di Saverio Fattori
Tutti i capitoli di “Cattedrale”
Oggi ho preso per il collo la facilitatrice della mia linea. Sarà che non mi dà mai il cambio per andare in bagno e quasi arrivo alla pausa comune senza avere orinato. Sarà che queste dementi scaricano tutti i problemi in basso nella scala gerarchica.
Non ha mai fatto presente ai superiori che fatica a dare tutti i cambi in tempo utile.
Non è pertanto strano che le masse più che con il potere e i suoi apparati, giochino la vera partita all’interno dei propri mondi, scrive Emilio Quadrelli.
In Andare ai resti si occupa di comportamenti criminali, in particolare delle dinamiche che si sviluppano in carcere. Non è un caso che abbia eletto questo libro come Sacro Testo Guida. Ho conosciuto Quadrelli a Bologna una sera d’estate, aveva presentato un testo sulla Rote Armee Fraktion. Poi fuori dalla libreria un’ amica comune ci aveva presentato. Con Quadrelli avevo parlato solo di pesistica e alzate di potenza, l’unica cosa davvero in comune. Lui sembrava felice di uscire dalle analisi della lotta armata anni Settanta e dall’antropologia socio politica, era rilassante parlare di gare e programmi di allenamento, chilogrammi sollevati e piazzamenti in gare ufficiali. Era una primavera lontana, allora avevo una vita sociale e amici cari.
Rimane il fatto che oggi avrei staccato la testa alla facilitatrice. Sarà che la sua parte di lavoro la esegue facendo pochi giri al “supermarket”. Accumula una montagna di scatole piene sul carretto e io devo smistare il materiale in modo disordinato. Sarà che dovrebbero lavorare in quattro e invece lei si ficca in postazione e tira il gruppo così che il ventre della linea diventa una voragine, un mostro ingordo che devo sfamare. Lavora come una pazza, fuori dallo standard work. Quando va in postazione a “tirare”, dice che “aiuta” le altre operaie. Chi sta aiutando? Si tratta di intendersi sui termini. Sulla lingua italiana. Il solito crimine aziendale, la solita bestemmia, il delitto senza movente. Non agevola un amaro cazzo alle altre operaie, lavorano in cinque invece che in quattro ed escono numeri altissimi di gruppi prodotti. Senza ragione. Il mercato dell’auto si sta sgretolando, a breve tutta questa tarantella sarà un ricordo, le alte performance si disveleranno nella loro inutilità folle, questa velocità anticipa la nostra fine, magari di poche ore.
Io incasso, anzi mi comporto correttamente, le agevolo il lavoro tagliando le scatole vuote, mi do da fare. Ho deglutito due giorni poi ho perso la testa e le sono saltato al collo. Divento subito rosso e la voce mi si piega. Devo sembrare una checca. Saranno le due settimane di straordinario, ma sono molto teso. Sarà che ho scaricato le batterie dell’mp3 e che l’ultima bianca mi pare troppo leggera. Sarà che la tipa lavora male, ma non perde occasione di riprendermi per ogni scempiaggine, per ogni misero dettaglio fuori dal suo schema mentale da scimmia impazzita. Mi ha detto che ho reagito in modo sproporzionato perché avevo problemi personali. La questione nemmeno si pone. Io non ho problemi personali, perché non ho alcuna vita personale, almeno nel senso cui lei voleva sottintendere. Non ho più una vita esterna. Non ho mogli, non ho figli, non ho animali domestici, non ho familiari, non dipendo da nessuno, nessuno dipende da me, non ho piante da innaffiare, non ho affetti, solo qualche pulsione che riesco a stemperare e reprimere senza problemi. Ho interrotto i flussi di informazione. Ma non ho ancora raggiunto la perfezione algida, il congedo dall’umano non è completo, ma nulla è omaggio, gli esercizi continuano, il lavoro sulla mia persona procede. Sono fermo, inerte, cerco di recidere ogni contatto emotivo, mi ergo a giudice supremo. Sto valutando tutti i vostri capi di imputazione, le aggravanti, le attenuanti, alibi e grado di premeditazione. Capacità di intendere e di volere. Siete sotto esame, la posta in gioco è alta, se alto ritenete il valore del vostro stesso esistere. Perché di sicuro non vi sfiora che siete pulviscolo, forfora di materia, battito di ciglia, e che di ogni vostro dolore fisico o morale non rimarrà testimonianza o traccia. Sono la vostra piccola divinità deforme, il folletto crudele che chiuderà ogni conto.
