di Wu Ming 4
[Lecture tenuta (su invito dell’Onda) alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale di Milano il 19 novembre 2008 ( ascolta l’audio), e presso il Centre de Cultura Contemporanea de Barcelona, il 6 febbraio 2009 nell’ambito del festival “The Influencers”.]
991. Qui fu saccheggiata Ipswich, e subito dopo fu ucciso l’ealdorman Byrhtnoth a Maldon. E in quell’anno fu deciso di dare per la prima volta un tributo ai danesi per il grande terrore che facevano lungo la costa. La prima volta fu di diecimila libbre.
Cronaca Anglosassone 979-1020
1. Preludio
Il 10 agosto 991 d.C., sulla sponda meridionale del fiume Pante, presso Maldon, Essex, Inghilterra, un uomo imponente contempla lo stretto braccio d’acqua davanti a sé. E’ il conte inglese Byrhtnoth che, schierato alla testa di un migliaio di uomini, osserva il contingente d’invasione vichingo attestato sull’isola di Northey, proprio in mezzo all’estuario del fiume. I vichinghi sono guidati da Olaf Tryggvason, determinato a saccheggiare l’Inghilterra sud-orientale o a imporre un riscatto umiliante e oneroso a Byrhtnoth e al re inglese Aethelred, di cui il conte è vassallo.
Anche da quella distanza Byrhtnoth può rendersi conto del rapporto di forze a lui sfavorevole, almeno tre a uno. Nonostante questo si trova in una posizione di netto vantaggio tattico, che può consentirgli di inchiodare i nemici in mezzo al guado. L’isola di Northey infatti è collegata alla terraferma solo da una sottile striscia di terra, che per due ore al giorno viene coperta dall’alta marea. Una schiera determinata di armati può tenere lo stretto passaggio e resistere con successo anche a forze molto superiori. Come gli Spartani alle Termopili.
Soltanto il riflusso della marea quindi separa i due eserciti da quella che passerà alla storia come la Battaglia di Maldon. L’episodio ispirerà l’omonimo poema anglosassone, composto verosimilmente pochi decenni dopo i fatti da un testimone oculare o da qualcuno che ebbe accesso a una fonte diretta. Il testo ci è giunto privo di inizio e di fine a causa della perdita del foglio esterno che racchiudeva le pagine. Di conseguenza per noi il racconto comincia in medias res, quando Byrhtnoth dà ordine di allontanare i cavalli (tutti tranne il suo, ricordiamoci questo dettaglio), affinché nessuno possa cedere alla tentazione di scappare, e schiera i suoi uomini per lo scontro, dichiarando così l’intenzione di resistere.
2. La battaglia
Ecco dunque il conte dell’Essex davanti allo stretto, in attesa che la marea si ritiri e che l’avversario faccia la sua mossa. Tuttavia la quiete apparente prima della tempesta sta per essere turbata da un evento inaspettato. Dalla sponda opposta infatti, giunge la voce di un araldo che annuncia un’offerta da parte del pirata Tryggvason. Il capo dei vichinghi si dichiara disposto a risalire sulle sue navi e andarsene subito in cambio di un riscatto in oro.
La sdegnosa risposta di Byrhtnoth non si fa attendere. Il conte guarda sprezzante il messaggero e afferma che il suo onore e quello dei suoi uomini non è in vendita, mostra alta la spada e dice che l’unico riscatto che otterranno da lui non sarà in oro ma in ferro tagliente.
I vichinghi provano dunque ad avanzare lungo il ponte naturale tra le due rive, ma a Byrhtnoth basta schierare sullo stretto passaggio i suoi tre più impavidi guerrieri per bloccare i nemici, mentre verosimilmente gli altri inglesi li bersagliano con le frecce dalla sponda.
I vichinghi devono ripiegare.
Olaf Tryggvason però è un pirata scaltro, non per niente diventerà re di Norvegia e uno dei sovrani più importanti della storia scandinava [1]. E ha un asso nella manica.
