di Federico Simonetti *
[In calce a questo post, novità dal dibattito sul NIE: interventi, file audio, iniziative pubbliche]
“Quando il nemico è molto forte, non basta vincerlo.
Bisogna saper sognare un mondo nuovo.”
Wu Ming 2, Pontiac, storia di una rivolta
Dopo molti mesi di discussione, il memorandum sul New Italian Epic ad opera di Wu Ming 1 è, a tutt’oggi, uno degli argomenti di dibattito più interessanti della critica letteraria italiana. Provenendo da freschi studi di filosofia politica, mi è parso di individuare dei punti di contatto tra la filosofia di Alain Badiou ed alcuni aspetti del discorso sul NIE.
Alain Badiou è un autore francese contemporaneo finora poco conosciuto in Italia. È stato un allievo di Althusser e Lacan oltre che un critico di Deleuze [1]: il suo discorso parte da una rilettura della filosofia dell’essere come teoria matematica ed arriva a definire un sistema teorico-politico piuttosto complesso, ma estremamente stimolante. Tra gli interessi di Badiou, infatti, c’è una serrata critica al post-moderno nelle sue chiavi politiche, artistiche e più strettamente filosofiche [2]. Nel suo discorso il tema dell’evento ricopre un posto centrale: un evento per Badiou è un accadimento eccezionale che non era previsto e prevedibile nel normale scorrere del tempo. Nel momento in cui si verifica, esso sconvolge completamente le regole di un mondo e rivela che esso non funziona come si è sempre pensato. Riprendendo un esempio che Wu Ming 2 fa nel suo saggio La salvezza di Euridice [3], possiamo dire che nel mondo dell’astronomia, prima di Copernico, le regole che facevano funzionare l’universo erano quelle dell’eliocentrismo: ma le teorie di Copernico costituivano un evento, imprevisto ed imprevedibile, che ha modificato indelebilmente le regole dell’astronomia portando ad essere qualcosa che prima non era, ossia che la terra gira intorno al sole.
Ciò che mi è parso in particolare compatibile tra i due dispositivi è una serie di suggestioni: da un lato, il concetto di mitopoiesi affrontato da Wu Ming e, dall’altro, quello del soggetto raro ed eroico per come ne parla Badiou. Il mio tentativo è quello di stimolare un discorso politico di analisi dei miti fondativi che già adesso si producono all’interno dei gruppi umani, delle grandi narrazioni i cui effetti sono in atto nelle nostre metropoli e che sta a noi cogliere, se ci riteniamo in grado e vogliamo, anche solo minimamente, invertire la tendenza al disastro che pare circondarci inesorabile.
Wu Ming 1 costruisce il suo discorso sostenendo che una corposa nebulosa di romanzi apparsi in Italia tra il ’93 ed i nostri giorni condividono un tono epico. Ma a cosa pensiamo parlando di epica e come facciamo a definire i contorni di un discorso o di un clima epici? Wu Ming 1, nel suo Memorandum spiega il senso di ciò che intende per “epica” in questo modo:
Queste narrazioni sono epiche perché riguardano imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose […] sempre all’interno di conflitti più vasti che decidono le sorti di classi, popoli, nazioni o addirittura dell’intera umanità […] spesso il racconto fonde questi elementi storici e leggendari, quando non sconfina nel soprannaturale […] Inoltre, queste narrazioni sono epiche perché grandi, ambiziose, “a lunga gittata”, “di ampio respiro” e tutte le espressioni che vengono in mente. Sono epiche le dimensioni dei problemi da risolvere per scrivere questi libri, compito che di solito richiede diversi anni, e ancor più quando l’opera è destinata a trascendere misura e confini della forma-romanzo […][4].
Il discorso non ci aiuta a definire effettivamente cosa intendiamo per epica. Ci dice piuttosto in che senso possono essere epici questi romanzi, ma non definisce in alcun modo l’epicità: dire che queste narrazioni rimandano ad imprese “mitiche”, “eroiche” o “comunque avventurose” non risolve il problema della definizione dell’epica dato che mito, eroismo ed avventura sono strumenti della narrazione epica che però non la spiegano.
