di Stefano Jossa*
[In calce a questo post, molte novità dal dibattito sul NIE: interventi, trasmissioni radio, iniziative pubbliche]
Questo articolo nasce da uno spunto che avevo preparato per un intervento su un quotidiano e che è rimasto lì, in forma di possibilità incompiuta. Lo riprendo e lo sviluppo per Carmilla.
Ho cominciato da questa storiella di Nabokov per discutere di New Italian Epic, non perché il brano mi piaccia particolarmente, ma perché la citazione si trova in apertura di un libro di L. H. Pratt sulle bugie dei poeti greci, da Omero fino a Pindaro (Lying and Poetry from Homer to Pindar. Falsehood and Deception in Archaic Greek Poetics, Ann Arbor: The University of Michigan Press, 1993). Un libro sulla menzogna poetica nell’epica e nella lirica dell’antica Grecia.
L’occasione mi è sembrata ghiotta. Epica + storia + menzogna: una triangolazione decisiva per parlare, finalmente, di letteratura, cioè contesti e forme, al di fuori di logiche di schieramento. Trovo che il New Italian Epic sia l’occasione per riflettere da un lato sullo statuto conoscitivo della letteratura, dall’altro sulle modalità poetiche della scrittura. Mi spiego: da un lato c’è una domanda, epistemologica, sul rapporto tra letteratura e realtà, dall’altro una ricerca su cosa faccia, in concreto, uno scrittore. I due “lati” non sono separati: s’intrecciano, combinano, scontrano, stridono, ma non possono fare a meno l’uno dell’altro.
LE CATEGORIE DEL DIBATTITO PUBBLICO
Parto però da un altro punto, quello che a mio avviso è il rischio del NIE. Il rischio è quello che il discorso pubblico prevalga sulla prassi. Il rischio è quello di finire nella categoria del (neo)(neo)realismo (al punto che c’è stato chi ha pensato bene, sentendosi brillante, di coniare l’espressione “neonrealismo”). Il problema, cioè, è quello della prevalenza delle etichette sul laboratorio.
Realismo è una parola che aleggia sul dibattito letterario da un po’ di tempo, fino alla sua istituzionalizzazione sulla carta stampata con il numero di novembre di «Specchio», nella cultura accademica col numero 57 di «Allegoria» e online con un dibattito su Nazione Indiana. Fin qui tutto normale: le voci più aggressive, giovanilistiche, post-moderne del giornalismo, dell’università e del web si aggregano intorno a una parola d’ordine, militante, che può segnare, finalmente, il cambio della guardia. La terminologia, militare appunto, non sorprende: avanguardia è per definizione termine desunto dall’esercizio bellico, uno stare in trincea contro gli altri. Nel più puro stile italiano: fingere di attaccare i padri per affiancarsi a loro. I nemici sono i fratelli, le eventuali voci diverse che potrebbero occupare spazi di visibilità e successo pubblici. Meglio fare corpo, evitando intrusioni indebite e pericolose.
La storia si ripete. Sembra di stare dentro il paradigma dell’alternanza realismo-avanguardia che ha segnato tutta la storia del potere culturale in Italia tra Otto e Novecento. Realismo-avanguardia-neorealismo-neoavanguardia-neoneorealismo. Un movimento ciclico, a inseguimento, che determina l’affiancarsi delle nuove leve alle vecchie, senza ricambio, perché è la differenza che garantisce la separatezza ed evita il conflitto. Ai vecchi colti si affiancano i nuovi barbari, che diventano subito come i vecchi colti, i padri: è il modello culturale italiano degli ultimi due secoli, dopo la rivoluzione romantica, col passaggio senza mediazioni da giovani promesse a venerati maestri. Teopompi in livrea occupano la scena pubblica, tra parola ispirata e gestione burocratica. Meraviglia solo in parte, allora, il fatto che i primi a parlare di realismo sulle pagine dei giornali e sulle riviste accademiche siano i nipotini della neoavanguardia, i seguaci di Manganelli e Sanguineti: il meccanismo è quello, già descritto, dell’affiancamento, una volta realizzato l’affrancamento.
