[Pubblichiamo due interventi sul NIE.
Il primo è di Alberto Casadei, critico letterario, scrittore e docente di letteratura italiana all’Università di Pisa, e uscirà prossimamente sulla rivista L’immaginazione diretta da Anna Grazia D’Oria, che ringraziamo per averci concesso quest’anteprima;
il secondo è di Stefania Scateni, che da anni dirige le pagine culturali de L’Unità, quotidiano su cui è uscito ieri, 26/02/2009, con il titolo: “Perché i critici hanno paura della Nuova Epica Italiana?” ]
NIE: IN CERCA DI UN RAPPORTO ATTIVO CON LA TRADIZIONE
La versione a stampa della New Italian Epic (Nie) di Wu Ming fissa i termini di un dibattito che è già stato molto ampio nel corso del 2008 e che, va detto, meritava di trovare una forma almeno provvisoriamente stabile. I temi affrontati, soprattutto da Wu Ming 1 nel Memorandum 1993-2008, ovvero nella versione 3.0 della Nie sono senza dubbio importanti, per molti aspetti decisivi riguardo alle scelte letterarie attuali. Per non dipendere dal discorso dell’autore, provo a enunciare quelli che mi sembrano alcuni dei suoi nuclei generatori, al di là delle singole affermazioni.
Il primo è la consapevolezza dell’esaurimento della coazione al nuovo tipico delle avanguardie novecentesche, non però per l’assunzione di una mancanza di conflittualità (atteggiamento tipico del postmodernismo ‘parodico-citatorio’), bensì per il riconoscimento della necessità di conquistare un rapporto dialettico con il prima, nella prospettiva di modificare il dopo, l’avvenire. Una prospettiva utopica e, implicitamente, rivoluzionaria, che ha ora una difficoltà di fondo, ovvero quella di non poter indicare un destino effettivo, e quindi, iuxta Benjamin e la linea del marxismo non di regime, deve soprattutto provare a riscattare i padri piuttosto che esaltare i figli.
Il secondo è il tentativo di coniugare poetica in atto e storia della letteratura, eliminando in sostanza la funzione della critica esterna. Rispetto alle poetiche avanguardiste, quella qui messa in atto da Wu Ming 1 mira non solo a segnalare i caratteri della Nie, ma anche a storicizzarla e a segnarne i confini, compiti che in genere dovrebbero spettare agli interlocutori esterni, al limite persino agli avversari. Invece, sia autori indubbiamente affini, come Genna o Evangelisti, sia altri che invece nascono in una dimensione letteraria diversa, come Saviano, vengono ricondotti a un clima comune, nato soprattutto dopo le grandi svolte del 1989 (per l’Italia 1992-93) e definito in particolare dopo l’11 settembre 2001: l’etica dello scrivere risulta un tratto marcato di queste poetiche, che mirano in modi diversi a un realismo epico (persino usando metodi interamente antirealistici, almeno secondo i canoni classici), che è in primo luogo il segno di una rilevanza attribuita all’atto dello scrivere prima ancora che al prodotto.
Il terzo è la sostanziale certezza del superamento del ruolo esclusivo dell’autore nella creazione della sua opera: Wu Ming 1 è contro la chiusura unitaria, e quindi contro un principio fondamentale della letteratura classica ma anche romantica, ma senza arrivare alla automaticità dello stile, alla maniera di molte avanguardie. Piuttosto, è la cooperazione, e quindi anche l’espansione o riscrittura creativa dei testi, a risultare decisiva non tanto come tratto stilistico quanto come modalità di posizionamento della letteratura nel panorama letterario. L’opera non vale in sé ma per le implicazioni che essa deve riuscire ad avere nella reinterpretazione dei lettori: è comunque, sostanzialmente, allegorica.
Le conseguenze operative di queste posizioni sono note, e anzi sono addirittura esemplificate in un saggio di Wu Ming 2, La salvezza di Euridice, che completa il volume einaudiano. Ma vale la pena di sottolineare che anche a livello interpretativo si colgono qui molti spunti interessanti su testi diversi per genesi e per sperimentalità, da De Cataldo a Babsi Jones, da Carlotto a Camilleri, oltre ai vari altri già citati. Ciò non toglie che il punto nodale di tutte le autoanalisi, sia pure non esclusivamente di parte come questa (accusa in effetti insostenibile a una lettura attenta), è la congruità dei punti toccati con il quadro di riferimento ampio, che solo un’operazione critica extra (non supra) partes può garantire.