Più avanti, nelle aggiunte alle versioni 2.0 e, soprattutto, 3.0 del Memorandum e raccolte nel saggio autonomo Sentimento Nuevo [5], ci viene esposto in maniera più chiara per quale ragione chiamare in gioco l’epica: essa sarebbe legata ad un lavoro sul tono e sul «desiderio di spazio, di scarti e differenze, di scontro, sorpresa, avventura» [6] del lettore. A differenza del realismo, al quale per Wu Ming 1 l’epica non si oppone, l’epica è un lavoro sulla connotazione del testo, un lavoro che coinvolge i significati più disparati, figurati e non, che uno stesso testo può avere all’interno di una comunità. Un autore epico lavora appunto su tali connotazioni e producendo un “di più”: usando una definizione piuttosto canonica, possiamo definire un’opera epica come un complesso di narrazioni, di avventure che hanno come protagonista un eroe, una figura mitica (è indifferente se esso sia un singolo o un gruppo, una moltitudine) che si svolgono tra imprese di statura e difficoltà eccezionali. Uno dei caratteri dell’epica è infatti precisamente la sproporzione che si crea tra ciò che l’eroe è e fa ed il resto dei mortali: «l’epica è iperbole che produce attrito — o addirittura scontro aperto — tra familiare ed estraneo» [7] e così facendo produce un effetto di perturbanza generato dal tono sovraccarico generale. Questa specificità dell’epica è ben evidenziata dai due interventi di Wu Ming 4 a proposito della figura di Beowulf [8]: in breve, la figura dell’eroe serve da monito e da esempio per chi assiste alla sua impresa e, attraverso di essa, tutto un nuovo sistema di valori acquisisce senso, viene elaborata una nuova grammatica. L’eroe sposta in avanti il limite dell’umano, funge da nuovo paradigma per l’azione di chi rimane, funzionando da monito anche nella sua fine: proprio perché l’eroe è essenzialmente eccedente, anche la sua fine è figlia di questo eccesso. Come tuttavia ci mostra Wu Ming 4 la narrazione non si esaurisce con la vicenda dell’eroe: essa è spesso soltanto l’argomento principale della narrazione, a cui però si aggiungono un’altra serie di racconti che hanno poco a che fare con la vicenda centrale. Pensiamo a quante vicende “collaterali” circolano all’interno dell’opus omerico: nella stessa Iliade, quello che dovrebbe essere l’argomento centrale — la guerra di Troia e la conseguente morte di Achille — non sono sempre al centro della narrazione, né la narrazione è centrata su di esse (il racconto parte in ritardo rispetto alla guerra stessa poiché siamo nel corso dell’ultimo anno della guerra e finisce in anticipo, prima che Achille muoia). In effetti ciò che l’epica ci comunica è, spesso, solo una vicenda particolare con un denso significato universale: una vicenda con forti connotati generici, un evento che, se slegato dai dati contingenti, si può leggere attraverso le infinite evenienze della vita umana. Rimane da chiarire, tuttavia, che relazione abbia questa narrazione con la produzione di un soggetto: se, cioè, un’epica venga prima o dopo che il racconto si è concluso.