Il New Italian Epic sembra, sul piano pubblico, proprio questo: una chiamata a raccolta di tutte le forze “giovani”, già riconosciute dall’editoria e dal mercato, ma ancora troppo sfilacciate, incapaci di proporsi in chiave politica, dominate dall’individuale anziché dal generazionale. Come si fa a tenere insieme Saviano e Di Cataldo, Genna e Camilleri, Scurati e Lucarelli? A prima vista è la costruzione di un canone della contemporaneità, con l’obiettivo di incidere sul mercato (autopropaganda, l’ha definito Carla Benedetti su “Libero”) e di orientare la politica culturale (leghismo col calamaio, a giudizio di Fabrizio Rondolino su “La Stampa”). Al punto da far dispiacere, a prima vista, chi si è trovato escluso, come ha scritto Emanuele Trevi su “Alias”. Come si fa a dargli torto? Però, “prima vista” vuol dire la copertina; “prima vista” vuol dire l’immagine pubblica, che leggiamo con categorie pregresse, quelle in cui ogni operazione va a iscriversi nel momento in cui viene prodotta, indipendentemente dalla sua capacità o meno di produrne altre, di categorie. Ecco, a me sembra che la critica oggi faccia proprio questo: inserire e catalogare all’interno del quadro preesistente, anziché verificare le modalità e la produttività dei discorsi.
Quello che vorrei superare, in altri termini, è il gioco degli schieramenti funzionale alla divisione degli spazi: questo a me, quello a te. Non sto scegliendo bersagli polemici personali, perché il problema, a mio avviso, sta in un metodo, che è quello con cui ha funzionato e funziona la cultura italiana nell’età capitalistica (post-romantica).
UN SAGGIO SUL ROMANZO
Dove la critica ha senso, invece, è quando va a occupare quello spazio – inesistente ma inevitabile – tra la presunta realtà data e la presunta realtà creata, cioè lo scarto tra la parola ricevuta e la parola usata, ovvero, ancora, quella zona in cui lo scrittore usa la lingua che ha in comune con altri soggetti per significare tutt’altra cosa da ciò che essa dice. Questo è l’orizzonte con cui dovremmo porci di fronte al New Italian Epic: né liquidarlo né osannarlo, ma verificarne le potenzialità sul piano poetico. Poetica, si sa, vuol dire il fare, una prassi, dal verbo greco poieo. Spesso confusa con la retorica, che è invece l’arte della costruzione del discorso, o con l’eloquenza, che è l’abilità a pronunciarlo, il discorso. Nella storia del romanzo italiano degli ultimi massimo vent’anni, a giudizio di Wu Ming, si riconosce un lavoro sulla scrittura, che implica una domanda sulla storia, la propria storia e la storia collettiva. Non gli autori, ma le opere sono importanti: ancora una volta la morte dell’autore? Forse no, visto che stavolta gli autori sono vivi e vegeti, per lo più giovanissimi, con una presenza pubblica forte. Il punto è ragionare in termini di testo e voce, cioè tessitura e spartito: vedere come funzionano i testi e come la letteratura conosce. Questa domanda continua a far paura, tanto ai poeti-vati antiaccademici che dal loro studio ai Parioli sbraitano parole cariche di materia, sporche di fango o putride di sofferenza, quanto agli ironicissimi giornalisti filoaccademici che dalla Fiera cercano di riportarci con i piedi per terra, ammonendo che i romanzi non sono altro che racconti di storie. Trionfo dell’assoluto lirico dell’io e rigurgito dell’impegno popolare dall’alto s’incontrano nel comune rifiuto di ogni riflessione che implichi il lavoro, rimboccarsi le maniche, leggere e analizzare i testi. Testi: cioè il modo in cui il reale diviene testuale. Confrontarsi coi testi, anziché coi proclami o con le categorie: né collezioni di citazioni né sproloqui appassionati. Analisi, fino alla ben poco suggestiva lista dei ritmi accentuativi che ricorrono nei romanzi italiani contemporanei, per riconoscervi uno dei tratti costitutivi della tradizione epica, la «memorabilità» attraverso ripetizioni, anafore, catafore. «È lo spettro del poema epico che appare a noi, torna a noi attraverso le lande del romanzo, nascosto nel romanzo. Il romanzo è posseduto dallo spettro», scrive Wu Ming 1. Strumentalizzazione, forzatura, pro domo sua? Il dubbio è legittimo, ma vale la pena discuterne, perché qui ci troviamo di fronte a un vero e proprio saggio sulle caratteristiche dominanti del romanzo italiano degli ultimi vent’anni. Una ricerca tipologica, stilistica e linguistica.
