di Girolamo De Michele
[In calce a questo post, link e novità dal dibattito sul NIE]
-1 (intro)-
La storiografia materialistica non sceglie a cuor leggero i suoi oggetti. Essa non li prende, ma li esplode dal corso della storia. I suoi procedimenti sono più minuziosi, i suoi eventi più essenziali.
Walter Benjamin, I «passages» di Parigi, N 1, 4 (trad. modificata)*.
Il dibattito in corso sul NIE sembra, talvolta, rimanere impigliato nella questione dell’allegoria, della sua non sempre agevole differenza rispetto al simbolo e alla metafora. La questione non è nuova: l’allegoria ha sempre avuto cittadinanza non facile nella critica italiana. Più della sua complessa presenza in Dante, ha pesato la liquidazione crociana dell’allegoria come cattiva metafora, alla quale si è aggiunta la poca incidenza che ha avuto in Italia il pensiero di Walter Benjamin, autore più citato e saccheggiato che letto e compreso (i marxisti lo considerano non abbastanza marxista, e i non-marxisti lo considerano troppo marxista); e, all’interno delle opere benjaminiane, l’estrema difficoltà delle opere che più trattano dell’allegoria: L’origine del dramma barocco e il saggio su Kafka.
Comprendere l’importanza dell’allegoria non solo come figura retorica, ma come espressione figurale dello sguardo obliquo dei narratori NIE è indispensabile per comprendere verso quali direzioni la narrativa italiana, da nessuno eterodiretta, sta camminando, e a quali questioni questo percorso è nei fatti una risposta. Ed anche: è un indispensabile strumento per comprendere quali relazioni esistono tra il narrare storie e la critica della storia.
Un primo esempio, tra quelli che scelgo di citare, è il Messico di Valerio Evangelisti, che ci porta immediatamente al centro della critica del presente che impronta buona parte della narrativa dell’ultimo quindicennio: il Messico di Evangelisti è l’allegoria della storia universale, di una storia che si risveglia dai sogni romantici. In questo mondo non ci sono dèi che governano la storia verso il meglio: la storia è un terreno succedersi di cadaveri, stupri, violenze. Non c’è nient’altro da capire: questa è la storia, questo è l’unico mondo che ci è stato dato. Prendere o lasciare [1].
-2-
L’oggetto dell’intenzione allegorica viene estrapolato dai nessi della vita: viene distrutto e conservato nello stesso tempo. L’allegoria resta fedele alle macerie.
Walter Benjamin, I «passages» di Parigi, J 56, 1.
L’allegoria ha spesso costituito un rompicapo per la critica. La sua differenza rispetto ad altre figure retoriche utili a dire una cosa per intenderne un’altra è emersa solo nella modernità, col romanticismo tedesco e infine con Benjamin. Eppure, con lo sguardo retrospettivo (che è una modalità conoscitiva tipicamente moderna, come insegnava Italo Calvino), la sua specificità era già pienamente dispiegata nella Commedia [2]. Cosa rende vive le allegorie dantesche rispetto alle “fredde allegorie” medievali? La storicità delle figure che, estrapolate dal loro contesto storico, mantengono per intero il loro senso storico all’interno del nuovo contesto ultraterreno in cui Dante le inserisce. Ma il senso storico trova un nuovo, o secondo, senso — si completa — nel nuovo contesto in cui viene inserito [3]. Facciamo un salto in avanti, sempre nel corso della tradizione (che solo per le ragioni dell’argomento è quella nazionale: le “patrie lettere” di uno scrittore non sono delimitate da confini, perché per il narratore, come per il filosofo, «ogni terreno è patria»). Nella Ferrara di Giorgio Bassani ciò che viene narrato, dietro la facciata del realismo, è spesso un oggetto allegorico che trova il suo significato reale solo quando si comprende quale Italia viene rappresentata nel teatro (della memoria) ferrarese. Come pezzi di Ferrara sono ritagliati dall’autore dai loro luoghi topografici e trasposti altrove in una topografia ideale, così, ad esempio, il personaggio di Pino Barilari, figura attorno al quale Bassani ha costruito il racconto Una notte del ’43, e Florestano Vancini la splendida versione cinematografica La lunga notte del ’43, avvalendosi della sceneggiatura di Pasolini e della straordinaria interpretazione di Enrico Maria Salerno. Pino Barilari è ritagliato dal reticolo delle relazioni personali di Giorgio Bassani e trasposto, con il suo nome e la sua malattia “storici”, dietro la finestra sulla farmacia, dalla quale assiste senza intervenire al massacro di 11 antifascisti la notte del 15 dicembre 1943 (il fatto storico avvenne in realtà il 15 novembre). Il suo personaggio ha una precisa collocazione storica, ma al tempo stesso si carica di valore allegorico rispetto alle miserie morali d’Italia: diventa l’italiano medio che resta a guardare di nascosto, che chiude gli occhi davanti alla menzogna.