Il rischio è quello di finire in un disastro, nel senso che Alain Badiou conferisce al termine nel suo testo sull’Etica [9]. Per Badiou l’evento politico ha la particolare caratteristica di fare apparire dal vuoto qualcosa che precedentemente non era ritenuto essenziale in un determinato “mondo” [10]: il vuoto presente in tutti i mondi, è la parte del mondo che noi non riusciamo ancora a vedere, a considerare, contiene quegli elementi invisibili che non siamo in grado ancora di considerare (come le orbite planetarie prima di Copernico). Questo vuoto è dunque produttivo, da esso spunta fuori ogni tanto “qualcosa”, qualcosa che era prima invisibile. Un evento straordinario è capace di scardinare l’ordine precedente del mondo facendo venire all’evidenza, dal vuoto, quello che non era precedentemente evidente e la cui emersione rivela delle nuove verità. Ma questo vuoto non si esaurirà mai, non è possibile una emersione dal vuoto completa, una volta per tutte: stabilire che ci sia il vuoto e che, per quanta potenza possa avere un evento o una sequenza di conseguenze, esso non si esaurirà mai — perché testimonia della infinitezza dell’essere come pura molteplicità — è la base necessaria perché l’evento non generi il Male. Il vuoto contiene, infatti, l’infinità di possibilità di una situazione; negare tale infinità di possibilità è estremamente pericoloso. La forma del Male che Badiou identifica con il simulacro consiste appunto nel non cogliere l’evento come possibilità del vuoto, ma come irruzione del pieno della situazione precedente. È questo, per Badiou, il caso del nazionalsocialismo che usa le categorie storiche dei movimenti di emancipazione (rivoluzione, rapporto privilegiato con le masse, elogio della figura del lavoratore), ma non per trarne una politica emancipatrice ed egualitaria, basata sulla possibilità che nuovi sfruttati possano sempre emergere dal vuoto, ma stabilisce un “pieno” a partire da una situazione esistente, che non ha un riscontro nell’universale e risulta ristretto alla sola “Nazione Tedesca”. L’evento/simulacro ha la stessa forza di un evento vero e però, proprio in quanto simulacro, esso fa riferimento a qualcosa che c’è già, non è aperto alle possibilità, ma chiude gli orizzonti fino ad eliminare tutti quegli elementi che non risultano rappresentabili (è il caso del termine “ebreo”).
L’emergere in situazione di un evento provoca, per Badiou, l’emersione di una verità. Essa trasforma i codici di comunicazione e cambia il regime delle opinioni: non è che queste divengano più o meno vere, dato che non è loro compito essere vere o no, ma possono essere cambiate o orientate in modo che ne entrino di nuove nel discorso e che altre preesistenti divengano insostenibili.
A mio parere la riflessione di Badiou sul Male come simulacro ha molto a che vedere con quella che Wu Ming, sulla scorta di Furio Jesi e Karoly Kerenyi, fa sul “mito tecnicizzato”. Dicono infatti i senza nome:
Il mito tecnicizzato si rivolge sempre a quelli che Kerenyi chiamava “dormienti”, ovvero persone il cui spirito critico è assopito, perché le potenti immagini evocate dai tecnicizzatori hanno travolto la coscienza e riempito l’inconscio. […]
Al contrario, un approccio “genuino” ai miti richiede lo stato di veglia e la disponibilità all’ascolto. Dobbiamo porre quesiti al mito e accogliere le risposte che ci dà, dobbiamo studiare i miti, andarli a cercare nei loro territori, con umiltà e rispetto, senza tentare di catturarli e condurli a forza nel nostro mondo e nella nostra realtà contingente.
Il mito tecnicizzato è sempre “falsa coscienza”, anche quando si opera “a fin di bene”. Soprattutto quando si opera a fin di bene. In un saggio intitolato Letteratura e mito, Jesi si chiedeva: “Com’è possibile indurre gli uomini a comportarsi in un determinato modo – grazie alla forza esercitata da opportune evocazioni mitiche -, e successivamente indurli a un atteggiamento critico verso il movente mitico del loro comportamento?”. E si rispondeva: “Non sembra praticamente possibile”.[11]
Ciò che è in questione, vediamo, è la veridicità del mito, come capace di fondare un nuovo linguaggio: è possibile che l’evento di Badiou abbia a che fare strettamente con quello che i Wu Ming intendono con il mito “genuino”, e non è improbabile che possa essere esso a produrre una mitologia, come sua conseguenza. Un mito, infatti, deve essere innanzitutto dichiarazione su un avvenimento o una serie di avvenimenti. Lawrence d’Arabia fa di se stesso e della sua avventura un mito: di fatto la narrazione contenuta ne I sette pilastri della saggezza [12] crea l’evento-Lawrence, ma non perché crea ex nihilo ciò che gli è avvenuto. L’evento-Lawrence diviene tale partendo da qualcosa di esistente e di accaduto sul quale Lawrence è capace di fare un discorso che travalichi il limite del singolo e riesca ad elaborare un discorso generico: il punto è che l’evento stesso (ovvero ciò che inevitabilmente viene prima di questa narrazione-dichiarazione), per evitare di dar luogo ad un disastro o ad un mito “tecnicizzato” dovrà aver avuto un contenuto universale. La narrazione, dunque, segue sempre l’evento, ma è condizionata dalle sue dichiarazioni universali e dalla sua capacità di trascendere gli attuali limiti della situazione, se il suo tentativo è di essere fondativa di una comunità non orientata al disastro. Ma il ruolo della narrazione non si esaurisce in questo: fin qui c’è solo l’opera dell’eroe e la testimonianza di chi ha memoria dell’evento. L’eroismo del narratore sta nella sua capacità di far sì che l’opera prosegua, che generi conseguenze e linee di fuga.
