di Francesco Lo Duca
Qui le precedenti puntate
“Sta nel sogno realizzato
sta nel mitra lucidato
nella gioia nella rabbia
nel distruggere la gabbia
nella morte della scuola
nel rifiuto del lavoro
nella fabbrica deserta
nella casa senza porta…”
La notizia della tragedia seguita dall’appello alla mobilitazione si sta spargendo velocemente e i soliti tam tam di movimento sono in fibrillazione. Telefoni, passa parola tra le case popolate da studenti fuori sede, Alice che urla nell’etere libero la rabbia, il dolore e l’urgenza di essere tutti in piazza per dire alla Bologna rossa, di sangue e di vergogna, che la polizia fascista di Kossiga ha ammazzato ancora un compagno, uno studente di 25 anni che lottava semplicemente per un mondo meno infame.
Rocco attraversa Piazza Verdi fendendo capannelli di gente isterica, incazzata, spaventata, allibita. C’è chi gli rivolge domande sulla dinamica dei fatti, chi gli chiede che si fa adesso, chi giura vendetta. A qualcuno risponde, a qualcun altro dà una pacca sulla spalla, abbraccia ragazze e amici, sollevati tutti, anche chi non c’era, di averla scampata ma intimamente straziati dalla consapevolezza di aver lasciato per sempre un pezzo della propria vita e ciò che resta dell’innocenza collettiva sotto quel portico di Via Mascarella.
Il CPS è pieno di gente che entra ed esce in continuazione. Tutti gridano, si fanno attorno a Rocco che in poche parole racconta l’accaduto, o meglio, ripulisce dalle stronzate e dalle fantasie quanto è già stato raccontato, evidentemente da chi non c’era.
L’aria non è di cazzeggio spavaldo come poco più di un’ora prima. Forse tutti si rendono conto che anche a Bologna questa volta si fa sul serio. Che lo Stato ha sparato e ucciso come a Milano o a Roma, dove ormai si sa come vanno le cose.
Stavolta è successo nella tranquilla Bologna, la baldracca ammiccante, vetrina del vivere bene, delle donne generose, dell’ Università più antica e prestigiosa, del grande partito comunista, di tutti i più beceri luoghi comuni e di tutte le porcate giocate sulla pelle di un movimento di ribelli, “duri ma con gioia”, come dice Bifo.
Vengono chiuse le porte del CPS e fatti uscire tutti i non militanti. Inizia una serrata riunione molto operativa per decidere sia la linea politica da esprimere in assemblea, sia le modalità di partecipazione alla manifestazione “militante” che sarà indetta per il pomeriggio.
Giordano è il primo a prendere la parola: – E’ l’una passata, tra un po’ inizierà l’assemblea e dopo dovremo prepararci per il corteo che più o meno partirà alle cinque. Abbiamo poco tempo e una paccata di roba da fare. Secondo me dovremmo proporre in assemblea di fare un grande corteo fino alla sede della DC in Via S. Gervasio , poi tanto lì scoppia il casino quindi dobbiamo indicare altri obiettivi al movimento da praticare dopo le prime cariche. Propongo la Confindustria, la sede del PCI in via Barberia e Galleria Cavour, il simbolo delle “vetrine”.
– Ok – prosegue Rocco – poi i dettagli si decideranno tutti insieme, comunque nell’auletta di fianco all’Aula tre ci sarà la riunione ristretta e lo sapete che le decisioni vere sulla gestione militare della piazza saranno prese lì, quindi io ci vado di sicuro e sarebbe meglio se venissero un altro paio di compagni. Tanto ci sarà sicuramente chi ha già contattato PCI e sindacato per cercare di mediare, o peggio di scambiare, la loro adesione al corteo con la garanzia del controllo della piazza. Ma oggi non è proprio aria… Io personalmente non voglio neanche sentire parlare di qualsiasi cosa diversa dal restituire a quei bastardi il piombo che ha fatto fuori Francesco.
– Si vabbe’, ma stiamo calmi. Non abbiamo baiaffe sottomano e non siamo in grado di procurarcele in tempi così brevi, ma soprattutto non possiamo e non vogliamo, ce lo siamo già detti diecimila volte, far compiere a tutto il movimento un salto nel buio portandolo allo scontro armato. Ce ne saranno già abbastanza che non si metteranno lo stesso scrupolo. Anche se oggi il nostro desiderio più grande sarebbe di prenderli tutti a cannonate… dovremo fare con la solita roba a disposizione: bocce, fionde, pietre e chiavi inglesi. – Non lascia spazio di replica l’uscita di Anselmo.