Recita il poema:
Quando s’accorsero e chiaro videro
d’aver trovato aspri guardiani al guado,
ricorsero all’astuzia gli stranieri ostili,
chiesero di poter avere passaggio,
traversare il guado, condurre la truppa.
(84-88)
Sono versi piuttosto oscuri. Innanzi tutto ci troviamo davanti a una dinamica invertita: sarebbe più logico che prima si formulasse la richiesta di poter guadare e solo dopo avere ottenuto un rifiuto si tentasse l’attacco. Invece accade il contrario. Frustrato l’assalto, i vichinghi formulano la richiesta di essere lasciati passare.
I versi ci dicono che si tratta di una “astuzia”. Ma in cosa consista l’astuzia di Tryggvason il poeta lo dà per implicito. Per la verità i filologi non hanno trovato un vero e proprio accordo sull’uso e l’accezione in questo contesto del termine anglosassone lytegian. Alcuni studiosi sostengono infatti che la parola potrebbe piuttosto essere resa con “diverbio”, “dialogo”, e che lytegian avrebbe la stessa radice del verbo latino litigare. Altri invece propendono appunto per “astuzia”, “inganno” [2]. In effetti, al di là del dibattito filologico, concettualmente una cosa non esclude l’altra, poiché proprio di sotterfugio e sfida verbale potrebbe trattarsi.
E’ assai probabile che il vichingo Tryggvason sappia con chi ha a che fare e stia mettendo in atto una provocazione psicologica molto sottile e che in questo consista la sua astuta trappola. La fama di Byrhtnoth è ben nota, il suo coraggio e il suo valore sono indiscussi e indiscutibili. Il conte è ormai in là con gli anni, ancora valente ma prossimo al viale del tramonto, non vorrà mai macchiare il proprio nome ritirandosi da quella che facilmente sarà l’ultima battaglia della sua onorata carriera.
E’ precisamente su questa fedeltà alla fama e all’ideale cavalleresco che conta Tryggvason mentre gli chiede di lasciarlo passare. Mentre cioè lo sfida a essere uomo d’onore fino in fondo, sportivamente eroico, e a rinunciare al vantaggio del terreno. Anche Tryggvason, come Byrthnoth, nelle lunghe sere d’inverno, deve aver sentito recitare dai menestrelli il poema che narra le gesta dell’eroe svedese Beowulf (VIII sec. d.C.), il modello eroico per tutti i nobili guerrieri sulle sponde del Mare del Nord.
Beowulf è l’eroe che salva la reggia di Danimarca da un orco sanguinario e da sua madre, un terribile mostro marino. E quando deve affrontare l’orribile creatura lo fa a mani nude, spogliandosi delle armi, per potersi confrontare con essa alla pari (versi 434-440). Ed è lo stesso eroe che nella seconda parte del poema, diventato re e ormai in là con gli anni, affronta un enorme drago sputafuoco, in piena coerenza con i fasti di gioventù, cioè da solo, uno contro uno. Rischierebbe addirittura di perdere lo scontro, se non fosse per l’intervento non richiesto di un vassallo fedele, Winglaf, che lo aiuta a infliggere il colpo mortale. Alla fine Beowulf muore insieme al suo avversario e viene compianto come il più grande degli eroi.
Il pirata Tryggvason sta scommettendo sulla forza della letteratura, perché conosce il potere ammaliatore dell’epica, e sta per incastrare il vecchio Byrhtnoth, offrendogli la possibilità di indossare un manto di gloria imperitura: niente meno che i panni di Beowulf. Gli sta offrendo l’eternità della poesia.
Come Beowulf contro il drago. E’ questo che pensa Byrhtnoth mentre accetta la richiesta del suo avversario. Già se lo immagina cosa scriveranno i poeti di questo giorno di gloria e di morte, quando pochi inglesi cristiani affrontarono molti scandinavi pagani rinunciando al proprio sicuro vantaggio e dimostrando il proprio indomito eroismo.
Così Byrhtnoth ordina ai suoi armati di indietreggiare dalla sponda per liberare il guado.