Se la narrazione, infatti, viene sempre ad eventi finiti (e dunque li rispecchia) il suo ruolo è anche quello di testimoniare della superabilità di certi limiti, della loro vacuità all’interno di ogni situazione, di anticipare ed anche prefigurare la strada del soggetto. Mi vengono in mente alcune parole di un teorico poco amato dai Wu Ming (forse per gli accostamenti tanto frequenti quanto poco pertinenti) che, nel suo opus magnum scrive così:
Quella che si chiama “cultura” rispecchia, ma anche prefigura, in una data società, le possibilità di organizzazione della vita. La nostra epoca è caratterizzata, fondamentalmente, dal ritardo dell’azione politica rivoluzionaria rispetto allo sviluppo delle moderne possibilità della produzione, le quali esigono una superiore organizzazione del mondo.[13]
Al di là del carattere forse eccessivamente sociologico di questa riflessione di Debord, mi pare effettivamente che tra i compiti di chi si propone di scrivere un’epica ci debba stare un’analisi delle fondamenta del nostro immaginario collettivo e, sulla base di essa, il lancio di ponti verso l’universo delle possibili destinazioni. È chiaro che lo strumento privilegiato, in questo, debba essere l’allegoria: ma essa si ferma al punto della comunicazione letteraria. Bisogna fare un passo in più: si deve fare come Paolo di Tarso — o, se vogliamo, come il Paolo che descrive Badiou [14] — e metterci la faccia, le gambe, andare in giro per il mondo e continuare a dichiarare l’evento, avendo bene in mente che non si tratta solo di scrivere lettere, ma di mettere in piedi una critica militante. Per fare questo occorre una capacità che in questo momento appare, quella sì, rara ed eroica: il coraggio di dire, ma anche di dire essendoci, della parresìa. A questo proposito ho molto condiviso l’intervento di Tiziano Scarpa a proposito di epica popular ed anni ’90 [15]: pur non condividendo molte delle critiche che fa al fenomeno-NIE, mi sembra che centri il problema di questo mondo nel quale perdere la faccia è quasi impossibile, come se l’essere impiantati in una società che basa quasi tutto sull’immagine ci avesse immediatamente dotati di una continua lavabilità delle nostre reputazioni. E ciò è probabilmente avvenuto anche a causa del disincanto post-modernista che, con la giusta radicalità, il nuovo tono epico italiano cerca di contrastare. Tornare a metterci la faccia ci priva della maschera dell’ironia e ci espone allo scandalo rappresentato dalle nostre dichiarazioni, finalmente di nuovo serie, di nuovo capaci di prenderci sul serio quando diciamo qualcosa: un prenderci sul serio che testimoni dell’aver contezza della nostra memoria, perché anche quella si è come smarrita nel marasma post-modernista.
