di Daniela Bandini
Alfredo Colitto, Cuore di ferro, Piemme, 2009, pp. 422, € 19,00.
Siamo nei primi anni del 1300, in questo notevole romanzo di Colitto. Un cuore di ferro reale, tangibile come il suo metallico odore, una realtà crudele e romantica contemporaneamente. Il libro ha lo straordinario potere di farci credere a qualcosa che la nostra coerente logica post-illuminista nega. Parla di Templari, di alchimia, di streghe e di strazianti angoli di una città, Bologna, di cui chi ci ha vissuto o l’ha amata, anche solo per un istante, riesce persino a percepire gli inconfondibili aromi.
Cuore di ferro è un romanzo speciale. Primo, dal punto di vista narrativo, ricco com’è di considerazioni e di informazioni storiche, e poi per la spiccata capacità di interpretare il femminile, con le sue descrizioni emotive dei processi che, contrariamente a quelli maschili, svelano le interconnessioni decisamente più ramificate tra logica e sentimento.
Addentriamoci nel racconto, con grazia, con i tempi di allora, notevolmente più lunghi, distesi e narrativi di quelli odierni. Il cuore di ferro sarebbe, è, un processo alchemico di trasformazione: “Ho preso del piombo, l’ho infuso tre volte insieme con calce, arsenico rosso, vetriolo sublimato, allume zuccherino, immergendolo poi nel succo della portulaca marina e del cetriolo selvatico…” Queste le parole di uno dei protagonisti del romanzo, Mondino, professore universitario con una importante missione da compiere, svelata fin dall’inizio per indurre il lettore ad accompagnarlo e sostenerlo. Lo scopo fondamentale di Mondino è quello di portare il secolo XIV verso qualcosa di più laico e avvincente, la conquista della consapevolezza, della conoscenza, lasciando alle spalle gli anni dell’immobilismo atavico e ignorante. L’idea comunque non è quella di rinnegare Dio, ma di scoprire che Dio ha a cuore l’evoluzione culturale degli uomini e la loro emancipazione come processo divino.
Non manca l’Inquisizione, a proposito di medioevo. E’ una Inquisizione tuttavia già pregna di contraddizioni interne, di correnti, molto più politica di quello che vorrebbe rappresentare. Di fatto la scena dei crimini ricorrenti è raccapricciante, quindi a ben vedere l’Inquisizione all’epoca non avrebbe dovuto giustificare più di tanto il proprio intervento. Vengono infatti ritrovati diversi cadaveri con il cuore non sostituito, bensì tramutato da organo vitale nel quale scorre la maggior parte del sangue sia venoso che arterioso, un organo quasi fluido, in un cuore di ferro. I cadaveri presentano profondi squarci praticati da anatomisti provetti e con il cuore formato da un metallo che sembra l’antitesi della caratterizzazione umana. La mancanza di un cuore vero è simbolica dell’assenza di empatia, verso i propri simili.
I sospettati sono diversi, ma la politica dell’epoca trova facile capro espiatorio negli antagonisti di tutti i poteri costituiti: i Templari. Interessante il seguente aneddoto, relativo a “un codice ebraico, detto arbash, dal nome delle prime e delle ultime due lettere. Si scrivono le lettere da destra verso sinistra, poi da sinistra verso destra.. Dopodiché si prende una parola e si sostituisce ciascuna lettera con quella corrispondente della fila sottostante…. Leggendola da destra verso sinistra, abbiamo Ba.ph.o.me.t. Ora prendiamo queste lettere e sostituiamole con quelle corrispondenti…. Alef, Yod, Pe, Vav, Shin. Ovvero, da destra verso sinistra, S.O.PH.I.A. La dea della sapienza”.
Vi sono altre pagine estremamente suggestive in questo romanzo, non riguardanti prettamente il magico, che comunque tutto circonfonde della sua naturale suggestione. Sono le scene del quotidiano. Una città medioevale a compartimenti stagni, dove il proletariato e il sottoproletariato (ancora classi non del tutto separate) possono trovare rifugio in una sorta di catacomba cittadina, in gallerie che attraversano la città, una società nescosta nelle intercapedini con regole spietate e niente affatto solidali. Una delle figure più belle, a mio avviso, è quella di tale Bonaga, un mendicante storpio che vive di elemosina e che esercita la sua misera influenza in quell’inferno dove “i poveri sono tutti nemici… io devo spendere tutte le elemosine che ricevo, perché altrimenti gli altri me le rubano, approfittando del fatto che non posso fuggire…”. Così Bonaga ha imparato che, se le gambe non ti danno una mano, possono farlo le braccia. Il suo lancio di fionda è talmente rinomato e temuto da tenere alla larga anche i più temibili e arroganti avversari.
C’è un’altra tristissima e attualissima questione che viene presentata in questo romanzo. L’abuso. La ricorrenza quasi matematica, la correlazione esistente tra chi è stato abusato e ciò che sarà: ovvero la vittima che diventa carnefice, e il carnefice che giustifica in nome di ciò che ha subito la propria deriva verso il brutale pragmatismo istintuale. Ritenendosi innocente, assolto in anticipo.
Corre la mente a un fatto drammatico di cronaca, che col romanzo ha qualche legame meno esile di quanto possa sembrare. Il processo contro quel padre austriaco che ha segregato per 27 anni la figlia in uno scantinato, facendole partorire ben sette figli, con tutto ciò che ne consegue. Dal ritratto psicologico di quest’uomo si evince una tremenda personalità dominante, ma anche una volontà di pareggiare i conti. Egli stesso racconta di non essere mai stato abbracciato da sua madre, e quando lui, da piccolo, cercava un contatto fisico, la madre lo prendeva a calci sul pavimento. Non lo portava mai da nessuna parte, né gli rivolgeva la parola. L’unico luogo che li vedesse vicini era la chiesa, che la madre frequentava con caparbia assiduità. I cuori di ferro non appartengono al solo medioevo.