Non l’autore onnisciente che possiede la verità, dall’esterno, capace di giudicare la materia e guidare il lettore su criteri e valori, ma l’autore che si mette in gioco personalmente come autore, smascherandosi, svelando la propria funzione di regia, dicendo da dove legge il reale. Mi veniva in mente “the old Ariosto”, come lo chiama Walter Scott, l’autore che più di tutti ha esibito e demolito la funzione autoriale, proprio perché la faceva venir fuori, togliendo oggettività al testo, ma dandogli, forse, un altro realismo, quello della scrittura, appunto. Tessitura e spartito sono due metafore con cui Ariosto descrive la propria funzione di regia nell’Orlando furioso:
II 30:
Ma perché varie fila a varie tele
uopo mi son, che tutte ordire intendo…
e VIII 29:
Signor, far mi convien come fa il buono
sonator sopra il suo instrumento arguto,
che spesso muta corda, e varia suono,
ricercando ora il grave, ora l’acuto.
A un certo punto del poema l’autore si sente chiamare da uno dei suoi personaggi, che ha paura di restare lì, nel mare, fino ad affogare, se l’autore non verrà a salvarlo, rimettendolo in azione:
XV 9
Di questo altrove io vo’ rendervi conto;
ch’ad un gran duca è forza ch’io riguardi,
il qual mi grida, e di lontano accenna,
e priega ch’io nol lasci ne la penna.
La vita del personaggio è prigioniera della scrittura, che ne determina il destino. Senza scrittura la realtà del personaggio non esiste. È il dramma dei sei personaggi di Pirandello, che citava proprio l’esempio ariostesco nel saggio sull’Umorismo. Realtà o finzione? L’unica realtà sta nell’essere scritti.
Alexandre Kojève ha detto che “la filosofia è quel discorso che può parlare di qualsiasi cosa a condizione che parli anche del fatto che ne sta parlando”. Lo stesso può dirsi della letteratura: solo esibendosi nel suo processo, nel suo farsi, nei meccanismi costruttivi di testo e significato, la parola acquista una dimensione poetica. Non si tratta, infine, di superare, banalmente, l’opposizione tra fiction e non fiction, ma di istituire, nella prassi, un medium, la scrittura, appunto.
IL PROBLEMA DELLA DEFINIZIONE E IL LAVORO SULLA SCRITTURA
Che vuol dire, allora, New Italian Epic? La formula, in inglese, mi suonava all’inizio di estremo provincialismo: non si poteva scegliere una definizione in italiano? (“questo Wu Ming deve odiare davvero la lingua italiana”, scrive Trevi su “Alias” a proposito dell’espressione “ad nauseam”). La definizione, con tre parole, un tentativo disperato di tenere insieme inseguimento del nuovo, rivendicazione identitaria e riallacciamento alla tradizione. Al fondo c’è, però, un’esigenza letteraria: accade oggi — new, accade in Italia — Italian, e accade in letteratura — Epic. Lo specifico del discorso letterario è storico, geografico e linguistico. Il punto è qui: la centralità del linguaggio. L’uso dell’inglese mi è sembrato, allora, un modo per far stridere, attraverso il contatto, aspettative e diffrazioni: definire in inglese un fenomeno letterario italiano mi è sembrato un modo per dire che le cose non sono come ce le si aspetta. Un fenomeno italiano vuole la lingua italiana: io non te la do, perché devi fermarti a pensarci su. La parola non è la cosa, altrimenti la cosa si svuota: la cosa assume senso attraverso la parola, che non la definisce, appunto, ma la esprime. Ci trovavo tutto quello che ho sempre pensato sulla letteratura come aggiunta di significato rispetto alla (presunta preesistente) realtà, come fondazione di dialogo e comunità attraverso la prassi, come aumento di significazione, attraverso la testualizzazione, del significante, che ha una sua provenienza (la lingua inglese) ma che assume nuova identità nel nuovo contesto (l’esperienza letteraria italiana attuale).
Come conosce la letteratura? Wu Ming non ha dubbi: la conoscenza letteraria procede per sovvertimenti, cioè «quello che non s’interessa direttamente alla distruzione, schiva il paradigma e cerca un altro termine: un terzo termine, che non sia però un termine di sintesi, ma un termine eccentrico, inaudito». È quello che scriveva Barthes su Bataille: «Bataille non contrappone al pudore la libertà sessuale, ma… il riso». Uscire dagli opposti: tertium datur. Niente contrapposizione tra soggetto e oggetto, parole e cose, lirismo e contenutismo, «lingua di servizio» e «manzonismo degli stenterelli»: entra in gioco la distorsione, la deformazione, lo straniamento, la parodia. «Oggetto e mezzo espressivo sono un tutt’uno, la componente “contenutistica”, entrando nell’illimitata e onnipotente lingua, è anche quella “artistica”»: si legge in un saggio di Karol Kerényi su Virgilio. Epica, allora, ancora con Barthes, come ciò «che rende discontinui i tessuti discorsivi, che distanzia la rappresentazione senza annullarla».