Il punto è che, almeno allo stato attuale delle cose, non mi pare che un’opera di ricomposizione delle storie sia stata fatta: essa è da fare, da costruire e da elaborare con il contributo di tutti. Siamo allo stadio degli aedi che, prima di una sistematizzazione scritta, generano miti sulla base di ciò che è avvenuto, a cui hanno assistito o su cui si sono documentati. Il passo successivo è l’intervento di un autore capace di dare un senso complessivo a tutte queste narrazioni, in corrispondenza (o in preparazione?) di un evento che sia capace di condensarle. L’evento che ha aperto la fase alla quale fanno riferimento gli autori nuovepici è, da un punto di vista strettamente politico, identificabile con le lotte zapatiste e le linee di fuga che si sono aperte a partire da esse in Europa e nel resto del mondo; l’evento campale che ha mostrato gli errori e la potenziale caduta può essere identificato in Genova 2001: se saremo capaci di cogliere o di configurare, di anticipare o solo di dichiarare in tempo un nuovo evento, ciò avverrà solo attraverso una cosmogonia, nel senso forte. Abbiamo bisogno di un Esiodo che tiri le fila e tracci le rotte, che torni a segnare le differenze tra il bene ed il male, poiché ogni epica è anche, in un senso profondo, una teodicea, una indagine sul cosa e sul perché del male del mondo, ma a partire dalla definizione di ciò che è bene, ovviamente in un senso né moralistico né religioso.
Ma abbiamo bisogno anche di eroi, di soggetti che elevino l’impotenza all’impossibile e che si sottraggano al servizio dei beni, che è invece l’impotenza del possibile: solo l’impossibile che l’eroe compie è quel reale che può farci superare l’impotenza. Dobbiamo dimostrare che ciò che il potere dichiara come impossibile può essere immediatamente reale, che si da già non appena si scalza il potere, l’ordine esistente. L’atto dell’eroe dimostra che ciò che reputiamo impossibile si può fare, basta usare tutto il nostro coraggio.
NOTE
1. Alain Badiou, Deleuze, il clamore dell’essere, Einaudi, Torino 2004.
2. Per avere un’idea chiara del senso dell’opera di Badiou cfr. Alain Badiou, Manifesto per la filosofia, Cronopio Edizioni, Napoli 2008.
3. Wu Ming 2, “La salvezza di Euridice”, in Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi, Torino 2009, pagg. 126-199.
4. Wu Ming 1, “New Italian Epic”, in New Italian Epic…, op. cit., pag. 14-15.
5. Wu Ming 1, “Sentimento Nuevo”, in New Italian Epic…, op. cit., pagg. 63-99.
6. Ivi, pag. 69.
7. Ivi, pag. 72.
8. Wu Ming 4, Da Camelot a Damasco, wumingfoundation.com, 3 novembre 2008.
9. Alain Badiou, L’etica, saggio sulla coscienza del male, Edizioni Cronopio, Napoli 2006.
10. Con il termine “mondo” Badiou identifica ciò che, fino all’inizio degli anni zero, aveva identificato col termine “situazione”. Semplicemente, un mondo è uno stato di cose, rappresentabile come un insieme (nel senso della teoria degli insiemi di Cantor, quella che si studia alle elementari) i cui elementi devono essere presentati e ri-presentati (ossia rappresentati) affinché il sistema funzioni.
11. Wu Ming, Giap #6, IXa serie – DIECI ANNI FA USCIVA Q, marzo 2009.
12. Thomas E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Bompiani, Milano 2000.
13. Guy Debord, La società dello spettacolo, Massari, Bolsena 2002.
14. Alain Badiou, San Paolo, la fondazione dell’universalismo, Edizioni Cronopio, Napoli 1999.
15. Tiziano Scarpa, L’epica-popular, gli anni Novanta, la parresìa, Il Primo Amore, 2 marzo 2009.
* Federico Simonetti è laureato e specializzato in Filosofia presso l’Università Federico II di Napoli con un lavoro su Alain Badiou. Si interessa di democrazia radicale, pensiero critico, critica al postmoderno e mediattivismo.
LINK CORRELATI
Simone Sarasso, L’Apocalisse formato NIE. Fine e nuova nascita del mondo nella narrativa italiana contemporanea. Novembre 2008.