A un’analisi meno angolata di quella proposta da Wu Ming 1 si dovrebbe notare che la capacità di lettura del reale è oggi inversamente proporzionale al suo bisogno di creare mondi possibili totalmente alternativi rispetto a quello ‘di primo livello’. Lo sforzo, ovvero l’enfasi di restituire una visione ‘altra’, diventa difficilmente credibile quando il livello ideologico e quello narrativo si mescolano indistricabilmente, tanto da creare un effetto di continua stonatura (ben più forte della sovversione ‘nascosta’ di cui parla l’autore). È il problema di fondo di un tentativo come quello di Genna in Hitler: che è un libro troppo fuori della storia per poter essere letto come storico, e troppo affine a come vorremmo immaginare che è andata la storia per poter essere letto come epico (ossia come portatore di un discorso superiore alla cronaca dei singoli fatti). Wu Ming 1 approva almeno in parte il lavoro di Genna (che aveva dato prove senz’altro superiori in L’anno luce, Dies irae e soprattutto Medium), e non affronta qui il problema cruciale di leggerlo in parallelo rispetto al suo negativo, Le Benevole di Littell (peraltro da lui recensito su L’Unità nel 2007). In quest’ultimo, il rapporto con la tradizione risulta davvero attivo, perché l’intento non è quello di costruire un mondo intrinsecamente pre-giudicato (ovvero non libero), ma lascia invece fluttuare il giudizio etico sino alla quasi giustificazione del protagonista, che vive alcune esperienze tra le più estreme che possano toccare a un uomo, pur essendo in apparenza un normalissimo individuo, le cui patologie all’inizio risulterebbero del tutto compatibili con una vita banalissima. E invece, è proprio la richiesta di seguire il suo comportamento senza preconcetti a costringere il lettore a prendere atto delle cause intime, personali ma anche sociali e ideologiche, del generarsi del male. E in ciò si rimanda al modello tragico piuttosto che a quello epico, ma comunque con un risultato comparabile con quelli della più larga tradizione del nostro sapere.
Nella Nie il confronto aperto con il passato è più ipotizzato che realizzato. Ciò non toglie che la posizione di Wu Ming sia degna di discussione. Senza però che essa si aggiudichi l’ipoteca di costruire anche il campo dei rapporti di forza (e di valore) al di fuori di quello di poetica: ci può essere molto di epico e di etico anche là dove l’apparenza risulta assai distante (così come il Paradiso non è meno epico dell’Inferno ma il suo necessario completamento per dare un fondamento al giudizio sulla realizzazione storica del male, giudizio che altrimenti sarebbe solo fine a se stesso).
PERCHÉ I CRITICI HANNO PAURA DELLA NUOVA EPICA ITALIANA?
Cos’è la New Italian Epic e perché fa discutere. L’idea, lanciata da Wu Ming, prima nelle università americane, poi in rete, ha cominciato a “dare fastidio” solo quando è approdata alla carta stampata. In un libro
di Stefania Scateni, L’Unità, 26 febbraio 2009
La storia della New Italian Epic inizia nel 2008, quando Wu Ming 1 mette in rete il suo “memorandum 1993-2008”, rielaborazione delle conferenze tenute dall’autore in alcune università americane, tra le quali il Mit di Boston. Due quotidiani (uno è l’Unità), ne riportano alcuni brani sulle pagine culturali. In rete inizia una vasta discussione. I critici tacciono. Il dibattito on line porterà l’autore a integrare, ampliare e stilare una versione “2” e successivamente una versione “3” del memorandum, quella che viene pubblicata alla fine di gennaio in un volume edito da Einaudi Stile Libero – New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro – corredata da un intervento tenuto da Wu Ming 1 all’Università di Londra nell’ottobre scorso e un lungo testo di Wu Ming 2 sulla mitopoiesi e sul significato del raccontare storie oggi.
Cosa dice Wu Ming 1? In sintesi: coglie un nesso tra numerosi romanzi scritti da altrettanti scrittori dopo la caduta del muro e soprattutto dopo l’11 settembre del 2001. Scrittori diversi per età, stile, tematiche, radici. Romanzi diversi per qualità di scrittura, ambientazione, stile. In comune, rileva Wu Ming 1, possiedono una forte tensione etica, sono ambiziosi, hanno sembianze di romanzo storico, riguardano imprese che coinvolgono le sorti di classi, popoli, nazioni, e in ognuno di essi convivono differenti e inattesi punti di vista. Ma, soprattutto, tutti immaginano vie d’uscita possibili dal nostro asfittico presente. Alcuni titoli: Gomorra (Roberto Saviano), Romanzo criminale (Giancarlo De Cataldo), La presa di Macallè (Andrea Camilleri), L’Ottava vibrazione (Carlo Lucarelli), Sappiano le mie parole di sangue (Babsi Jones), L’angelo della storia (Bruno Arpaia), L’uomo che voleva essere Peròn (Giovanni Maria Bellu), il Ciclo del metallo (Valerio Evangelisti), Hitler (Giuseppe Genna), 54 e Manituana (Wu Ming).