– Si, ce le ‘nfilamo ‘n culo oggi le chiavi…- Cupo brontolìo in sottofondo di Ric “er romano”. Velenose espressioni d’assenso formano un coro stereofonico.
– Che cazzo stiamo qui a pilonare e a menarcela! Andiamo là fuori e diàmoci! Se vogliamo sappiamo benissimo dove trovare le baiaffe.
– Lo so anch’io, ma non è questo il problema – interviene con la voce strozzata dalla tensione Rocco. – Oggi è successo quello che non ci saremmo aspettati a Bologna. Chi ha le armi oggi le userà, e io non mi sento di criticarli perché è giusto e sacrosanto ripagare col piombo l’omicidio di Francesco. Ma come diceva Anselmo noi abbiamo scelto un percorso diverso dall’essere “avanguardie armate” di un movimento insurrezionale che esiste solo nei manuali di guerriglia: abbiamo scelto di essere parte di un movimento di massa che pratica la violenza necessaria dal basso, a livello di massa, appunto. Sappiamo benissimo che non ci sono assolutamente le condizioni per imporre al movimento salti di qualità che ancora non gli appartengono. Vorrebbe dire alzare esponenzialmente il livello di scontro e quindi la repressione. E a farne le spese sarebbero poi sempre i più fessi e disorganizzati. Teniamo conto che da quando non esistono più i servizi d’ordine di movimento la difesa dei cortei è limitata ai gruppi organizzati. E’ per questo che il nostro collettivo, duro e puro, non va in piazza con le armi. Ne abbiamo discusso un milione di volte. Anche se, oggi, un paio di caricatori glieli svuoterei addosso con mucho gusto a quegli assassini di merda.
Muscolare sottofondo di assenso nel CPS/stato maggiore.
Quando entrano i compagni del bunker la discussione si sposta sulle modalità delle risposte e delle iniziative immediate. Si decide, intanto, di chiudere la zona universitaria con barricate: via Zamboni dai due lati, da Piazza Rossini a Largo Respighi, Via dei Bibiena, Via Castagnoli all’altezza di Pierino e del Teatro Comunale, Via Petroni.
Nell’arco di mezz’ora il quartiere universitario è un alveare di attività. Gente mascherata ovunque che diligentemente mette di traverso macchine e cassonetti; compagni che razziano i cantieri perennemente aperti e alacri manovali della rivolta che disselciano sanpietrini ovunque si trovino. Le scritte guerrafondaie proliferano sui muri e Alice a tutto volume, collegata a un altoparlante, ripete ossessivamente l’appello alla manifestazione.
In giro neanche l’ombra di uno sbirro.
Rocco, con un vago senso d’impotenza e d’inadeguatezza rispetto alla gravità della situazione, s’infila la 32 lunga “chrome vanadium” sotto il giaccone e con alcuni compagni si dirige verso il fondo di Via Zamboni per dare una mano a erigere le barricate. Guardandosi attorno rabbrividisce all’idea che quella folla caotica e furente possa pullulare di infiltrati e sbirri infami, ma sa che è impossibile avere un seppur minimo controllo della piazza in questo momento.
All’altezza dell’aula di Economia in Piazza Scaravilli, dove sorge la seconda barricata partendo dal cuore di Piazza Verdi, una figura in lontananza gesticola al suo indirizzo, si avvicina velocemente al gruppo.
– Ohè Rocco, compà. Dove andate? Ho saputo quello che è successo, ho mollato il lavoro, mandato affanculo il capocantiere e sono corso. Dobbiamo farli cagare in mano quei bastardi – E’ Jack del Terron Power, invelenito come non mai.
Il Terron Power, il gruppo di amici, che in pratica coincidono con i compagni, e Margherita; le tre sole cose che danno un senso alla vita di Jack da quando è arrivato dalla Calabria, alla fine del ’75, per iscriversi all’Università.
La sua è la tipica famiglia arricchita della borghesia imprenditoriale, in una terra dove l’imprenditoria è un gioco d’azzardo o una copertura per i traffici della ‘Ndrangheta. La radicata cultura patriarcale e maschilista, insieme al menefreghismo ottuso nei confronti di tutto, ma proprio tutto, fatte salve la macchina, la moto, la mamma e la sorella, lo avevano esasperato al punto da fargli preferire le lande nebbiose della pianura padana al sole e al mare incontaminato del suo paese.
Se ne era andato sbattendo la porta e urlando che un giorno il proletariato avrebbe spazzato via quella mentalità feudale fatta di privilegi per i potenti e i prepotenti, di miseria e di colpevole silenzio per tutti gli altri.