In breve i due eserciti si schierano sulla piana tra il fiume e il bosco. Le urla di guerra precedono il lancio di frecce e lance, poi la corsa folle, l’impatto violentissimo di spade e asce su ossa e scudi.
Non può trattarsi d’altro che di una carneficina dall’esito segnato.
Byrhtnoth combatte alla testa dei suoi uomini finché cade colpito da una lancia e il cadavere viene mutilato dai nemici. La sua morte getta nel panico una parte dell’armata inglese. Il “vile” Godric figlio di Odda salta sul cavallo del conte e si dà alla fuga. Molti inglesi credono che il loro capo si stia ritirando, perdono coraggio e si sbandano verso il bosco. I fedelissimi del conte, invece, si incitano a vicenda a mantenere il patto di lealtà al signore e a seguirne l’esempio, condividendone l’estremo destino.
Questo slancio eroico viene esposto nei celeberrimi versi 312-313, sul finale del testo superstite. Si tratta della più limpida formulazione poetica della cosiddetta “teoria del coraggio”. Byrhtnoth è già caduto trafitto dalla lancia, l’ordine di battaglia è spezzato, la sorte degli inglesi scontata; uno dei servitori più anziani incita i compagni a seguire l’esempio del capo e a morire nel gesto estremo di vendetta:
L’animo deve esser più risoluto, il cuore più ardito,
il coraggio maggiore, quanto minore si fa la nostra forza.
Il concetto non potrebbe essere espresso meglio. L’eroismo è inversamente proporzionale alla superiorità numerica e alle possibilità di successo.
I versi immediatamente seguenti (314-319) esaltano proprio l’ideale di fedeltà e servizio al signore fino alla morte:
Qui giace trucidato il nostro capo,
il potente nella polvere. Sempre avrà motivo di dolersi
chi ora intenda ritrarsi da questo gioco di guerra.
Io sono vecchio d’anni; di qui non voglio muovermi,
ma io al fianco del mio signore,
accanto al tanto amato intendo giacere.
L’ideale eroico germanico considera un’onta sopravvivere al proprio capo sul campo di battaglia [3].Un precetto a cui, settantacinque anni dopo, si atterranno anche gli housecarls di re Harold, durante la battaglia di Hastings, i quali, invece di fuggire insieme al resto dell’armata sassone, cadranno intorno al cadavere del loro signore sotto la carica dei cavalieri normanni.
Così, nella piana di Maldon, uno dopo l’altro gli uomini di Byrhtnoth si gettano nella mischia, trovando la morte con le armi in pugno. Ed è su questo assalto eroico che per noi si conclude il poema, monco del finale.
Non è difficile immaginare l’ultima luce del giorno che lambisce lo scenario silenzioso di una distesa di cadaveri ormai indistinguibili, tra i quali saltellano eccitati i corvi. Un’immagine da tenere a mente questa, perché è la in mezzo che ci spingeremo, dopo il tramonto. Prima però dobbiamo seguire un manipolo di sopravvissuti che si è spinto fino ai margini del bosco.
3. L’imboscata
A raccontarci di loro è niente meno che Jorge Luis Borges, in un breve frammento del 1976 che si intitola 991 A.D. Si tratta di uno spin-off del poema, ovvero di un possibile finale che attraverso una prosa moderna colma la lacuna dei versi mancanti.
Borges immagina una dozzina di combattenti inglesi che si sono sottratti alla battaglia e hanno trovato scampo nel bosco vicino. Li guida il vecchio Aidan insieme ai suoi figli. Non sono nobili, ma contadini prestati alla guerra. Probabilmente Aidan è un fittavolo del conte Byrhtnoth, la sua casa è nelle vicinanze, perché racconta di quando quella mattina è stato svegliato dalla campana e ha visto le vele vichinghe in avvicinamento. Poi passa a raccontare dello scontro campale, come se solo narrandolo agli altri riuscisse a credere a ciò che ha visto e fatto. Quando il racconto arriva al punto in cui Byrhtnoth cede il passo ai nemici, Aidan trova una motivazione coerente per il gesto del suo signore:
Così operò, io penso, perché desiderava ardentemente la battaglia e per impaurire i pagani con la fede che aveva riposto nel nostro valore.