Cosa ha in sostanza fatto Wu Ming 1? Ha compiuto una lettura comparativa dei testi pubblicati in un decennio e più e ha allargato lo sguardo sopra le consuete (e obsolete) griglie di “lettura” dei testi, saltando a piedi pari le “classificazioni già date”. Cioè saltando a pie’ pari la critica letteraria. Affidandosi invece ai contributi in rete. Ed è per questo, ma forse non solo, che dopo l’uscita di New Italian Epic hanno deciso di scendere i critici, con recensioni polemiche e negative. Fin qui tutto regolare. I critici criticano (a volte).
SPIEGAMENTO DI FORZE
Interessante invece è sia lo spiegamento di forze – Chiaberge sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore, un’articolessa su Alias firmata da Emanuele Trevi, un intervento di Filippo La Porta sul Corriere e due pagine su La Stampa, la prima sull’inserto Libri del sabato a firma di Antonio Scurati (in sintonia con la Nie) e qualche giorno dopo l’intera prima pagina della Cultura con un articolo di Fabrizio Rondolino (fortemente critico) – sia le motivazioni delle critiche. Per farla breve si accusa Wu Ming di: non occuparsi di letteratura, di non potersene comunque occupare perché è uno scrittore, di avere il culto delle classifiche, di fare autopromozione.
Una prima osservazione ovvia e persino facile, di cui ci scusiamo: se di letteratura può parlare la persona che ha portato il Grande Fratello nella tv italiana, perché uno scrittore invece non “deve” parlarne? Tutti gli scrittori che scrivono di altri libri, che si dedicano alla critica, quindi non possono farlo. Rondolino avrebbe zittito anche Pasolini? E, soprattutto, cos’è la letteratura? Che cos’è la letteratura oggi in Italia? E chi decide cosa sia letteratura e cosa non lo sia? Qualche guardiano della letteratura? E se sì, chi sono? I critici letterari? O chiunque mastichi di libri come Rondolino?
Veniamo al culto delle classifiche, aeterna quaestio: la letteratura non può vendere altrimenti non è letteratura, e se vende molto è solo un’eccezione (certo, se diamo uno sguardo alle classifiche dei libri potremmo anche trovarci d’accordo). Cioè va in classifica solo roba semplice, facile. I titoli che compongono la costellazione della Nie non sono per nulla “semplici” o “facili”. Sono un insieme di romanzi, alcuni dei quali riusciti, altri no, alcuni proprio belli, altri proprio brutti. Ma non è questo il punto. Il punto è che qualcuno ci ha visto delle corrispondenze, degli intenti comuni. Li ha visti e lo ha detto da lettore, scrittore e intellettuale. Quello che la critica non vede – perché porta occhiali inadeguati per i nostri tempi complicati e fuggenti – è un’esperienza, anzi la ricerca di un’esperienza. Quella della contemporaneità. C’è un’affascinante lezione che Giorgio Agamben tenne all’Università di Venezia nel 2006, pubblicata in un “Sasso” Nottetempo e ora inserita nella raccolta Nudità (Nottetempo). Che cos’è il contemporaneo?, chiede Agamben. Il tentativo di risposta è complesso e affascinante, ma un nocciolo della questione emerge: il contemporaneo è colui o ciò che non si fa accecare dalle luci del presente e riesce a guardare nel buio del presente come fosse una luce che è diretta verso di noi ma non può raggiungerci, come una stella che si allontana velocissimamente dalla Terra ma la cui luce viaggia verso di noi. Il contemporaneo è anacronismo e ha una speciale relazione del passato perché sta negli interstizi. Per questo riesce a vedere quello che la moltitudine non è in grado di vedere.
Rarissimi sono i contemporanei, c’è chi almeno ci prova. E i romanzi che Wu Ming 1 ha raccolto nella galassia Nie hanno un tratto in comune, il punto di vista sbieco, lo sguardo da un interstizio della realtà (o di se stessi che è la stessa cosa). Ecco, i nostri critici potrebbero provare a mettersi in contatto con questa galassia, a decodificarne il linguaggio, invece di limitarsi a guardare con gli occhi dritti al loro panorama preferito, che peraltro sta svanendo.
Appendice:
NEWS IN GIRO PER LA RETE SUL NEW ITALIAN EPIC
Sul blog “Letteratitudine” di Massimo Maugeri (nella foto), una lunga e approfondita intervista a Wu Ming 1 sul NIE.
Nello spazio commenti WM1 e WM2 rispondono alle domande dei lettori. Intervengono anche altri scrittori (Valter Binaghi), studiosi della letteratura (Marco Gatto) e varia, bella umanità.
Su Absolute Poetry, Valerio Cuccaroni (dottore di ricerca in Italianistica all’Università di Bologna e Paris IV-Sorbonne) ha pubblicato la prima tranche di un suo atteso intervento su New Italian Epic e poesia contemporanea.