di Stefano Boni

PasionPatria.jpg[Tra pochi giorni si vota, in Venezuela, sulla possibilità che un presidente, nella fattispecie Hugo Chávez, possa essere rieletto più volte consecutive (ciò a cui aspira anche il diretto rivale di Chávez nella regione, Alvaro Uribe, presidente della Colombia). Ma le elezioni saranno trasparenti? Stefano Boni, di idee libertarie, riferisce delle ultime elezioni cui ha assistito in Venezuela, le amministrative del novembre 2008, senza tacerne luci e ombre.]

Il 23 Novembre si sono svolte le elezioni regionali in Venezuela. Il Venezuela è una repubblica federale, si eleggevano, quindi, i governatori di 22 stati e i sindaci. Il Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV), di Chávez si è aggiudicato 17 dei 22 stati, perdendo però nella capitale Caracas e in altri stati popolosi. Nel complesso il PSUV ha ricevuto circa il 54% delle preferenze sconfiggendo l’insieme variegato delle opposizioni, con uno spettro che va da partiti di ispirazione comunista, che si sono rifiutati di entrare nel PSUV lanciato da Chávez lo scorso anno, a frange neoliberiste.

I sondaggi davano il PSUV in difficoltà in diversi stati fino a un paio di settimane prima delle elezioni. Nello stato di Sucre, dove ho assistito alle elezioni, il candidato della opposizione pareva destinato a vincere con un ampio margine. A quel punto la macchina del PSUV si è mobilitata, dispiegando tutta la sua capacità di raggiungere e mobilitare la gente dei quartieri popolari. Tre settimane prima delle elezioni è stato versata la prima paga del plan de empleo, una politica finalizzata a mobilitare le comunità in attività socialmente utili (principalmente pulire le strade della comunità, lavori di mantenimento e decoro urbano) in cambio di una paga quindicennale di 400 BsF (circa 70 euro al cambio non ufficiale, il doppio a quello ufficiale). Erano previsti tre pagamenti, due prima delle elezioni, il terzo dopo. In teoria i beneficiari dovevano essere solo disoccupati. I batallones, organi del PSUV nei quartieri, sono stati incaricati di gestire l’operazione plan de
empleo
: i coordinatori dovevano fornire le liste di patrulleros, ossia gli appartenenti ai batallones, a cui versare i soldi. I batallones esistenti si sono gonfiati di persone (addirittura di professionisti e impiegati), anche della opposizione, e se ne sono creati numerosissimi di nuovi. In alcuni quartieri la maggioranza degli adulti era iscritta a un batallon. A pochi giorni dalle elezioni, alcuni coordinatori dei batallones si sono appropriati delle paghe e i pagamenti, che dovevano essere distribuiti ai patrulleros nelle comunità, sono stati interrotti, anche per mancanza di liquidità. Alcune frange delle lunghe file di chi andava a ricevere i soldi, infuriate per essere rimaste senza beneficio, hanno bloccato strade e bruciato copertoni, modalità di protesta frequenti in Venezuela.

La distinzione tra presidente, partito, stato e popolazione è spesso volutamente ambigua. I batallones, promossi come politica di assistenza sociale, sono stati in realtà una macchina politico-elettorale al servizio del PSUV. Ogni patrullero, ovvero membro del batallon doveva, in teoria, impegnarsi a reperire dieci voti per il partito. La settimana prima delle elezioni attivisti del PSUV hanno predisposto chioschi nelle strade per insegnare a votare e per assicurarsi, in ogni comunità, una lista dei votanti favorevoli al PSUV. Il giorno delle elezioni macchine fornite da PDVSA (la potente azienda petrolifera di stato) portavano i votanti ai vari centri elettorali. I militanti tenevano il registro di chi aveva votato e lo comunicavano al direttivo del partito. Il candidato sindaco di Cumaná, la capitale dello stato Sucre, per il PSUV, il giorno delle elezioni si è presentato davanti al centro elettorale, incitando a reperire fino all’ultimo voto e distribuendo soldi a qualche anziano e bambino. Un signore, insistentemente, gli chiedeva soldi e gli mostrava le mani prive dell’inchiostro viola con cui viene macchiato un dito di chi ha già espresso il voto. Nel complesso la combinazione tra i soldi e i servizi provenienti dalle istituzioni, l’attivismo dei luchadores sociales nei quartieri, e il consenso della gente povera ha consentito mobilitazioni massiccie, principalmente nei quartieri popolari. Il risultato è stato una vittoria del PSUV nello stato e in ciascuno dei quindici municipi. Nello stato di Sucre, come in quasi tutti gli altri stati, l’opposizione non ha messo in discussione la legittimità del voto, ma ha contestato chi si è fatto comprare la coscienza per soldi. “Hanno vinto le banconote” ha sintetizzato il governatore uscente, dell’opposizione.

