di Simone Sarasso
D’Andrea G.L., Wunderkind. Una lucida moneta d’argento, Mondadori, 2009, pp. 392, € 17,00
Wunderkind è il primo volume d’una trilogia fantasy destinata a cambiare per sempre il volto del genere in Italia. In rete si parla da qualche tempo [qui] di questo libro e la comunità di addetti ai lavori (ma non solo) attendeva da tempo l’uscita del primo tomo.
Il maggior pregio di questo volume è la trasversalità. Wunderkind esce in una collana per ragazzi, ma se gli date un’occhiata ben presto vi renderete conto di come esorbiti qualunque classificazione preventiva: Wunderkind non è esattamente un fantasy. Di sicuro non è solo un fantasy per ragazzi. Merito dell’ambientazione, anzitutto.
Molte caratteristiche di quest’opera irretiscono il lettore senza lasciargli via di scampo (proprio come la lucida moneta d’argento del titolo si lega indissolubilmente al destino del Wunderkind).
In primis la fluidità: non è proprio un libello (poco meno quattrocento pagine), ma scorre veloce come un fiume in piena. In secundis, i personaggi e, infine, l’eccelsa qualità della scrittura.
Ma andiamo con ordine. L’ambientazione, si diceva: l’intera storia, salvo alcun brevi sconfinamenti, è ambientata nel Dent De Nuit. Il Dent De Nuit è un quartiere di Parigi che non compare su nessuna mappa. Nonostante questo irrilevante particolare, è abitato da un sacco di gente strana: impiegati, commessi, baristi, persino bibliotecari portoghesi, ma soprattutto da Cambiavalute. Che non siano semplici bancari dal pollice lesto è intuibile dalla maiuscola: ma non voglio dirvi nulla su quale sia la principale occupazione di questi Cambiavalute, perché finirei per guastarvi un bel po’ di sorpresa. Vi basti sapere che la Permuta, di cui sono maestri, assomiglia un sacco alla magia. Ma non chiamatela magia, mi raccomando, sennò il Barbuto potrebbe arrabbiarsi (che è il Barbuto? No, niente spoiler: leggete il libro, non ve ne pentirete).
Il Dent De Nuit è vivo e pulsante, composto di mattoni sbrecciati e bar all’ultima moda, di case pericolanti e decorate da graffiti di pregiatissima fattura. Il Dent De Nuit è sporco e pericoloso, spregevolmente urbano. E questo particolare mi ha immediatamente catturato. Io sono un appassionato di storie nere, per lavoro e per piacere ne leggo decine. Il noir “cittadino” è sicuramente l’ambientazione che preferisco, e frequento il genere da abbastanza tempo da essermi formato un particolare gusto in merito. L’oscurità di Wunderkind, il suo lato noir, tiene testa a molti romanzi di genere.
Il nero urbano del Dent De Nuit è popolato di strane creature: uno spadaccino tatuato da capo a piedi che si chiama quasi come un certo regista del Kentucky, uno straordinario cattivo (non ne vedevo uno così dai tempi di Psycho Circus, il fumetto dei Kiss targato Image) di nome Herr Spiegelmann, un licantropo che non sfigurerebbe in un’incursione sul suolo cubano in compagnia di Pete Bondurant e un ragazzo di nome Caius — il “Wunderkind” del titolo — che avrebbe parecchio da insegnare a Harry Potter e compagnia briscola su come si sta al mondo.
Personaggi profondi, dotati di un’umanità (e una disumanità) straordinaria. Costretti a scelte difficili, mai sicuri di sé, fragili ed eterni come il cristallo piombato del rosone di Notre Dame.
Ma questo è il meno. Come ho detto, in genere preferisco leggere storie di criminali che favole magiche popolate da mostri disgustosi (tra l’altro, in tema di mostri disgustosi, D’Andrea non è davvero secondo a nessuno: le pagine in cui descrive il Calibrano sono da antologia. E l’adunata delle mani mozze nel finale fa battere i denti); quest’avventura oscura in bilico tra fantasy e horror mi ha conquistato per la maestria nella mescolanza di generi e suggestioni. E credo che davvero possa costituire un oggetto narrativo interessante anche per i non frequentatori abituali del genere fantastico.
C’è azione (un sacco di azione), ultraviolenza, turpiloquio quanto basta e un certo retrogusto orrorifico che innalza il livello della narrazione. Tuttavia, ciò che rende questo romanzo davvero unico è la qualità della scrittura. D’Andrea è un narratore di razza, dalla penna feroce, dalla metafora desueta e mai banale e soprattutto dotato di un’innata classe.
E la buona scrittura, ancor più delle storie importanti, è quel magico artificio che cattura e rende schiavi.