Nessuno si è accorto che dormo nel parcheggio della fabbrica e che mi lavo le ascelle nei bagni? Che non frequento alcun centro di aggregazione paesano. Bar, gelaterie, palestre… Nessuno si è accorto che appaio solo nei luoghi della Cattedrale? Ho smesso anche di andare in città per l’eroina, sono un cliente fidato e costante, un pusher mi raggiunge nel parcheggio e provvede alla cura sedativa. Eppure questa demente chiede conto dei miei problemi personali, intendendo personale tutto quello che esula da questo luogo.
Visto che non succede mai niente, questa vicenda della mia aggressione lieviterà. Lo strattone diventerà un cazzotto. Le amiche fide della stronza parlano di azioni disciplinari ufficiali. Adesso gli arriva la lettera. E alla terza lo licenziano.
Poco distante dalla zona del sinistro, una nube di signorotti della middle class rende omaggio a un ex dipendente in visita di cortesia. Ho sbalzi di pressione, una specie di paresi che mi blocca il viso in una smorfia rabbiosa. Loro ridono, conversano amabilmente. È venerdì per tutti, schiavi e signorotti, si annuncia un promettente sabato di primavera. Gite nelle località turistiche della riviera adriatica. Gite in città. Manutenzione del giardino della bi-famigliare. Centri commerciali. Ronde lungo la pedonale adibita a cani&bambini. Ho il vomito.
L’ex dipendente lo conosco bene. Un paio di anni fa, per poco non gli scaravento un gruppo condizionato addosso. Avevo le mie buone ragioni. Lo ignoro mentre passo con il carretto in prossimità del gruppo. È vestito da motociclista, tuta integrale di pelle nera. Non saprei guidare una moto da strada. Ma soprattutto non potrei mai indossare una tuta da motociclista in pelle nera, rifinita di rosso nelle giunture articolari. Le persone che indossano tute di pelle integrali senza sentirsi ridicole sono esseri umani a me estranei, altra chimica cellulare, nulla da condividere.
Nel momento in cui sono più debole arriva il Frank, guida un carrello elevatore verde, nuovissimo. È lui il collaudatore, i signorotti lo salutano vistosamente, è già uno della cricca. Li ignora e mi affianca. Potrebbe infierire, sono debole e indifeso come non mai. Potrebbe uccidermi, in questo momento il battito d’ali di una farfalla sarebbe un ciclone. Ma stupisce.
– Hai fatto bene Ale. Io posso testimoniare che l’hai appena sfiorata quel cesso di figazza. È tutta la settimana che lavora a cazzo. E queste altre facce di merda che ridono? Cosa ci rappresentano? Neanche le mura di questa fogna dovranno rimanere in piedi. Pagheranno, Ale, pagheranno caro, pagheranno tutto.
È l’ultima frase a lasciare il segno. Ha usato una terminologia obsoleta di tempi remoti in cui lui nemmeno era nato. Emilio Quadrelli, sì. Il Frank ne ignora il senso storico, ma non la sostanza. Lucifero è entrato nei miei pensieri. Non a caso, sa come e dove colpire i miei nervi. Io non rispondo, mi schifo della sua solidarietà, nemmeno lo guardo, continuo il giro dell’alimentazione della linea, metto le cuffie senza musica, batterie scariche.
Eroina in calo. Pagheranno caro. Pagheranno tutto. Il Frank non molla.
– Che ne pensi delle facce di merda? Ridono, parlano di cazzi loro. E tu giri come un cane rognoso con il tuo carrettino. Sarebbero da sparare alle gambe. Non credi? Come una volta… come ai tuoi tempi.