Conoscere è allora una prassi: non un rapporto tra due preesistenti, oggetto e soggetto, ma abitare la distanza, lo spazio tra l’uno e l’altro, con la penna, i fogli, l’inchiostro, le tastiere, gli schermi, le radiazioni. Uno spazio corporeo, ora sì: lo spazio della letteratura. Tra Don Chisciotte e il mondo.
LA RAPPRESENTAZIONE DELLA REALTÀ
Facile sintesi neorealistica, che s’ispira a un ritorno, dopo la stagione dell’iperparolismo neoavanguardista, a Pratolini, Bassani e Cassola, in quel ritmo ciclico di superamenti e ritorni che ha definito la tradizione, assai più fratricida che parricida, delle patrie lettere? Oppure ipotesi di un realismo altro, che non stia nella presa diretta della macchina, che non si mangi la realtà esibendo la sofferenza, che non sia il grido di dolore, delirio ed orrore, dell’artista, ma consapevolezza della biunivocità della parola letteraria, che è sempre prima nel mondo, ma che la letteratura trasforma, ri-usa e rad-dopia? Ipotesi, allora, di un superamento dell’opposizione, troppo funzionale al mercato, troppo finalizzata alla divisione degli spazi pubblici, tra morsi di vipera e acquarelli di fantasie. Non c’è conflitto tra “fare spilli per inculare le mosche” e “mettere le mani nel sangue del mio tempo, e fissare in volto il marciume della politica e il tanfo degli affari”, perché l’unico ritmo possibile, il ritmo della letteratura, è nel passaggio continuo, incessante, dal piano di denotazione a quello di connotazione. Luna può significare un astro nel cielo, ma anche il movimento nell’anima in tanta poesia romantica o nelle canzoni di Elvis Presley; mafia può significare un’esecrabile organizzazione criminale, ma anche uno scatto d’orgoglio: New Italian Epic è metterli a contatto, questi due significati.
Umorismo, ancora, pirandellianamente: né quello che ci si aspetta, ciò che dovrebbe essere (il guardaroba), né quello che ci sorprende, il contrario di quello che dovrebbe essere (il corpo nudo), ma proprio il movimento incessante dall’uno all’altro, la riflessione e l’inchiesta. Fatte parola, però: questione di punto di vista, di storie alternative e di linguaggio sovversivo. Ferito di realtà e realtà cercando.
Memorabilità del testo e testualizzazione del reale vanno allora di pari passo. Chi pretende di catturare la realtà perché la possiede, insieme fotografo e indovino, non funziona più. La scrittura non è immersione nel corpo fisico, ma fisicità dello scrivere: non entra nella carne, ma graffia il foglio o ticchetta sulla tastiera. Testualizzare non è solo “fare testo” insomma immettere nel testo, ma la dialettica tra produzione/riproduzione e contestualizzazione/connotazione. Se questa dialettica sia poi in stato d’arresto o produttrice di sintesi, è un altro problema ancora…
D’accordo o non d’accordo, New Italian Epic merita un supplemento d’indagine, come proposta operativa anziché come manifesto ideologico. Il Vecchio è morto, ma dobbiamo ancora farci i conti.
* Stefano Jossa è attualmente lecturer di Italian Studies alla University of London. Tra le istituzioni presso cui ha svolto attività di ricerca, il centro di studi sul Rinascimento italiano dell’università di Harvard e la Herzog August Bibliothek. E’ autore di diversi libri, tra cui L’Italia letteraria (Il Mulino, 2006)
NOVITÀ SUL NEW ITALIAN EPIC
Interventi, programmi radio, iniziative pubbliche etc.
NEW ITALIAN MEDIA EPIC
Il 4 marzo scorso si è svolto a Milano, su iniziativa di Francesco Monico, il simposio “New Italian (Media) Epic”, tentativo di usare il memorandum sul NIE (in particolare gli appunti sugli UNO, sul perturbante, sul rapporto tra etica e retoriche) per capire cosa stia accadendo nel mondo degli audiovisivi, ambito in cui vengono prodotti sempre più… “oggetti narrativi non-identificati”. Qui la presentazione dell’iniziativa.