Bologna rappresentava per lui, come per tanti altri “fuori sede”, il sogno di riscatto intellettuale e politico dalla desolazione della Magna Grecia: la città laboratorio in cui ognuno può trovare il suo spazio, la sua dimensione, in cui ci si può inventare collettivamente un altro modo di vivere.
Se ne era andato sputando sui soldi di “papà” e adesso si smazza il culo in cantiere, come manovale o come imbianchino. Da buon calabrese è un duro, poco avvezzo all’autocommiserazione, silenzioso e caparbio. Se la mena pochissimo, sgobba e non si tira mai indietro, soprattutto quando c’è da fare baldoria o a pacche con la madama.
Una cosa in particolare lo fa diventare una bestia. Quell’area torbida composta da gente con la pilla che gioca a fare i compagni, per moda o per noia, e si esprime con espressioni del tipo “oggi non vengo in corteo perché tutta quella polizia mi manda in para ” oppure ”mi fai violenza col tuo tono aggressivo…” o peggio ancora “se non ti sei mai fatto una pera non puoi capire…”
La schietta coerenza che lo aveva indotto a mollare i privilegi familiari per vivere e lottare da proletario, gli dà forza e titolo per scagliarsi contro gli ipocriti e gli opportunisti che, spesso, sono tanto più estremisti quanto più hanno il culo parato da famiglie “influenti”, capaci, all’occorrenza, di togliere i rampolli dai guai. Tanto, di “veri” poveri disgraziati fatalmente predestinati al ruolo di capro espiatorio sono piene le piazze, le galere e i cimiteri.
– Li riconosci subito ‘sti stronzi — ripete spesso, durante le serate d’estate seduti sui gradini di S. Petronio, mentre le canne passano di mano in mano e il suono dei bonghi accompagna le chiacchere, le storie, i sogni e le paure che a migliaia vanno a congiungersi e a confondersi alle storie, ai sogni, alle paure depositati dai secoli sui muri della basilica o di palazzo Re Enzo.
– Si vestono stracciati ma con le scarpe da centomila lire e i maglioncini da mezzo milione, “comprati dalla mamma o dalla nonna” e costretti a metterli, dicono i poverini. Però non c’hanno mai una lira, perché sono troppo rivoluzionari per subire l’oppressione del lavoro salariato, ma sono sempre lì a scroccare a te che ti fai un mazzo tanto. e tentano pure di farti passare per stronzo se li mandi a cagare come si meritano. A dissodare campi senza neanche la zappa li manderei!
Poi comincia la sequela d’improperi, contumelie e propositi punitivi sempre più surreali, rinviati al giorno dell’immancabile vittoria finale, al primo sorgere del sol dell’avvenire.
Jack va a scaricare la rabbia in esubero, cioè quella che ancora gli rimane da spendere dopo assemblee, manifestazioni, risse eccetera nella palestra di pugilato dei tranvieri. E’ un buon super leggero: veloce, potente e grintosissimo. Non arretra mai, sul ring come nella strada.
Spesso, in piazza, si ferma con Rocco dopo gli allenamenti in palestra; lui pugilato, Rocco karate e passano qualche minuto a misurarsi, per gioco, per sfida, per sentirsi più forti e uniti nel contatto fisico, nel mischiarsi del sudore e dell’adrenalina che allerta tutti i sensi.
Poi si buttano sui gradini della basilica e bevono una birra insieme mentre commentano il caravanserraglio che brulica attorno. I frikkettoni che ondeggiano, i fighetti “travestiti” da compagni, il tizio con la faccia dipinta che suona il flauto, gli strusci, la tipa dall’aria aristocratica che gioca con i suoi splendidi Bobtails, due enormi batuffoli di pelo da cui spuntano tartufo nero e lingua rosa.
Nei cortei dello Jacquerie o durante le azioni antifasciste sono spesso fianco a fianco, insieme a Mauro, Tugu, Lele e ai tanti altri con i quali ci si capisce al volo, senza quasi bisogno di parlare: ognuno sa esattamente cosa fare, quando e come.
Dopo anni di militanza si sa con certezza chi sono i compagni che non si fanno di nebbia di fronte al pericolo e che si farebbero arrestare o massacrare piuttosto che lasciarti nella merda, in mano al nemico.
– Dài Jack, vieni con noi. Facciamo un giro nei dintorni per vedere la situazione. Intanto ti racconto.
Giunti in Largo Respighi trovano un vigile urbano, evidentemente zelante ma poco previdente, circondato da un gruppetto di ragazzotti arrivati dalle periferie, che gli si stringono intorno sempre più minacciosi. L’agente è spaventato, si vede, ma non accenna ad abbandonare il fare arrogante, tipico della scuola di partito targata Via Barberia.