– Senti, non sono così vecchio, sono nato nel sessantasette… ero bambino quando sparavano a certi…
Sono nato nel Sessantasette, ero giovane negli anni Ottanta. Che cazzo avrei potuto fare se non vivere il senso di colpa della mia generazione inutile che doveva ringraziare per un posto di lavoro e non rompere le palle. Il capannello di signorotti è composto da coetanei, ma loro non sono coscienti del disastro storico. In realtà, almeno un paio di elementi sarebbero davvero da gambizzare. Per come hanno gestito la forza lavoro della Cattedrale. Per le ineguaglianze che hanno permesso, per i lavori di comodo che hanno concesso ai delegati sindacali interni. Per il mio siluramento, per il fatto che non si sono degnati di darmi spiegazioni. Perché indossano solo camicie e polo. Per ragioni che non conosco nei dettagli. Ma loro sì.
Uno dei dirigenti in ascesa cosmica ha la fisicità di un ufficiale nazista e di un magrebino al tempo stesso. Il suo sorriso affilato è una smorfia infinita nel tempo e nello spazio. Mi capita di alzare lo sguardo e di vederlo al finestrone mentre fissa le formichine giù di sotto con il telefono incollato all’orecchio. Riconosco la superiorità della sua razza, razza padrona. L’officina brulica di anime dannate senza speranza. Per quel che ne so l’ufficiale è davvero efficiente, le sue capacità sono innegabili, scrivania ordinata, cervello saldo, doti naturali sviluppate da studi universitari. La sua ascesa è stata, per certi versi, meritata. Inevitabile. Di certo si è tutelato, sa che questo luogo ha i mesi contati e sta valutando altre offerte di lavoro.
Sì. Sarebbe da gambizzare. Per come la razionalità darwiniana si manifesta in questo inferno senza più alcuna mediazione, nessuna ipocrisia. Da gambizzare. Almeno dal punto di vista della mia trincea, dal mio carrettino che è umiliazione pura. Un punto di vista non deve essere necessariamente la verità. La verità è un intralcio.
Ma chi in questa fogna maledetta non sarebbe da gambizzare?
Una ragazza è stata assente un paio di giorni, poi è rientrata, sfuggente e taciturna. Oggi manca. Un gruppo di operaie a fine turno parlotta a bassa voce. Domani c’è il funerale del padre della ragazza. Alla nostra età le assenze sono giustificate solo da lutti, malattie, esami clinici. Otto persone hanno chiesto quattro ore di ferie per le esequie, vogliono essere vicine alla collega. Io siedo poco lontano, ma in disparte. Sento distintamente le parole della moglie di un finanziere, ha valutato che questo funerale si aggiunge alla carenza di personale per malattia. Si abbasserà la produzione e ci bruceremo il ponte del 25 Aprile. Questa è la constatazione della donna. Vorrei dire che le richieste del cliente stanno scemando e che il problema non si pone. Scelgo il silenzio. Chi dunque non sarebbe da gambizzare? L’ufficiale magrebino o la formichina preoccupata per il ponte del 25 Aprile? La figura paterna è definitiva. La sua morte è il confine ultimo tra la giovinezza e l’età adulta. Il padre è la persona che ci ha insegnato ad andare in bicicletta, ci ha tenuto per le spalle per qualche metro poi ci ha lasciato andare per la nostra strada. La prima volta siamo caduti. Poi tutto è sembrato facile. Non lo è stato. La ragazza che ho preso per il collo sta fuori di casa undici ore, ha avuto una giovinezza breve e inesplorata, ha figliato presto. A casa ha due marmocchi accuditi dalla madre, figli che si ammalano a ripetizione nei mesi invernali. Deve ricorrere a permessi non retribuiti o mangiarsi giorni di ferie. Ha un marito, forse l’unico uomo della sua vita che non l’aiuta nei lavori domestici. Non sa nulla della crisi storica della sinistra, delle contraddizioni del capitalismo e del libero mercato. Del turbocapitalismo che ci sta strozzando. Delle incongruenze nella vicenda del rapimento di Aldo Moro. Dei fatti di Genova, dei pestaggi della Diaz. E vive lo stesso.
Fino a oggi mi sono masturbato di cinema, libri, teatro, un mare di informazioni mi hanno invaso rendendomi debole e insicuro, come avessi bisogno di flussi continui di parole o musica. Creperò con un cancro al cervello. Lei deve provvedere a bisogni molto concreti di altri esseri umani. Mi ricorda che siamo animali handicappati e molto evoluti. Ma sempre animali. Nonostante lavori a trenta chilometri da casa riesce a gestire le attività domestiche. Io allevo solo la mia malattia, il mio odio. Lei ha una vera ragione di vita, è utile ad altri esseri umani, alla sua cucciolata. Non è poco. Non sa nulla della bomba alla banca di Milano del dicembre ’69 che ha aperto la stagione di piombo, non sa nulla dell’assassinio di Mario Calabresi e degli aspetti imbarazzanti della vicenda.