La tensione più interessante del Venezuela odierno non mi pare tanto quella tra il PSUV e l’opposizione ma tra le comunità e gli apparati burocratici del partito-governo. La tensione da un lato riguarda la distribuzione della ricchezza e dall’altro l’autonomia e il potere delle comunità. L’appoggio a Chávez si fonda sulla ridistribuzione della rendita petrolifera. Nei settori poveri in molti sentono che, negli ultimi dieci anni, quelli della presidenza Chávez, i servizi sanitari, educativi, alimentari sono migliorati e sono stati resi più accessibili anche ai poveri. Si sono moltiplicati i sussidi per diverse categorie svantaggiate, seppur a volte elargiti in maniera paternalista e nepotistica. Inoltre il governo ha avviato politiche di coinvolgimento cittadino mediante assemblee di quartiere che ricevono finanziamenti statali per progetti di ristrutturazione di case, elettrificazione, lavori di drenaggio, centri sociali, recinzione, muri di contenimento, fermate del bus. I progetti sono gestiti dai membri eletti del quartiere, supervisionati dalla assemblea. Eppure le comunità si vedono in continuo conflitto con l’apparato burocratico-istituzionale che pur hanno contribuito ad eleggere. Un apparato che parla di potere socialista, ma agisce in maniera centralizzata e tenta di limitare l’autonomia delle basi.

I candidati del PSUV nello stato Sucre erano già indigesti prima delle elezioni. Dopo le primarie, che li hanno investiti ufficialmente, in diversi hanno protestato perché li ritenevano corrotti, poco efficienti, non trasparenti, incapaci di dialogare con le comunità. Dopo le elezioni, i primi passi dei candidati sono stati fortemente criticati da molti dei militanti del PSUV. Al sindaco e alla moglie viene contestata l’arroganza, il tentativo di indebolire le assemblee comunitarie e il fatto di aver sostituito molti dirigenti municipali senza avere consultato nessuno, dando le poltrone a gente del proprio giro.
Il neo-eletto governatore si è trovato coinvolto in una contestazione. Alcuni di quelli che si erano impegnati, due settimane or sono, per convincere la gente a votare PSUV, chiedono al governatore dello stato di offrire loro un lavoro come promotori sociali nelle comunità. Inoltre, ha subito un grave incidente un dirigente di partito che teneva i contatti con i militanti che si impegnano nei quartieri, una persona a cui la gente era affezionata e che costituiva un anello tra istituzioni e militanti, garantendo la redistribuzione di beni e lavoro a molti. Il neo-governatore lo ha sostituito senza consultare le basi, come è d’uso.
La voce della rimozione è corsa sui telefonini e una ventina di agguerriti attivisti PSUV si è affollata fuori della porta della sede del governatore, custodita dalla polizia. I militanti gridavano che in uno stato socialista le porte delle istituzioni devono essere aperte e chiedevano “Che socialismo è questo?”, mentre bloccavano l’uscita, varco obbligato per il governatore che voleva passare. Alla fine il neo-eletto se l’è cavata con la promessa che la sostituzione del dirigente sarà temporanea e che si creerà una commissione per valutare la possibilità di impiegare lavoratori sociali.

Appare sempre più chiaro che il destino della rivoluzione bolivariana in Venezuela non sarà determinato dai proclami anti-imperialisti di Chávez, ma si giocherà nella dialettica tra centralizzazione e autogestione, tra imposizione burocratica-istituzionale e autonomia comunitaria, tra gerarchia partitica e gestione assembleare. Intanto Chávez, evidentemente soddisfatto dei risultati elettorali, ha deciso di (ri)proporre l’eliminazione della limitazione per la rielezione del presidente della repubblica a soli due mandati, contenuta nella costituzione da lui promossa nel 1999, in modo da potersi ricandidare. Dice di aver intenzione di continuare a guidare la nazione fino al 2021. L’emendamento è analogo a uno dei punti più contestati della riforma costituzionale bocciata dal voto popolare nel 2007, unica sconfitta elettorale di Chávez. Si apre un’altra sfida istituzionale ed elettorale il cui il risultato dipende da piccoli avvenimenti, in angoli del paese spesso ignorati, che hanno a protagonisti attivisti energici e coscienti e membri delle comunità.