di Danilo Arona
Una ricerca clinica di quasi trent’anni fa, Men Who Rape di Nicholas Groth e H. Jean Bimbaum (Plenum Press. New York, 1980) è in grado di offrire ancora oggi considerazioni per nulla datate e sorprendentemente attuali su certi, orribili fatti di cronaca nera in fase dilagante qui come in diverse altre parti del mondo. Tra i reati quello dello stupro, in buona parte consumato ai danni di donne più o meno giovani e non di rado accompagnato dalla morte della vittima, è tra i più odiosi e tragici, di certo non sanzionato a dovere dai codici di riferimento. Ma un eventuale inasprimento penale (per quanto auspicabile se non altro per un minimo di tutela preventiva) non risolverebbe il problema: in certi stati americani dove gli stupratori conclamati se ne vanno in galera per molti anni, il reato non ha mai conosciuto significative percentuali di calo, giusto per rinforzare il secolare dibattito tra le ampiezze dei delitti e delle pene.
In Italia la problematica si è negli ultimi anni complicata a causa dell’aumento esponenziale delle minoranze etniche. Senza lasciarsi travolgere dai luoghi comuni (ma non per questo abbracciare a tutti i costi un acritico politically correct), va rimarcato che una certa percentuale di stranieri maschi, soprattutto dell’Est europeo, ha rimpinguato e affiancato gli italici branchi, consolidando purtroppo lo stereotipo del feroce rumeno violentatore. Gli stereotipi, ovvio, sono tali perché quasi sempre mentono. Ma è sul quel “quasi” che anche le coscienze più illuminate fanno fatica a soffermarsi. Perché, spesso (come nel recente brutale caso di Guidonia), cronaca e statistiche danno ragione allo stereotipo. Allora ecco farsi largo penose discussioni finto-sociologiche sulle percentuali di stupratori censibili a seconda dalla nazionalità. Ho udito con le mie orecchie diatribe sull’ipotetica minor pericolosità sociale di un branco di fighetti milanesi rispetto all’analogo di sbandati pastori rumeni, o viceversa. Fiere del delirio che parlano d’altro e non si occupano affatto del problema. Allora ci può tornare il libro che ho citato in apertura. Perché, alla fine degli anni settanta, Groth e Bimbaum questo scrivevano in un paragrafo del loro lavoro dal titolo significativo Rape: a Pseudosexual Act:
“Numerose opinioni popolari persistono sul conto dell’aggressore, della sua vittima e dell’aggressione stessa. Per quanto riguarda l’aggressore, è spesso considerato uomo in preda alla lussuria vittima di una donna provocante, oppure viene visto come un uomo sessualmente frustrato che reagisce sotto la pressione dei suoi bisogni repressi, o infine viene concepito come un folle maniaco sessuale in cui albergano desideri insaziabili. Tutte queste concezioni presentano lo stesso equivoco di base: suppongono che il comportamento dell’aggressore sia principalmente motivato dal desiderio sessuale e che lo stupro sia diretto solo alla gratificazione di questo bisogno. Al contrario, un attento esame clinico degli aggressori rivela che in realtà lo stupro soddisfa primariamente dei bisogni non sessuali. E’ l’espressione sessuale della volontà di potenza e di espressione dell’Io. Un assalto sessuale con l’uso della forza è motivato più da ragioni di rappresaglia e di compensazione che da moventi sessuali. Lo stupro è un atto pseudosessuale, complesso e plurideterminato, mosso da questioni di ostilità (ira) e di controllo (potenza) più che di passione (sessualità). Considerare lo stupro come un’espressione di desiderio sessuale non è soltanto inesatto dal punto di vista concettuale, ma costituisce anche un’assunzione insidiosa, perché sposta buona parte della responsabilità del misfatto dall’aggressore alla vittima.”