Il vigile è armato e Rocco sa di dovere intervenire per evitare che la situazione degeneri, non perché gliene freghi qualcosa dell’incolumità di quel mezzo sbirro servo di Partito, ma per il suo personalissimo senso di giustizia. “Oggi devono pagare gli assassini di Francesco e i loro mandanti. Carabinieri e scudo crociato. Eppoi, se è giusto e politicamente gestibile praticare quegli obiettivi, con qualsiasi mezzo, e farne un patrimonio rivendicato da tutto il movimento, sarebbe un errore grave alzare lo scontro in maniera indiscriminata, coinvolgendo tutto e tutti. Il movimento si ritroverebbe ancora una volta isolato. Oggi no, perdio, la violenza assassina dello Stato è sotto gli occhi di tutti, niente deve sporcare di merda l’evidenza dei fatti”.
Con un paio di energiche spallate Mellin e suo fratello Toni si fanno largo, chiavi inglesi e spranghe ben in evidenza, sottocasco calato sul viso. Rocco e Jack, anch’essi mascherati e armati di 32 lunga il primo e di mezzo metro di tondino di ferro l’altro, si pongono tra il vigile e i ragazzi. Giovanni, il sardo compaesano e amico d’infanzia di Matteo Boe, estrae elegantemente un Pattàda di ventisei centimetri, manico escluso. Un attimo di tensione tra i due gruppi, poi la determinazione e la deterrenza dei mezzi prevale.
Mentre il gruppetto si allontana mugugnando Rocco si trova faccia a faccia col malcapitato gufo che nel frattempo, tentando di approfittare del momento di confusione, armeggia attorno alla fondina per estrarre l’arma. Un calcio nei coglioni gli fa cambiare idea. – Senti sbirro, questo non è posto per te, non c’è nessun traffico da controllare e gli stronzi in divisa oggi qui beccano male. Lo sai che i carabinieri hanno ammazzato un compagno? E lo sai il tuo partito da che parte sta?
– Ti hanno mandato a fare lo spione eh? – Jack freme mentre gli fa volare il berretto con una manata.
La tensione si fa pesa, il vigile si guarda attorno smarrito ma tenta di darsi un contegno, anzi, accenna una timida reazione. Una vocetta stile Farinelli esala dalle labbra tremanti: — Ragazzi state calmi e non fate stupidate…io sono dalla vostra parte…Non vi mettete nei guai.
Non doveva dirlo. Per salvare il culo non poteva sparare una palla tanto meschina e ipocrita.
Qualcuno scatta in avanti per colpire, viene trattenuto ma la tensione è ormai quasi incontrollabile. Rocco la butta lì, pensando che stavolta sta per spararla veramente grossa: — Vabbe’, senti, facciamola finita. Ci consegni la pistola e la ricetrasmittente e te ne vai affanculo con le tue gambe, oppure fai il fenomeno e ti massacriamo. Scegli.
Mentre pronuncia quelle parole gli sembra di stare dentro un film in cui i cattivi, avvezzi a soprusi e prepotenze, vessano vigliaccamente la vittima inerme.
L’idea della scena è surreale perché paradossalmente gli viene quasi da ridere nel sentire la sua stessa voce articolare quella frase, tanto scontata, tanto forzatamente da duro. Al tempo stesso sente il cuore battergli in gola dalla tensione, dalla paura mista a rabbia che cresce e cresce come un’onda anomala.
Doveroso attimo di esitazione. Lo sbirro li guarda tutti dritto nel passamontagna, uno per uno, poi tenta una replica, altrettanto doverosa da parte sua, che però s’infrange dopo le prime tre sillabe nell’impatto col cazzotto preventivo e persuasivo di Mellin. Così soprannominato per via della evidente eccessiva dose di omogeneizzati somministratigli nella prima infanzia dalla mamma. Oltre un metro e novanta per centotrenta chili e quasi niente ciccia; tutta roba soda e tostissima.
Lo sfortunato tutore dell’ordine comunale barcolla, si porta le mani alla bocca per fermare il sangue e l’incisivo che vogliono abbandonarlo, e in quel momento è in balìa dei fetenti aggressori. Toni lo blocca da dietro, Mellin l’afferra per la gola quasi sollevandolo da terra e Rocco gli sfila rapidamente Beretta e radio.
Il vigile è frastornato, ma anche molto impaurito. Vorrebbe reagire ma non è tanto idiota da provarci. Mentre i compagni si allontanano rapidamente verso Piazza Verdi farfuglia qualcosa tra il sangue che gli cola sulla divisa – …ma no! La pistola…non potete…
“Poveraccio” pensa Rocco mentre stringe il calcio della Beretta nella tasca del giaccone “quel povero imbecille adesso passa un bel guaio. Cazzi suoi, così impara a stare dalla parte degli infami.”