L’allusione alla dimensione allegorica di Giorgio Bassani ci rimanda a due esempi di oggetto allegorico presenti nel NIE. Il primo è la descrizione dello spazio metropolitano come allegoria dell’Italia (o, perché no?, del mondo). Quarto Oggiaro, il quartiere milanese calpestato dai piedi di Michele Ferraro, protagonista di alcuni romanzi di Gianni Biondillo. Un tempo per conoscere una città bastava salire sulla torre più alta e scrutarne il disegno dall’alto: oggi bisogna immergersi nel fango e nello sporco delle sue strade, nei suoi quadri grigi e nelle sue luci gialle, nelle sue periferie costruite come se chi ci entrava a vivere non avesse interesse alcuno se non quello di passare la notte al coperto. Il quartiere milanese nel quale Biondillo ambienta i suoi romanzi è, nello stesso tempo, Quarto Oggiaro e l’Italia intera: è allegoria di un paese che ha perso non solo la capacità di dare senso la distinzione tra bene e male, ma anche la cognizione dell’esistenza di quella differenza. E attraverso questa allegoria Biondillo interroga con lo sguardo dell’architetto il quartiere per interrogarsi eticamente sulla deriva di una nazione [4].
Un secondo esempio è, nel mio La visione del cieco, l’allegorizzazione dello stesso Bassani: la voce di Bassani che irrompe dall’esterno del romanzo per denunciare nell’uomo medio «un pericoloso delinquente, mostro, razzista, colonialista, schiavista, qualunquista» conserva intera la violenza contro l’ipocrisia borghese dell’autore del Romanzo di Ferrara, ma si trasforma nella denuncia di un nuovo tipo di medietà, di ipocrisia, di miseria. Non è per caso che queste parole, provenienti dal set di un film sulla Passione, piombino nel salotto buono in cui si celebra una serata letteraria.
– 3 –
Eppure sembra che andiamo tutti in giro cercando di usare la lingua per cercare di comunicare agli altri quello che pensiamo e per scoprire quello che pensano loro, quando in fondo lo sanno tutti che in realtà si tratta di una messinscena e che si limitano a far finta. Quello che avviene dentro è troppo veloce, immenso e interconnesso e alle parole non rimane che limitarsi a tratteggiarne ogni istante a grandi linee al massimo una piccola parte.