Sono più d’una le considerazioni al riguardo, tenendo pure conto del trentennio intercorso. Intanto il ribadire che la vittima non è mai colpevole (tutt’al più ingenua e un po’ dabbene in certi casi, il che non ha nulla a che fare con il concetto di responsabilità), solo perché donna, magari bella e magari alle faticose prese con il suo inviolabile diritto di camminare sicura per una via periferica nella sbandierata quinta potenza industriale del mondo. Quindi l’aver centrato in pieno, magari alle prese con materiali clinici di stupratori solitari, la dinamica pulsionale del branco, in una visione allora futuribile dell’allargamento su scala planetaria della pratica dello stupro di gruppo. Perché questo sembra comunicare oggi la notizia: lo stupro è un atto di guerra e gli stupratori, più che criminali, paiono i soldati di un esercito conquistatore.
Se l’etichetta risulta sin troppo comodamente applicabile agli stranieri qualsiasi sia la loro nazione di provenienza, la verità sottesa è però sostanzialmente un’altra, e trattasi di verità senza documento di riconoscimento: lo stupro è un problema esclusivo degli uomini. Per essere precisi, di alcuni maschi che, una volta unitisi in gruppo (legione, plotone o banda di campagna), presumono di dare senso alla loro aggregazione con un atto di tipo bellico: l’aggressione di gruppo ai danni di una vittima indifesa di sesso opposto. Il fatto che non esista diversità di segno antropologico tra gli stupri etnici che regolarmente accompagnano le decine di guerre dimenticate del pianeta e la notte degli orrori di Guidonia non richiede a mio parere alcuna discussione in merito, pur prestando un consapevole fianco a equivoche interpretazioni di stampo razzistico. Ma il problema esiste — la cronaca ne offre svariati esempi — tanto per gli uomini dell’Est che per i “nostri”. E allora gli stereotipi andrebbero almeno rivisitati. Perché gli orrori del Circeo e la tristissima vicenda di Valentina Cavalli parlano italiano.
Sui primi e sulla loro ricaduta storica non è necessario che mi dilunghi, anche se continua a persistere un senso di giustizia “mancata”, date le varie e complesse vicende che hanno travolto i vari protagonisti. Su Valentina, nata non troppo lontano da casa mia in quel di Casale Monferrato, invece non saranno mai troppe le parole da spendere. Lei, che studiava medicina a Milano, fu stuprata nel 2002 da due “bravi ragazzi” della metropoli lombarda (uno faceva da palo dopo avere massacrato di botte il fidanzato). Un minibranco, ricchi, di quelli che — secondo la diceria popolare – “non si fanno un solo giorno di galera perché hanno i soldi”. In effetti più o meno così è andata. Pochissima prigione, una pacca sulle spalle perché “vabbé-è-una-ragazzata” e Valentina che tenta di continuare a vivere, studiando e laureandosi in neuropsichiatria a Torino. Ma forse, proprio il suo mestiere e la materia che ne è oggetto, le impediscono di affrancarsi dal terribile episodio. E Valentina nell’estate del 2008 si toglie la vita. Probabilmente non ce la fa più. I suoi aguzzini sono fuori, persino liberi in teoria di rifare quello che hanno fatto.
Valentina Cavalli come vittima di guerra. Come le donne in Iraq o in Afghanistan. Quelle “viste” in Redacted di Brian De Palma o in Racconti di Stoccolma. Quelle straniere (di cui poco si parla), violentate da loro connazionali o a volte da italiani. Violentate, spesso uccise. Appunto, “stato di guerra”. Una condizione prettamente mentale, una sorta di orripilante paesaggio dell’anima, di cui tanti soffrono senza neppure saperlo. Uno status che investe disaffettivamente lo “spazio” (e la sua mancanza), l’antagonismo e i troppi disagi di una società sempre più fragile e con poche prospettive.
Forse anche lo stupro bellico è una spia dell’Apocalisse. Perché le donne che lo subiscono poi non hanno più un’anima e un corpo loro.