po’ intorpidite dall’hascish, ma non meno profonde.
Maurizio passando il chilum aveva attaccato – Pensa, porcoddio, sarebbe bello fare alla Talpa come nei coffee shop di Amsterdam. Entri e trovi quello che cazzo ti pare. “Cosa posso servirle signore? Ketama? Nepalese? Afghano? Il libanese lo preferisce giallo o rosso? Vuole provare la Gangia giamaicana?”. Sarebbe una figata – Il clima della tenda quartier-generale si andava scaldando e l’idea di schivare il dibattito assumeva sempre più i contorni di un dato di fatto ormai ineluttabile.
– Si, potremmo proporre alla rispettabile clientela torte al Pakistano da degustare sorseggiando Tè alla Maria mentre Martino ammannisce per la quindicesima volta “Spagna ’36” di Buñuel.
Quando la pioggia aveva smesso di inondare il popolo del Lambro tutti erano schizzati fuori dalla tenda.
La grande radura dei concerti brulicava di attività. Attorno al palco i tecnici riesumavano casse, mixer e strumenti sepolti dai teli di nylon a protezione dalla pioggia, ormai in fase di esaurimento. La gente iniziava a radunarsi per i concerti in programma a partire dal tardo pomeriggio. Lo spettacolo successivo sarebbe stato una contaminazione, per usare un elegante eufemismo, tra le performances creative/liberatorie e la pura animalità. Nudi o seminudi interi gruppi si lasciavano andare a danze tribali guidati dalla musica; percussioni prodotte da bonghi e tamburelli davano il ritmo a corpi di ragazzi scheletrici dai capelli lunghissimi e di fanciulle diafane che volteggiavano come in estasi tra gli ultimi scrosci di pioggia e le pozzanghere di fango, in cui la totale immersione era d’obbligo.
Maurizio, Rocco e Claudia si aggiravano tra i vari accampamenti improvvisati, dopo avere oltrepassato l’area dove i Radicali facevano campagna antiproibizionista. C’era ovviamente di tutto: le zaffate di maria e di nero si confondevano con l’aroma intenso e pieno dell’oppio; le facce stravolte di chi ingollava acidi come se fossero aspirine e lo sguardo assente, lontano milioni di anni luce, di chi si scannava di pere.
– Cazzo ragazzi, Marco sarà cupo e peso ma questi sono oltre. Rincoglioniti di polvere vogliono pure menarla che è tanto liberatorio farsi le pere collettivamente. Non hanno proprio capito un cazzo.
– E’ ovvio, ma infatti questi alle assemblee e ai cortei, quando c’è da rischiare il culo, col cazzo che li vedi.
– Si, però – interruppe Claudia – la maggior parte si fa perché sta male.
– E vabbe’, però che palle ‘sta storia. Tutti stiamo male e viviamo di merda. Non abbiamo soldi, stiamo sul cazzo a tutti, compresi i nostri genitori, non abbiamo futuro. Però c’è chi si “ribella” ammazzandosi d’eroina, con poco sbattimento e grande soddisfazione di un mucchio di bastardi, e chi si ribella facendosi il culo tutti i giorni per cercare di fottere quello stesso mucchio di bastardi che se la ghigna tanto quando scricca un tossico. E’ semplice.
Ai tossici e agli strafatti convenuti al Lambro ovviamente non gliene fregava un cazzo se i padroni ingrassavano sulla loro pelle e ballavano felici sui loro cadaveri.
Non gliene fregava un cazzo di niente e di nessuno. Non conoscevano più amici, madri, compagni. Solo la pera contava e non capivano o, tanto per cambiare, non gliene fregava un cazzo se il potere/padrone/trafficante di eroina otteneva due o tre piccioni con una fava: guadagnare un mucchio di soldi facili e togliersi di torno un sacco di rompipalle malmostosi e sovversivi, tenendoli in pugno o, meglio, in punta di ago a vita.
– Mah! A me sembra che ormai Parco Lambro, più che la festa del proletariato giovanile, sia diventato un ghetto o una riserva in cui tenere confinati gli sfigati.
Su questa amara considerazione si era deciso di levare le tende il mattino successivo, e fare ritorno tra le braccia della vecchia bagascia mollemente adagiata tra i cupi crinali dell’Appennino e la piatta linearità della pianura padana.