David Foster Wallace, Caro vecchio neon (1994)
Il problema è: perché ricorriamo alle allegorie? E, più in generale, perché dobbiamo dire una cosa per significarne un’altra? È tutto, e solo, un problema di abbellire e aggraziare il discorso per renderlo piacevole all’ascolto e alla lettura? È stato detto di recente — in un contesto dalle potenti implicazioni politiche e culturali — che «La mente umana è semplice e risponde a stimoli semplici»: «Ci sarà del resto una ragione perché tutti i fenomeni significativi sono misurati con i numeri […]. I numeri sono insieme precisi e semplici» [5]. Questo pensiero è alla base della Riforma Tremonti-Gelmini dell’istruzione di base nella scuola italiana. Ebbene, no: la mente umana non è una cosa semplice. Non è neanche una, se è per questo: è multipla, ha almeno sette dimensioni cognitive o intelligenze. E questo soltanto per limitarci alla mente “razionale”: accanto alla quale ne esiste almeno un’altra (o un insieme di altre, o per qualcuno un “inconscio”) che ragiona secondo altre logiche (come quella degli insiemi infiniti). Insomma, si sfonda una porta aperta già dal Dante del Convivio [clicca qui per scaricarlo] [6]: le nostre parole da sole non riescono ad essere all’altezza del pensiero, sono strumenti inadeguati. ma hanno la capacità di sopperire alla loro debolezza assumendo, accanto alla significazione diretta — dico “cane” per intendere il cane — una significazione traslata — “cane” per intendere il calciatore che ha sbagliato il rigore.
E perché l’allegoria? Perché alcune modalità di dire per intendere altro sono vincolate da uno schema interpretativo già determinato. La metafora (non ogni metafora) rischia di operare una traslazione di senso all’interno di una pre-comprensione codificata: la coppia verginella/rosa, con quanto il senso comune può includervi (ad es. il bel giardino o la nativa spina) ed escludervi pena la dissoluzione della metafora (ad es. il concime) ha un senso comprensibile, ma limitato dall’abitudine, dagli schemi interpretativi, ecc. Così come il simbolo è già inscritto in una dimensione interpretativa irrigidita nella pretesa di “oggettività”: se prendo una crocifissione in un dipinto medievale, vedo che il Cristo è in posizione verticale, ad indicare che il vero significato è la vita dello spirito che si eleva verso l’alto mentre il corpo muore sulla croce. Il significato simbolico resta confinato dalla verità religiosa che il dipinto deve esprimere. A differenza del simbolismo medievale, una crocifissione barocca ha invece carattere allegorico. Più che la crocifissione, la pittura barocca predilige la deposizione: Cristo è in posizione orizzontale, alla base del quadro, cioè all’altezza dello spettatore, al quale dice che, dietro il significato religioso, c’è una diversa verità che passa dalla scena storica dipinta nel quadro al tempo dello spettatore — che sei tu, spettatore, il soggetto di questa morte. Oppure, con un pizzico di malizia in più, un pittore come Giorgione dipinge la classica, simbolica torre alle spalle della vergine Maria nell’Adorazione (Maria, Turris Eburnea, vergine inviolata): ma ne rovina la cima, trasformandola in una blasfema allegoria che fa della madre dipinta una donna qualunque [clicca sull’immagine per ingrandirla].
«Dal quadro allegorico le cose guardano come opere frammentarie», scrive Benjamin nel Dramma barocco, che è in realtà un trattato sull’avanguardia novecentesca. Ciò che Benjamin coglie nel barocco è infatti la possibilità, attraverso l’autonomia dell’allegorico rispetto al contesto complessivo — autonomia che è negata al simbolico — della dimensione dell’antinomia: «ogni personaggio, qualsivoglia cosa, qualsiasi situazione possono significarne un’altra qualunque» [7]. Se non si comprende questa potenza espressiva dell’allegoria, si rischia di scambiare il tourbillon di figure che popolano 54 per un esercizio di «puro divertimento», o di ingabbiare l’intero Q nelle maglie del genere picaresco: un infortunio occorso al critico Romano Luperini, per il quale «il ricorso alla storia quindi da questo punto di vista è sostanzialmente strumentale, serve semplicemente per essere un ingrediente in più», e in definitiva è «puro divertimento» [8]. Questo testo di Luperini è significativo non solo perché fraintende completamente l’allegorico come puro gusto della citazione per la citazione, ma anche, e soprattutto, perché traccia in modo arbitrario una linea che divide i primi romanzi “postmoderni” dai “giovani postmoderni” ai quali non è riconosciuto né capacità filosofica, né capacità di tracciare uno «scenario ontologico» [9], né il recupero di una qualche tradizione italiana. Con buona pace di Luperini, il NIE sta smentendo uno dopo l’altro i punti delle sue drastiche schematizzazioni, dimostrando ad esempio una capacità di recupero e riutilizzazione della tradizione letteraria italiana (come, nel romanzo in questione, Pratolini, o il sopracitato Bassani) che, a quanto pare, l’anziano critico non ha la capacità di riconoscere.