Secondo Aidan, quella del conte è stata una mossa ardita di guerra psicologica: voleva dimostrare a Tryggvason e alla sua schiera che gli inglesi non avevano alcun timore di loro, nonostante fossero in svantaggio numerico, e in questo modo metterli in soggezione. Voleva impressionarli, intimorirli con il proprio coraggio e con la propria fede, ovviamente.
Narrando questo episodio Aidan intende convincere gli altri a seguirlo in ciò che sta per proporre. Dice infatti di averli condotti lì per riprendere fiato e perché ormai la battaglia era perduta. Tuttavia – come abbiamo già visto accadere nel racconto poetico – ribadisce che il debito di fedeltà con il proprio signore impone di vendicarlo a costo della vita stessa. Quindi annuncia che precederanno i vichinghi al villaggio di Maldon sfruttando una scorciatoia e lì tenderanno loro un’imboscata con gli archi da ambo i lati del sentiero. Ne abbatteranno quanti più possibile, finché non cadranno loro stessi, sopraffatti dal numero dei nemici.
Tuttavia uno di loro dovrà sottrarsi alla missione suicida.
Aidan designa uno dei suoi figli, Werferth: il suo compito sarà quello di scrivere il romanzo della battaglia, di tramandare ai posteri l’eroismo di chi è caduto quel giorno. Aidan ci rivela così il vero motivo per cui ha differito la morte e ha condotto fuori dalla mischia i suoi uomini: guadagnare lo spazio della narrazione, della testimonianza.
Werferth lo scongiura di portarlo con sé, perché non vuole passare per vigliacco, ma Aidan è irremovibile: dovrà trasformarsi da guerriero in poeta.
Il vecchio Aidan, come Tryggvason, sa che le parole, i racconti, servono a fare cose. Aidan-Borges sa che la narrazione è una prosecuzione della lotta con altri mezzi, e la letteratura un’arte marziale della massima importanza. La letteratura storica, di conseguenza, è un campo di battaglia, speculare alla piana dove si scontrano gli eserciti. In quest’ottica Maldon diventa quasi un luogo simbolico, un paradigma di come lo scontro sul campo si trasforma in scontro di narrazioni, di parole. Le parole diventano frecce, lance, scudi. E perfino leve, argani capaci di scardinare intere visioni del mondo, come vedremo.
E’ di questo che dovrà tenere conto il giovane Werferth, mentre vede partire gli altri e si accinge a diventare l’autore del poema in questione. Un’immagine da western crepuscolare chiude il frammento di Borges, e già annuncia l’alba della poesia:
Werferth li vide perdersi nella penombra del giorno e del fogliame, ma le sue labbra stavano già modulando un verso.
4. La parola magica
La sera cala sulla piana di Maldon e i sopravvissuti, poeti designati, cercano di decifrare i versi che salgono loro alle labbra. Entrano in campo le parole. Non più quelle del duello verbale tra Byrhtnoth e Tryggvason, ma quelle che dovranno tramandare e rendere eterni gli eventi. Ebbene, quali parole? Con quali parole l’anonimo poeta racconterà il gesto eroico di Byrhtnoth?
Sono i versi 89-90 quelli che motivano la decisione del conte di lasciar guadare i vichinghi e contengono la chiave segreta dell’intero poema:
Il conte concesse allora for his ofermode
troppo terreno a quella gente ostile.
Per molto tempo si è ritenuto di rendere la parola antico-inglese ofermode con “temerarietà”, “audacia”, attributi eroici del tutto compatibili con la versione dei fatti fornita dal vecchio Aidan [4].
Tuttavia, nel 1953 un filologo dell’università di Oxford ha proposto una traduzione assai diversa, sostenendo che il termine ofermode non avrebbe alcuna accezione positiva, tant’è che nel poema il termine ricorre soltanto due volte, una riferita a Byrhtnoth e l’altra a Lucifero. I poeti non scelgono mai a caso le parole, tanto meno i personaggi a cui associarle.