Era giusto eliminare un servitore dello stato che stava depistando al primo livello le indagini su una strage? Vorrei farle questa domanda a bruciapelo. Lei dovrebbe ribattere chiedendo se ho mai montato una libreria Ikea per la mia donna. Sarei in grado di cambiare un neonato con la diarrea senza vomitare? Disperdo ogni energia in una forma di passività critica che paralizza. Hanno fatto bene a silurarmi. Chi più di me lo meritava? Hanno la ragione dalla loro parte. E pagheranno. Saranno puniti. Conosceranno il dolore. Proprio perché hanno ragione.
Oggi in mensa ho raccontato che Ferri è morto suicida. Ferri era stato il primo responsabile dei reparti produttivi, anni pionieristici, Alto Medio Evo Fordista. Manufatti artigianali, gusci in plastica che nascevano come anfore, niente ABS a iniezione.
L’assemblaggio richiedeva una certa manualità, il giro di colla per chiudere le parti era insidioso, mano ferma e controllo. Nessuna pressione sulle tempistiche, alcuni riscaldatori erano però molto rognosi, matasse di cablaggi indomabili, inserimento della batteria evaporante al limite nelle misure. C’era sempre qualche “trucco” da imparare. Gli operai anziani ci invitavano alla calma, sedavano gli impeti esibizionistici dei nuovi assunti. Le pause caffè erano ordinate ma lunghissime, i grembiuli erano blu. Qualche operaia arrivava all’ufficio catapultata dal sedile reclinabile dell’auto del capo reparto, ma tutto era morbido, misurato, non c’era violenza, tattiche, giochi di ruolo. Eravamo limpidi come fanciulli. Ci stavamo preparando a una morte lentissima e senza sofferenze con il contratto a tempo determinato stretto tra le chiappe. Per la Cattedrale era l’età dell’innocenza, la massima espansione, il dominio europeo del mercato. I giornalini di partito della Cittadella ne tessevano le lodi con l’enfasi da cinegiornale, i sindacati imponevano assunzioni sovraccaricando tutti i reparti, la Cattedrale poteva distribuire benessere senza andare per il sottile, era quasi un ente benefico, il fatturato giustificava una gestione distratta della manodopera. Ferri era stato fatto fuori. A quanto pare sottraeva materiale dal magazzino e lo rivendeva con l’aiuto di un paio di complici interni. Non si sono mai saputi i particolari, probabilmente non è stata sporta denuncia. Ferri è sparito con i suoi richiami burberi ma sinceri, tolleranti. Quando facevi qualche errore ti convocava in ufficio, ti guardava in faccia e ti diceva ma a te ste lavurir at pies? A te questo lavoro piace? Non rimaneva che sgranare gli occhi e allargare le braccia. Che dire. Sarebbe stato meglio continuare a farsi di eroina, crepare nel cesso del bar di una stazione, con tutto il paese al funerale. Fare un corso di teatro senza contributi statali e mangiare alla mensa dei poveri. Partire per la Spagna, finire incornato da un toro. Morire di botte in una taverna del porto di Marsiglia. Insomma, accelerare la fine con coraggio. Ma stavo zitto davanti a Ferri, aspettavo mi congedasse con un gesto della mano destra, come se desse un colpo di pennello alla parete. Ringraziavo e tornavo al lavoro sui banchi rivestiti di panni blu, con gli utensili sparsi senza logica e una moderata voglia di migliorare.
