di Saverio Fattori
Tutti i capitoli di “Cattedrale”
Sono tornato al mio carretto dopo i giorni al Reparto Imballo, la catena di montaggio è ripartita.
Sono sereno, intontito e beato, l’abitudine è un potente narcotico. Riprendo il lavoro che so eseguire correttamente nei tempi previsti dallo Standard Work. Ogni volta mi stupisco di come una parte di noi, la più grossa e determinante, possa affezionarsi alla prigionia della Cattedrale.
È una reclusione part-time. Tecnicamente siamo uomini liberi, le ore esterne ci consentono una breve mutazione da produttore a consumatore. Brulichiamo nei centri commerciali, nello struscio delle città di provincia, stazionando davanti ai bar di piazza. Le stesse frasi che saltano identiche di generazione in generazione, ronzano nei mulinelli d’aria, si annidano negli interstizi delle costruzioni più antiche. È quello che sappiamo fare. I più idioti tra gli idioti leggono a voce alta gli oroscopi o commentano programmi televisivi per ritardati mentali, invidiano concorrenti di tele quiz e puttane popolari. Commentano fatti insignificanti come gastroenteriti, natività, matrimoni, interventi chirurgici nella zona vaginale. Non hanno il senso dell’intimità e della riservatezza. Parlano troppo e imbarazzano.
Se si operano di emorroidi rendono partecipi tutti del malanno, l’ultimo giorno prima del ricovero ricevono gli auguri delle colleghe. Le battute a doppio e triplo senso sono inevitabili. Individuano nemici, la loro indignazione è stemperata in un abulico fatalismo. La libertà è difficile da gestire, materia per esseri superiori. Io sono un idiota. La mia cella è sicura, custodisce, dà un senso all’esistenza e mi protegge, scandisce i tempi vitali.
Oggi siamo tutti carichi di energia, la cassa integrazione e la migrazione verso altri reparti è finita, siamo tornati nella nostre acque putride ma prive di insidie. Siamo mestamente felici. Scherziamo, anch’io non riesco a essere cupo e disarmonico come al solito, tocco il culo alle ragazze, fingo volgarità nei limiti che mi consentono. Sono automatismi. Queste creature non mi piacciono. Io non piaccio loro. Io non mi piaccio. La loro autocoscienza non è piena, si limita a cattive sensazioni mal focalizzate. Ma oggi tutto è luminoso, i kapo reparto sono esseri con una loro umanità. Oggi la casta dei dirigenti con il codazzo di cortigiani privilegiati, l’avverto come onda protettiva che salvaguarda il mio quieto produrre senza implicazioni intellettuali. Amen. Siamo Padani, sud-est padano. Siamo fatti così. In Emilia abbiamo finto di credere al Socialismo Reale, a una rivoluzione dolce, un sano pragmatismo ci ha preservato dalla Fantasia al Potere. Abbiamo creato laboratori di buon governo locale, zone artigianali e industriali ordinate e gravide, possiamo vantarci di non aver mai votato Balena Bianca. Eravamo un modello di concertazione. Ancora oggi ci pigliamo per il culo vantando Ferrari e Ducati. Continuiamo a raccontarci un sacco di cazzate. Meglio del nord est, terra di nani da giardino e lap dance. Finiremo male. Comunque.
Il Frank oggi è sprezzante, molto diverso da venerdì. Ha gli occhi spenti e il pallore di un’altra dimensione, deve avere avuto un fine settimana delicato, una sigaretta spenta gli penzola dalla bocca. Si tiene a distanza di sicurezza dal movimento disumano che anima la zona armadietti. Il nucleo delle operaie pare bastare a sé stesso, lui non è più la novità, nessuno ricorda il miracolo della macchina di collaudo. È sempre l’esotico a scaldare gli ormoni, le ragazze si danno di gomito a ogni faccia nuova, che sia un tecnico di un’impresa esterna o il giovane prete venuto a benedire. Qualcosa deve modificare il quadro. Se vuoi scoparne una devi sbrigarti, le tattiche attendiste non funzionano, dopo pochi mesi di convivenza il tuo cazzo ha la stessa attrattiva di un avvitatore elettrico. Le ragazze oggi si fanno le feste, almeno un paio hanno riguardi che sembrano vicini al lesbismo da collegio. Alcune sono andate dalla parrucchiera, sono più carine, in generale la pausa ha donato a tutte, si sono accumulate piccole novità da narrare, i rancori personali sono stati accantonati, ferite che torneranno infettarsi tra poche ore. Ci dovrebbero essere più spesso periodi di cassa integrazione soft che scivolano indolore. Sono scricchiolii