Claudio Coletta, Storie di sopravvissuti. Lottare contro il probabile, sperimentare l’inverosimile, mettere alla prova la realtà. Dicembre 2008.
Valter Binaghi, L’epica tra conformismo e sovversione, settembre 2008.
NOVITÀ SUL NEW ITALIAN EPIC
Interventi, conferenze e iniziative varie
WU MING / TIZIANO SCARPA: FACE OFF
E’ on line da qualche giorno il pdf completo della risposta di Wu Ming 1 a Tiziano Scarpa.
Riassunto delle puntate precedenti: il 2 marzo 2009 lo scrittore veneziano Tiziano Scarpa pubblica sul sito “Il primo amore” un denso articolo intitolato “L’epica/popular, gli anni Novanta, la parresìa”, nel quale critica l’impostazione del memorandum di WM1 sul New Italian Epic.
Wu Ming 1 coglie al balzo l’occasione per scrivere – e pubblicare in tre puntate sul medesimo sito, a partire dal 16 marzo – un testo che non vuole essere soltanto una risposta sui punti specifici, bensì un confronto a tutto campo tra due poetiche, due concezioni dello scrittore e del suo ruolo, “due modi di gettare il proprio corpo nella lotta”. La terza puntata è andata on line il 29 marzo, come anche il pdf completo. Alla data del 7 aprile quest’ultimo, lemme lemme e senza particolari annunci, era già stato scaricato 742 volte – media giornaliera notevole, per un testo in apparenza “circoscritto”. Ennesimo segnale che il dibattito interessa anche quando va più in profondità.
LA RIVISTA LETTURE RECENSISCE NEW ITALIAN EPIC
Sul n. 656, aprile 2009, “Letture” – rivista di letteratura delle edizioni Paoline – manifesta interesse e rispetto per il tentativo di sondare e illuminare una nebulosa di opere “figlie della crisi”, che tornino a “manifestare fiducia nel ruolo sociale degli intellettuali e nel potere salvifico e fondativo della parola”. La recensione si trova qui.
NOI SAREMO LEGIONE: UN PESCE D’APRILE NIE
Un contributo al dibattito sul NIE può presentarsi in qualunque forma, anche quella di un “pesce d’aprile”. L’1 aprile scorso sul blog “Malpertuis” è apparsa la dettagliata anteprima/pre-recensione del… nuovo romanzo di Wu Ming, un horror mutante e fantapolitico intitolato Noi saremo legione. Copertina, blurb, trama, analisi del libro e riflessione sulla sua appartenenza alla nebulosa, mappatura preventiva delle reazioni della critica: tutto radicalmente verosimile. Il misterioso Elvezio Sciallis ha messo insieme un “oggetto teorico/narrativo non-identificato” coi controcazzi, che getta luce su punti di forza e aporìe in un modo che molti critici “militanti” possono soltanto sognare. Il post è qui. Non sappiamo dire se i commenti lasciati in calce siano sinceri o parte della burla.
[N.B. Il vero prossimo romanzo di Wu Ming uscirà in autunno, sarà un romanzo storico e si svolgerà nel XVI secolo]
IL NEW ITALIAN EPIC ALLA UNIVERSITY OF LONDON
Nei giorni 16-19 aprile, la britannica Society for Italian Studies terrà la propria conferenza biennale al college Royal Holloway della University of London. Il titolo dell’edizione 2009 è “Da Dante al Duemila”. In quel contesto, si terrà il panel “New Italian Epic: percorsi nella narrativa metastorica italiana”, organizzato da Claudia Boscolo, diviso in due sedute e articolato in sei relazioni:
– Claudia Boscolo: “L’idea di epica e il New Italian Epic”
– Dimitri Chimenti: “Campi narrativi e il reale: cinque romanzi”
– Emanuela Patti: “Petrolio come modello UNO nella scrittura di Giuseppe Genna”
– Marco Amici: “Urgenza e visioni del New Italian Epic”
– Emanuela Piga: “Metastoria e microstorie in Manituana dei Wu Ming”
– Monica Jansen: “Laboratorio NIE”
Il programma completo è qui (PDF).