Ferri lo vedo ancora aggirarsi nella zona dove era posto il suo ufficio. Succede solo nei mesi autunnali, quando le giornate si accorciano in modo impercettibile e la manutenzione accende le luci in leggero ritardo, o proprio non le accende perché troppo vicina è l’ora di chiusura. Oggi quell’area è occupata da bassi scaffali per la minuteria, viti, rivetti, dadi, guarniture di piccola taglia. Quando la penombra è quella giusta, si aggira con la mani dietro la schiena e il grembiule azzurro. È lui adesso che rimane in silenzio, non osa rivolgermi la parole. Am pies al giost ste lavurir. Poc. Mi piace il giusto questo lavoro. Poco. Non trova pace l’anima di Ferri schiacciata dalla vergogna. Lo hanno trovato con un sacchetto di nylon in testa. È quasi impossibile suicidarsi in questo modo, l’istinto di sopravvivenza porta a mollare la presa e a desistere. Io lo dico in mensa ma nessuno ascolta le mie tesi. Nessuno. Nessuno ricorda questa storia. Oggi sono in armonia produttiva, anche se ho sognato tutta la notte la catena di montaggio. Nessuna distorsione della realtà, ho sognato le azioni che compio regolarmente. Curioso. Quando la realtà è un incubo i sogni non si concedono nessuna caricatura, si limitano a registrare. Sono in vantaggio, alimento gli scivoli che convergono nelle stazioni di assemblaggio senza difficoltà, mi concedo battute e fisso per qualche secondo i culi passabili. Una femmina ha urlato che la pistola dell’avvitatore non funziona, prontamente ho chiesto se vuole quella che tengo in mezzo alle gambe. Sono frasi automatiche, fuori da ogni libero arbitrio. Recito. È una recita infinita, faccio di tutto per integrarmi, per regredire a scimpanzé. Quando non ci riesco vivo male, quando ci riesco mi odio. Mi dico che recito troppo bene. Che sono davvero diventato ciò che disprezzo. Quando la presa di coscienza si riaffaccia cambia l’espressione del mio volto e divento più vulnerabile. Una ragazza ulula frasi sconnesse, storpia i ritornelli delle canzoni vomitate dalla radio, sono grida strazianti, mi ricordano la casa di riposo comunale dove andavo a trovare mia nonna, alcune operaie ridono, altre tacciono, abbassano la testa, non assecondano queste esibizioni di follia, reagiscono nascondendosi. Nessuno si ribella con forza per porre fine a quell’ostentazione di beata demenza. Non le perdonerò mai per questo lassismo. Non capiscono che gli idioti peggiorano la qualità della vita.
Oggi sono in forma clamorosa, niente affanno, canticchio e sorrido inebetito, le mie mani sembrano quelle di un direttore d’orchestra, fanno sempre la cosa giusta. Ripercorro la linea in senso contrario per mettermi in vantaggio. Le tre femmine lavorano a ritmi infernali, è un meccanismo “a puleggia”, gareggiano una contro l’altra. Nessun tecnico dei Tempi e Metodi ha calcolato le tempistiche, sono le operaie che determinano il calore dell’inferno. I tecnici hanno costruito le pareti delle celle, ma i dettagli del 41 Bis li hanno stabiliti le operaie. Le alte gerarchie della Cattedrale possono essere accusate di istigazione alla prostituzione. Non passa giorno in cui almeno una ragazza annuncia scherzosamente il proposito di intraprendere la suddetta attività piuttosto che continuare a marcire in catena di montaggio. Ma sono parole a cazzo, tanto per dire. I dirigenti in realtà sembrano non avere diretta influenza sulla qualità della vita del campo di lavoro. Quando si materializzano indossano camicie bianche, sono di bell’aspetto, hanno un’altezza sopra la media, gesticolano amabilmente e dicono cose sensate alle quali non saprei ribattere. Non prendono decisioni, si limitano a comunicarci le esigenze del nostro cliente, a chiedere la nostra disponibilità a prendere ferie o a fare ore di straordinario. Non hanno bisogno di assumere atteggiamenti punitivi e sgradevoli, il potere in Cattedrale continua a esprimersi in forma dorotea, politicamente corretta. Hanno predisposto una macchina infernale che non ha bisogno di manutenzione. Hanno creato il Facilitatore, che non è un operaio semplice e non è un capo reparto, è un’entità ambigua priva di competenze tecniche, lavora molto ed è gravata da piccole rogne burocratiche, ha la stessa paga base di chi sta in linea. È figura inferocita e impaurita, rovescia i problemi verso il basso, verso la casta inferiore e non pone questioni ai superiori.
Non vedo complotti, strategie, vedo un’ordinata anarchia gestita dagli schiavi sugli schiavi che non ha bisogno di interventi dall’alto.
Vedo il delitto perfetto.