che ancora non mettono angoscia, le prime crepe. Cassa integrazione a rotazione, estinzione delle ore accumulate in flessibilità durante periodi di vacche grasse, esaurimento ferie individuali, mancato rinnovo di contratti a tempo determinato, inventari supplementari. Un cataclisma di portata immane sta per abbattersi su questa struttura e su altri luoghi simili a questo. La Cattedrale lascerà orfani i suoi cuccioli nati ciechi. Alcune profezie convergono sul 2009 come data dell’apocalisse. Nel bagno della Produzione questo numero appare e riappare da sempre, senza che nessuno ridipinga il muro, almeno io non ho mai visto eseguire questa operazione. Sotto, tra i due zero, è posta un croce rovesciata. Quando lo faccio notare le persone cambiano discorso, cioè tornano sullo stesso discorso. Il campionato di calcio, se sono maschi. La prole, se sono donne. Ma non sono convincenti nel trattarmi da idiota drogato, non riescono a dissimulare l’emozione, sembrano leggermente scossi. Quando militavo al Controllo Qualità nessun calendario di verifiche e certificazioni prevedeva l’anno 2010. Nell’armadio dell’omino delle procedure, chiuso a chiave in un cassetto, avevo scorto per pochi secondi un raccoglitore a molle con la copertina di pelle nera e la croce ribaltata sbalzata color oro. In quel cassetto teneva anche le pasticche del Re Sole, unica sua trasgressione, ogni due ore si portava una mentina verso le labbra sottili ed esangui, con un movimento misurato e identico. Non faceva altre pause, non frequentava nessuna Area Caffé, ma non aveva parole di biasimo per la nuova borghesia caciarona che bivaccava decine di minuti, improvvisando volgari party aziendali, prendendo a scusa compleanni o altre ricorrenze idiote. Io cercavo di emularlo nel suo ascetismo, non mi lamentavo e stavo concentrato sulle carte, anche se con risultati mediocri. Non ero efficiente, almeno potevo essere disciplinato. Sta di fatto che la croce oro e quel numero avevano attirato più volte la mia attenzione. Alla richiesta di spiegazioni l’omino era stato evasivo, aveva chiuso la questione con una risposta assurda. Stava studiando da diacono. Strana spiegazione, non si pretendono studi o competenze particolari per servizio di diaconato. È necessaria coerenza e limpidezza d’animo, fede cristallina. L’omino aveva in sé già tutte le qualità necessarie, conservava la saggezza e la conoscenza. L’omino era dignitoso, mai doppio nel parlare, solo non poteva rispondere sinceramente alla mia domanda. Non era disonestà intellettuale, io non ero pronto alla risposta. Se fosse ancora in vita chiederei a lui del futuro prossimo della Cattedrale. A quali sventure andremo incontro nei prossimi mesi?
Alle ragazze oggi non interessa il futuro, sono leggere, al massimo del proprio splendore.
Noto tre ragazze aggrappate alla ringhiera della scala che porta all’ufficio, hanno un altro umore, a parlare è la meno carina, bassa di statura, viso anonimo, ha un fisico massiccio, ma è di quelle che il seno grosso funge solo da arma di offesa. Il Frank mi arriva alle spalle, silenzioso e gonfio di veleno come una serpe.
– Non devi aver trattato bene la tua schiava nuova. Ti sei divertito a tormentarla? Hai fatto bene. Avrei fatto lo stesso. Se era una idiota hai fatto benissimo a farlo presente alla capa. Che poi se lei lavora male sono tutti cazzi tuoi che le hai insegnato male. Eccheccazzo. Aveva la faccia da ebrea. Ebrea di origina polacca. Si chiamava Ester se non sbaglio. Bravo vecchio… non devi mica sentirti in colpa, mi sa che era arrivata già esaurita.
Sono già meno sereno anche se ancora non capisco le parole del Frank. Sta appoggiato al suo muletto, ha acceso la paglia che penzola dalle labbra, pensa di essere Clint Eastwood, le norme antifumo non lo riguardano. Le tre molecole portatrici di sventura si staccano dalla ringhiera e come amebe tossiche si uniscono al resto del branco cellulare. Ora stazionano in osmosi, attorno al tavolone, in attesa della sirena. Ondate di negatività mi tolgono il respiro. Il viso mi avvampa, al solito tradisco così la mia emotività, i miei esercizi di autocontrollo non funzionano, deve essere una tara genetica, stampata nel DNA. Inizio a ripetere cosa è successo come un disco rotto proprio quando ho perfettamente capito quello che è successo.