Il termine andrebbe quindi tradotto piuttosto con “orgoglio” (pride) e la traduzione suonerebbe così:
Il conte concesse allora per orgoglio
troppo terreno a quella gente ostile.
Il filologo in questione si chiamava John Ronald Reuel Tolkien e restituendo una singola parola alla sfumatura di significato originaria, ha cambiato segno all’intero poema [5].
“Questo elemento d’orgoglio, sotto forma di aspirazione a onore e gloria, in vita e dopo la morte, tende a dilatarsi, a divenire un movente fondamentale, inducendo chi lo fa proprio, al di là della mera necessità eroica, all’eccesso cavalleresco, indubbiamente tale, anche se approvato dall’opinione coeva, qualora non solo trascenda la necessità e il dovere, ma con essi addirittura interferisca”. (JRR Tolkien, “Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm”, in Albero e Foglia, p.221).
In sostanza Tolkien suggerisce che l’anonimo poeta della Battaglia di Maldon abbia voluto stigmatizzare il gesto di Byrhtnoth, che è stato causa di rovina per tutti i suoi guerrieri e per il Paese [6]. Infatti dovere di un eroe, di un capo, non è solo quello di essere onorevole, ma anche di difendere il popolo. Ed è proprio ciò che Byrhtnoth non ha fatto. Non ha difeso la sua gente, non ha difeso l’Essex, non ha difeso nemmeno il proprio re, ma soltanto il proprio onore, a esso ha sacrificato tutto e tutti. L’eccesso cavalleresco ha reso l’eroe inutile e nocivo.
Secondo Tolkien il medesimo paradosso era già contenuto nel Beowulf, che sotto questa nuova luce (a suo avviso la luce originaria) si rivela niente meno che il poema degli eccessi di un capo.
Qual è infatti l’ultimo epiteto rivolto a Beowulf nel panegirico finale dell’eroe? Lof-geornost: “il più smanioso di gloria”, “innamorato della gloria”. Quella gloria personale alla quale per almeno due volte Beowulf è stato diposto a sacrificare tutto e tutti. Lof-geornost è l’ultima parola del poema, quella che il lettore porta con sé quando cala il sipario. L’anonimo poeta non l’ha certo scelta a caso.
E’ precisamente ciò che accade con il termine ofermode. Così, ristabilendo il significato di un solo termine l’intero componimento muta senso e ci tramanda qualcosa di completamente diverso. Quello che all’apparenza era un poema-manifesto dell’eroismo nordico diventa invece il racconto della sua nemesi e della sua crisi.
5. La testa perduta
Tolkien era talmente convinto di questo che non si è limitato a proporre una lettura diversa e inconsueta del tema poetico della Battaglia di Maldon, ma ha prodotto anche un celebre “finale” del poema stesso: The Homecoming of Beorhtnoth, Beorhthelm’s Son (1953).
La sua ipotetica conclusione si svolge durante la notte che segue la battaglia, là dove avevamo interrotto il nostro racconto, dopo la rotta inglese e dopo l’imboscata suicida di Aidan e dei suoi uomini. Ne sono protagonisti due messi dell’abate di Ely, incaricati di cercare tra i cadaveri le spoglie dell’eroe Byrhtnoth, per potergli dare sepoltura cristiana. L’idea di Tolkien prende spunto dal fatto che storicamente la salma del conte venne recuperata e sepolta nell’abbazia di Ely, ma priva della testa.
I due personaggi inventati da Tolkien sono una coppia efficacissima, finalizzata alla sua interpretazione del poema. Tìdwald detto Tìda, è un vecchio servitore, che nella vita ha conosciuto i campi di battaglia, cinico e ferocemente sarcastico sulla morte e sul destino degli eroi. Torhthelm detto Totta invece è il giovane figlio di un menestrello di corte, un poeta facilmente impressionabile, pieno di venerazione per i guerrieri indotta dalla letteratura. Mentre Totta riconosce a uno a uno i caduti della giornata campale, li esalta e quasi rimpiange di non essersi trovato con loro, il vecchio Tìda lo sfotte e lo riporta alla banale realtà dei fatti. Il dialogo tra i due è tragicomico, mentre si aggirano tra i cadaveri, in piena notte, e trasportano al carro la salma pesantissima dell’eroe decapitato, sudando sette camicie. E’ proprio a Tìda che l’autore assegna la critica semplice, popolare, dell’ideologia eroica:
[Totta:] Mi riesce strano
come han passato il guado o si son fatti
strada senza combattere aspramente.