Al simposio hanno preso parte critici, studiosi del cinema e dei nuovi media (Franco Marineo, Antonio Caronia), filmmaker (Marianna Schivardi), videoartisti e artisti visivi singoli e collettivi (Mario Canali, Studio Azzurro), scrittori (WM1, Alessandro Bertante) etc.
Poche ore dopo, alla Nuova Accademia di Belle Arti, WM1 ha tenuto una conferenza sullo stesso argomento (gli UNO in letteratura e negli audiovisivi), intitolata “Bisogna farlo, il molteplice”. Durante l’incontro ha dialogato con Francesco Monico e con Derrick De Kerckhove.
L’audio di quest’evento verrà messo on line nei prossimi giorni.
FAHRENHEIT SU CRITICI VS. NEW ITALIAN EPIC
La trasmissione “Fahrenheit” di Radio 3 ha dedicato la puntata del 3 marzo scorso all’accoglienza che diversi critici letterari hanno riservato al libro New Italian Epic. In collegamento, Gaia De Pascale (autrice del libro Wu Ming: non soltanto una gang di scrittori, Il Melangolo, 2009) e Stefania Scateni (caporedattrice delle pagine culturali de L’unità e autrice di un articolo già proposto qui su Carmilla, “Perché i critici hanno paura della nuova epica italiana?”).
La puntata è ascoltabile/scaricabile in mp3 cliccando qui (160k, 38 mb). Durata: 29 minuti.
oppure, in una versione più leggera, qui (96k, 23 mb).
LA FORESTA DI BIRNAM E IL NEW ITALIAN EPIC
Sul suo blog, il regista e autore teatrale Marco Ghelardi ha fornito una lettura approfondita di un brano del memorandum sul NIE, accompagnandola a un ragionamento che ha molto colpito la nostra redazione.
Il memorandum è dichiaratamente pieno di brani che appaiono vaghi ma sarebbe più giusto descrivere come… “zippati”, compressi, in attesa di qualcuno che li estragga ed espanda. Sono suggerimenti, inviti alla partecipazione. Uno di questi è la menzione della foresta di Birnam, riferimento al Macbeth di Shakespeare.
Da uomo di teatro quale è, Ghelardi ha colto il riferimento, e lo ha usato per “schiudere” il paragrafo sull’allegoria metastorica. Leggere per credere.
TIZIANO SCARPA SUL NEW ITALIAN EPIC
Lo scrittore e performer Tiziano Scarpa ha pubblicato sul blog multiautore “Il primo amore” una riflessione critica sul memorandum di WM1, argomentata, non “pavloviana” e apprezzabile nei toni.
A differenza di altri, Scarpa non propone montaggi arbitrari di virgolettati ma dà un’interpretazione di quel che il testo dice, interpretazione con cui si può essere o meno d’accordo, ma su cui si può (finalmente) discutere.
L’impressione è che negli ultimi giorni il livello delle critiche si sia (per fortuna) alzato, e sia cessato – a parte poche eccezioni – il ricorso a stratagemmi per eludere le questioni reali.
Con questo intervento di Scarpa, già ripreso in vari luoghi della rete, vale senz’altro la pena dialogare, cosa che avverrà nei prossimi giorni, da parte di WM1 e altri.
AGGIORNAMENTO 28/03/09:
Il saggio-risposta di Wu Ming 1 “Wu Ming / Tiziano Scarpa: Face Off” è ora disponibile in pdf.
UNA PRECISAZIONE DI GIAMPAOLO SIMI
Chiamato in causa da Wu Ming 1 nella prima parte del suo testo sulle “reazioni de panza” dei critici, lo scrittore Giampaolo Simi non si sottrae e spiega la propria posizione in un intervento sul suo blog dal titolo “Panza e scienza”.
“…Concordo che il ‘non avere pretese’ nasconda oggi l’arroganza dell’improvvisazione più pigra o una sorta di astuta vigliaccheria. La parola dell’autore sul proprio lavoro è l’originale e la più autentica, ma non per questo è necessariamente quella che lo comprenderà in toto, proprio perché talvolta tende a definire l’opera secondo i confini legittimi e fondanti delle intenzioni. Quei confini, cosa che anche Wu Ming sottolinea, ogni lettore poi li mette in discussione, li allarga e li porta chissà dove, a ogni pagina che gira, con buona pace anche delle scomuniche dei critici…”