L’avevano trovata i figli, uno di sei e uno di otto. Si erano svegliati da soli quando si erano resi conto che era scappata l’ora per raggiungere la scuola in tempo utile. Li vedo arrangiarsi in bagno. Il più grande avrà messo il dentifricio sugli spazzolini eseguendo davanti allo specchio l’operazione per primo. Il piccolo lo avrà imitato con un po’ di impaccio. In cucina la luce è ancora spenta, il padre tutte le mattine lascia la casa verso le sei e fa colazione al bar di piazza. I due marmocchi devono aver esplorato le stanze della casa emettendo il verso caratteristico dei cuccioli, mamma, mamma, mamma, fino all’ultimo ambiente, quello adibito alle festicciole tra gruppi familiari, grigliate, serate castagne-vino novello. La trave della tavernetta aveva ceduto per quei cinquanta chili scarsi, ma lei era morta lo stesso, spezzandosi l’osso del collo. Sembra una di quelle storie che racconto in mensa. Non ho alcun senso di colpa, mi sento solo derubato della parte di cantastorie, fregato dalla realtà. Non è colpa mia. Cazzo c’entro io. Quella donna aveva i suoi problemi, avrebbe dovuto rivolgersi a uno strizzacervelli, uno bravo. Mi giro, ficco la chiavetta nella macchina del caffé e digito 31, caffé lungo, e ho molti occhi che pesano sulla schiena, li percepisco. Forse è solo paranoia. Non so più se ho ancora eroina, ho il cervello in merda, non ricordo se l’ho finita o se ho fatto la provvista del venerdì, non ricordo che giorno è. È sempre venerdì, quando i giorni sono identici le settimane non esistono. Ho sbagliato a digitare il numero, nel bicchiere di carta c’è una broda indefinita. Potrebbe essere cappuccino di caffé d’orzo, potrebbe essere diarrea molto liquida di cagnolino casalingo. La sorbisco rivolto alla macchinetta, quando una mano ruvida si appoggia alla spalla e mi gira.
– Cercavi questa? Hai bisogno di questa. Questa ti calma i sensi di colpa? Per quanto tempo? Un’ora? È così buona che potrebbe farti vegetare sereno per così tanto?
Il Frank tiene l’involucro di plastica trasparente sul palmo della mano, poi stringe i pugni e li mette dietro alla schiena, me li ripresenta. Ha frugato nelle tasche del mio giubbotto nell’ora di pranzo, io ho infranto una regola fondamentale di sicurezza. E sono stato punito.
– Dai vecchio, indovina dov’è e fatti un’ora come si deve. È un tre quarti di grammo. Se vuoi ti procuro la spada e te la spari tutta nei cessi della fabbrica. Una bella fine, no? Pensa quando arriva l’ambulanza. Queste dementi avranno qualcosa di cui parlare per un po’. Ti saranno tutti grati.
Quando urla il Frank ha una voce inaspettatamente stridula, sembra un femminiello che starnazza perché arrivi il suo protettore. Che puntuale si materializza. Marani chiede spiegazioni, per una cosa così rischio il licenziamento, gli ho fornito uno splendido pretesto. Il Frank ha il volto arrossato, ma nessuna ustione, nemmeno si ripulisce della brodaglia scura che gli riga le guance. Dopo l’urlo se ne sta in silenzio, nessuna protesta.
Ho recuperato l’involucro mentre tutta l’attenzione era focalizzata su di lui. Il Frank strattona violentemente il dirigente e mi viene a parlare in faccia. Solo io posso sentirlo.
– Dobbiamo collaborare io e te. Davvero non ti entra in testa?
Marani è della vecchia guardia, non è biodegradabile, ha resistito a tutto, galleggia da secoli, non invecchia, nelle foto aziendali di gruppo ha sempre un aspetto identico, mentre le altre comparse in posa o spariscono o appassiscono anno dopo anno. Ha seppellito baroni che parevano immortali, ha disarmato gruppi di consulenti pagati per fare fuori lui e quelli della sua specie. Pare digerire a fatica le nuove linee guida, sembra inadeguato ai cambiamenti, poi si integra, si mimetizza e riprende la guida delle operazioni. È piuttosto rude, rozzo quanto basta per farsi rispettare e capire anche dagli operai più disincantati. Che sono razza in estinzione. Non riuscirei mai a spiegare ai miei colleghi come paradossalmente proprio gente come lui condanna questo luogo all’arbitrio e all’ingiustizia. Non trovo le parole per definire una multinazionale provinciale. In realtà il segreto è quello di estendere privilegi incomprensibili, a lavoratori di bassa professionalità che mantengono il controllo sulla truppa che mangia il rancio gelato in trincea. Di recente hanno concesso un premio di 500 euro a tre persone, senza alcun motivo. Non hanno meriti né colpe. Tre persone a caso. Non sono facilitatori, non sono capobranco naturali, non hanno incarichi particolari. Lo scorso anno era stato affisso in bacheca un documento che riportava i nomi dei dipendenti a zero ore di malattia e i ringraziamenti della direzione. Una iniziativa che conteneva in sé aspetti grotteschi, ma che si poneva l’obiettivo di idee di dare una gerarchia di merito a un luogo che chiede solo cieca dedizione e nessun talento. Con questo premio di 500 euro random siamo all’astrattismo puro. Potevano andare in ordine alfabetico o per estrazione. Invece i tre nomi sono usciti dal nulla. Un’iniziativa della direzione né generosa né crudele. Un atto senza logica, spiazzante. La mancanza di senso ti fa sentire impotente, nelle mani di un destino beffardo.