Ma ci son pochi segni di battaglia.
Speravo in un bel mucchio di pagani
morti, ma non ne vedo.
[Tìda:] O troppo pochi.
Ahimé, la colpa fu del signor nostro,
o così almeno si diceva a Maldon.
Troppo orgoglioso, troppo generoso.
L’orgoglio l’ha ingannato, e il suo dominio
più non esiste, lode al suo valore!
Che i Normanni guadassero ha lasciato,
tant’era vago di fornire materia ai menestrelli.
Inutilmente nobile, il suo errore.
Archi ben tesi all’imbocco del ponte:
con pochi i molti avrebbe volto in fuga!
Be’, ha sfidato la sorte ed è caduto.
L’ansia di entrare nella leggenda e nella letteratura è ciò che ha sospinto Byrhtnoth. Una strenua coerenza con l’ideale eroico, che l’ha portato a ignorare ogni convenienza e ogni salvaguardia di sé, dei propri fedeli, della propria terra, perché l’eroe deve essere all’altezza del proprio onore, della propria icona, o perire trascinando con sé tutto ciò a cui è legato.
L’ideologia eroica nega la realtà, ma non la rende meno dura. Come duro è il colpo che rimedia Totta mentre azzarda i primi aulici versi e un sobbalzo del carro gli fa sbattere la testa. Il vecchio Tida ne approfitta per dispensare la sua amara morale. E cioè che all’olocausto segue sempre un’alba, che non è solo quella della poesia, perché la vita e la storia non finiscono, i cocci e le rovine toccano in sorte a chi rimane:
[Tìda:] Già, uno scossone non fa bene ai sogni,
ed è freddo a svegliarsi. […]
Verrà mattino, e sarà come tanti:
con più fatica, ché il paese è a pezzi;
lavoro e guerra, antichi come il mondo.
E’ questa chiave critica che Tolkien sottolinea con il suo finale posticcio. Non a caso Tolkien mette in scena l’eroe come un cadavere pesantissimo (perché l’eroe è sempre gigantesco, immane), una mole ingombrante, che i due sventurati becchini devono trascinare via dal campo di battaglia, spaccandosi la schiena. La testa è perduta, divenuta osceno trofeo dei vichinghi o sprofondata nel Pante, a ingrassare i pesci, forse trascinata fino al mare, ripescata chiassadove. Resta il suo corpo enorme, snaturato, privo di capo, quindi di volto, divenuto puro peso, fardello, la cui unica comodità potrebbe essere quella di farsi usare come cuscino per il riposo dei superstiti. Ma no, sarebbe sacrilegio, Totta non si azzarda a farlo.
Eppure quando dovrà mettersi a scrivere il poema della battaglia lo farà forse con uno sguardo meno incantato, recependo il buon senso del vecchio Tida.
Ovviamente Tolkien tiene a precisare che da questa critica all’ideologia eroica il poeta della Battaglia di Maldon non si spingerà mai fino a mettere in discussione il valore dell’obbedienza al proprio signore. Su di essa infatti si fonda l’intero mondo medievale. Anzi, nel poema la buona fede dei guerrieri che decidono di seguire la sorte del capo non è mai criticata, ma anzi, esaltata. Del resto nessuno più di Tolkien poteva cogliere questa articolazione del discorso poetico. Tolkien aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale e aveva visto all’opera la retorica dell’eroismo guerriero sui milioni di fanti mandati al macello come bestie. Con il poeta di Maldon condivideva senz’altro l’idea di non scaricare sui sottoposti l’ottusa responsabilità dei vertici militari.