– Oh, ragazzi l’abbiamo fatta grossa… se non volevamo prestare il fianco alla vandea che si scatenerà sui giornali, abbiamo scazzato di brutto. Bah! Tanto peggio.
– Ma che cazzo te ne frega di quello che scriveranno. Tanto quelli ci fanno il culo anche se buttiamo una cicca per terra.
– Ha ragione lui. Che ci frega. Il gufo ha avuto quello che si meritava, e con i giornalisti l’unico rapporto possibile è l’azzoppamento.
Grasse risate di compiacimento della ciurma.
Be’, certo le crisi etiche, politiche e umanitarie che spesso attanagliano l’animo culturalmente ed esteticamente classicista di Rocco oggi hanno vita brevissima; un battito di ciglia.
Piazza Verdi è pervasa da una sorta di follia collettiva, totalmente anarchica. La mensa è stata letteralmente smontata: tavoli, sedie e banconi costituiscono la struttura portante delle barricate che chiudono gli accessi alla piazza. Anche da Lettere e da Magistero arriva gente che porta banchi, mobili, di tutto per erigere altre linee di barricate. Cassonetti e macchine di traverso ovviamente hanno costituito i primi blocchi.
Compagni riempono bottiglie in fila sotto il portico travasando la benzina da taniche portate avanti e indietro, svuotate e sostituite con altre piene appena arrivate. Una ragazzina del liceo rapida ed efficiente prepara le file di antivento sul nastro adesivo e le fissa sulle bocce, man mano che il tipo biondo e ispido, impegnatissimo con la tappatrice, gliele passa.
-…Ma che cazzo, allora siete proprio stronzi! Proprio qui dovete passarvi quella canna? C’è’ benzina dappertutto!
– Ehhh! Vabbe’, ma chi sei tu per dare ordini? Vuoi fare il soldatino? il poliziotto? Ma…
Lo smilzo emaciato, strafatto di vinazzo e pere, sembra non rendersi conto che potrebbe trovarsi in un mare di rogne in meno di un attimo.
– Senti frikkettone dei miei maroni, oggi non è cosa. Vattene affanculo subito da un’altra parte e portati dietro i tuoi compari, se no ti ci mando io a calci nei denti. — Il tono della voce, ma soprattutto lo sguardo di Lele, ladro/rapinatore per campare, cacciatore di nazi e spacciatori per scelta, rissaiolo per vocazione non lascia dubbi interpretativi anche al più sconvolto dei fricchettoni.
Un altro secondo o un altro “ma” e l’avrebbe azzannato alla giugulare.
Mestamente il trio gira i tacchi mugugnando sottovoce e va in cerca di qualche vittima meno coriacea a cui rompere i maroni.
Poco oltre un altro gruppo svuota in continuazione bidoni del rusco pieni di pietre, sampietrini e laterizi in genere, che altre alacri formicucce trasportano dai cantieri sparsi in giro.
Ma la cosa impressionante in tutto questo caotico andirivieni è il silenzio. Greve e spesso si può quasi vedere, toccare, colpire, sperando magari di strappargli un urlo capace di rompere se stesso. Un silenzio inquietante, minaccioso, pulsante di un’energia immensa pronta a deflagrare.
Nessuno quasi parla ma tutti sanno cosa fare. E lo fanno. Anche chi fino a ieri si masturbava con le sfumature dialettiche, le critiche costruttive e i sottili distinguo sulle fasi e sull’uso della forza, care ad alcuni partitini di Democrazia Proletaria, oggi tace e produce strumenti offensivi. Oggi tutti sono compagni, probabilmente domani ricominceranno i “se” e i “ma”, i culi indietro e le scomuniche.
La testa ronza e manca l’aria. Un attimo di pausa, in disparte da tutto e da tutti, per stoppare un istante il mondo che sembra girare vorticosamente. Rocco sente un bisogno impellente, quasi materiale, di rallentare il corso dei pensieri e di appartarsi con se stesso. Quasi senza rendersene conto si ritrova seduto sopra un muretto dei giardini di cemento in Via del Guasto. Ha bisogno di fermare tutto per qualche minuto e tentare di riflettere. Si sente come un turista in una città sconosciuta, che cerca sulla mappa la freccia con scritto “you are here”. Ripercorre nella tasca i contorni della pistola. Un lieve brivido lo attraversa, al contatto di quel pezzo di metallo vile capace di spezzare il tempo che separa la vita dalla morte.