Tuttavia, se dovessimo trarre le estreme conseguenze, implicite nell’atto d’accusa contenuto nei versi 89-90 del poema, allora bisognerebbe dedurre che in certi casi la buona fede, per quanto incolpevole perché iscritta in un determinato sistema di valori, è però senz’altro mal riposta. Quindi mal spesa. E’ stato così per i fanti inglesi sulla Somme come per i contadini-guerrieri a Maldon.
Ma alludere al fatto che quella buona fede è mal spesa, non significa proprio cogliere la contraddizione e criticare i modelli del mondo feudale? Non significa forse individuare un punto di fuga dal campo di battaglia?
Eccoci arrivati al dunque. Perché c’è ancora qualcuno di cui abbiamo perso le tracce al calare del sole.
Ricordate il traditore Godric, che era saltato in groppa al destriero del suo signore e se l’era data a gambe, scatenando il panico nello schieramento inglese?
Il caso vuole che il poema mutilato si interrompa proprio col suo nome. Mentre canta le lodi di un omonimo guerriero che cade con le armi in pugno, il poeta tiene a precisare che:
Non era il Godric che era fuggito dalla guerra…
(325)
Che ne è quindi del vile Godric, che ha barattato il suo onore per un cavallo?
6. I rinnegati di Maldon
Per immaginarlo, per scrivere l’ulteriore finale de La Battaglia di Maldon, dobbiamo condividere con i giganti della letteratura chiamati in causa la convinzione che le narrazioni ci appartengono almeno quanto noi apparteniamo ad esse. Le plasmiamo, interagiamo con esse, allo stesso modo in cui interagiamo con il mondo che ci circonda, consapevoli che per cambiarlo abbiamo innanzi tutto bisogno di raccontarlo diversamente.
Il poema ci dice che i fuggiaschi
si ritrassero dalla battaglia e cercarono il bosco.
(193)
Dunque è nel fitto della macchia che dobbiamo andare a cercarli. Non ai suoi margini, dove si erano fermati Aidan e gli altri, a riprendere fiato e guadagnare il margine temporale della narrazione; molto più in profondità, dove i rami si fanno fitti e ci si può perfino perdere. Certamente Godric ha dovuto abbandonare la cavalcatura e proseguire a piedi, e certamente non è solo. Innanzi tutto con lui ci sono i suoi due fratelli, Godwig e Godwine, ma c’è anche una massa di contadini-guerrieri che non hanno avuto il coraggio di andare incontro a morte certa per la maggior gloria del proprio signore. Quanti possono essere? Cento, duecento? Non pochi, probabilmente. Tutti insieme hanno “cercato il bosco” e nella loro fuga disordinata l’hanno raggiunto.
Nel mondo medievale questo significa una cosa ben precisa. Prima ancora che un luogo fisico, la foresta è un concetto. E’ ciò che sta foris, fuori, oltre il dato, oltre la civiltà, oltre l’istituzione e l’ordine del discorso costituito. Ed è un luogo proibito, dove si spingono solo i fuggiaschi, appunto, i banditi, cioè coloro che sono stati messi al bando dal consesso civile.
Nella foresta si rifugiano anche coloro che rifiutano di sottomettersi al nuovo ordine imposto con la forza, l’ordine degli invasori. Secondo Ernst Jünger “il passaggio al bosco è un atto di libertà nella catastrofe” ed è il momento generativo della figura archetipica del Ribelle.
Proprio nella storia inglese è frequente incontrare episodi di resistenza boschiva alle ondate d’invasione: basta pensare a Hereward l’Attento, a Fulk Fitz Warin, a Eustace il Monaco, gli ispiratori storici della leggenda di Robin Hood come ci è stata tramandata in epoca moderna.
Infine la foresta è anche il regno del soprannaturale, la dimora delle fate, dei folletti, e delle creature magiche. E’ l’aldilà, il mondo rovesciato, dove sempre vanno a finire gli eroi per compiere imprese e per incontrare il proprio alter ego, la propria metà oscura. Galvano, Tristano, Lancillotto, via via fino a Orlando, impazziscono dentro un bosco, ovvero tornano selvaggi, si trasformano nella propria antitesi, affrontano i fantasmi, per poi uscire dalla foresta rinati e rafforzati.
Non ci sono dubbi che i fuggiaschi di Maldon penetrati nel cuore della foresta chiamano su di sé tutte queste figure. Hanno tradito il dovere di fedeltà al signore, hanno trasgredito l’ordine dato, quindi la loro stessa collocazione sociale, sono uomini selvatici adesso, banditi.
Immaginiamoceli allora, stremati e ansimanti, mentre si raccolgono in una stretta radura, per ascoltare le parole di Godric figlio di Odda.
Godwig, Godwine, fratelli, e tutti voi, ascoltate. Ora che nessuno più ci insegue e il pericolo è scampato, io leggo la vergogna sui vostri volti. E’ l’onta di chi ha gettato alle spalle il peso delle armi e delle corazze, dei moribondi e dei morti, per aver salva la vita. La legge dell’onore stabilisce la colpa nel vostro cuore. Da oggi e per sempre voi sarete i rinnegati di Maldon, giacché la sconfitta rende grandi gli eroi, sopravvivere è per i vili.
Per voi io non ho che una domanda. Ora che gli eroi hanno saputo morire da eroi e dopo che le loro spoglie saranno state sepolte nelle abbazie con tutti gli onori, affinché guadagnino il paradiso, chi difenderà il paese dall’orda nemica? Chi proteggerà le vostre case, la vostra gente, ora che il conte e tutti i nobili sono caduti?
E’ ancora il cuore a suggerirvi la risposta: nessun altro che voi stessi. Voi che avete tradito la sorte segnata. Voi che avete abbandonato il terreno scelto dal nemico. Voi disertori di una battaglia persa. Voi che oggi, come me, fuggite, e nella fuga costruite nuove armi. Archi e frecce dai rami della foresta. Verdi cappucci dal fogliame, per scomparire come gli uccelli. Sorpresa e astuzia a compensare il numero, quando porteremo l’attacco. Rinsaldate gli animi, uomini dell’Essex, ritrovate il coraggio, perché il momento verrà presto. Allora saprete d’esser vissuti degnamente e non morti invano.
Oh tu che conosci le parole e i fatti, fa che un giorno, quando di questa viltà non sarà rimasta che l’ombra, si possa cantarla per ciò che è stata: intelligenza, speranza, per proseguire la battaglia.
NOTE
1.Olaf Tryggvason (963-1000 d.C.), nella prima metà degli anni Novanta del X secolo prese parte a tutte le più importanti incursioni vichinghe contro le isole britanniche e il nord della Francia. Al ritorno in Norvegia, nel 995, si insinuò nelle lotte intestine per la corona e riuscì ad ottenerla. Già convertitosi al cristianesimo, una volta re adottò una politica di cristianizzazione forzata. Morì in un’imboscata navale nel Mar Baltico.
2. Cfr. nota al verso 86, in Giuseppe Brunetti, La Battaglia di Maldon – eroi e traditori nell’Inghilterra vichinga, Carocci, 2003 (edizione critica italiana del poema).
3. Cfr. Tacito, Germania, cap. XIV: “Iam vero infame in omnem vitam ac probrosum superstitem principi suo ex acie recessisse. Illum defendere, tueri, sua quoque fortia facta gloriae eius adsignare praecipuum sacramentum est. Principes pro victoria pugnant, comites pro principe.”
4. L’imprinting era quello della celebre traduzione in prosa di W.P. Ker, del 1887, dove ofermode veniva tradotto con “overboldness”.
5. In realtà Tolkien suggeriva una traduzione ancora più forte: “overmastering pride”.
6. Dopo la sconfitta di Maldon i vichinghi dilagarono nell’entroterra come non avevano mai osato fare fino ad allora, imponendo un oneroso tributo a re Aethelred. La vittoria campale di Maldon rappresentò un salto di qualità rispetto alle incursioni precedenti e aprì la strada alle invasioni che in seguito sarebbero culminate con la nascita dei regni danesi nell’Inghilterra nord-orientale.
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