L’allegoria si accompagna ad un movimento di decostruzione e ricostruzione della realtà. O, se si preferisce, ad una forma di neo-realismo, che era all’opera, in modo evidente già nell’incursione glam di David Bowie nella Cuba rivoluzionaria narrata da Wu Ming 5 in Havana Glam, dove il reale viene smontato e ricostruito, attraverso un’operazione di puro costruttivismo che dimostra come il mondo non sia un dato, ma una costruzione [10].
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A causa del modo in cui gli esseri umani si rapportano alle storie, tendiamo a identificarci con quei personaggi che ci appaiono più attraenti. Tentiamo di rispecchiarci in loro. E con lo stesso rapporto di identificazione, proviamo a vedere loro dentro noi stessi. Quando la persona con cui ci sforziamo di identificarci per sei ore al giorno è bella, per noi ovviamente diventa più importante essere belli.
David Foster Wallace, E unibus pluram: gli scrittori americani e la televisione (1990).
L’uso dell’allegoria è spiazzante. Scompiglia. Non è solo il fondamentale complemento per lo sguardo obliquo con cui il NIE osserva il mondo: è l’andare oltre lo sguardo obliquo. L’allegoria è il trasduttore, il trasformatore che trasforma la visione spiazzante del mondo nel mondo spiazzato; che congiunge l’obliquità (o la retrovisorietà) dello sguardo al carattere scaleno, non-retto del mondo stesso:
«L’allegorista estrae ora qui e ora là un pezzo dal fondo disordinato che il suo sapere gli mette a disposizione, lo affianca ad un altro e prova se si adattino l’uno all’altro: questo significato a quest’immagine o questa immagine a quel significato. Il risultato non può mai essere previsto, giacché fra i due non c’è nessuna mediazione naturale. Allo stesso modo stanno però le cose con la merce e il prezzo. I “cavilli metafisici” di cui, secondo Marx, si compiace la merce sono innanzitutto i cavilli della formazione dei prezzi. Come la merce pervenga al suo prezzo è cosa che non si può mai calcolare esattamente, né nel corso della sua produzione né in seguito, quando si trova sul mercato. Esattamente la stessa cosa accade all’oggetto nella sua esistenza allegorica: non è in nessun modo stabilito a quale significato lo condurrà l’assorta profondità dell’allegorico» [11].
Gli oggetti allegorici funzionano come le merci nella società dei consumi: non sono oggetti utilizzabili, ma feticci. Come gli oggetti kafkiani: lo stesso Angelo della Storia di Benjamin proviene sì da un acquerello di Klee, ma anche — per via allegorica — dai racconti di Kafka e da Karl Kraus: ma quanti, tra quelli che hanno straparlato di teologia ed ebraismo in Benjamin, se ne sono poi accorti?
Tra questi oggetti kafkiani c’è Odradek, «il più strano bastardo che la preistoria abbia generato in Kafka» [12]. Odradek è uno strano rocchetto del quale non intuiamo mai la reale forma, men che meno lo scopo della sua esistenza: esiste, ma non ha alcuna funzione; ha una forma, ma è informe. È sospeso in una dimensione intermedia, come fosse a metà strada tra l’oggetto inutile che ha perso ogni funzione e l’oggetto che viene riutilizzato per scopi nuovi e imprevisti.
Dove troviamo un Odradek nel NIE? Ad esempio, nel televisore McGuffin (col sottinteso omaggio ad Alfred Hitchcock, grande inventore di oggetti allegorici) che attraversa 54 cambiando uso e funzione ad ogni apparizione. Questo rimando all’oggetto-feticcio per eccellenza non è un caso. Lo attesta questo passo, tratto dal “racconto ammutinato” Breed’s Hill, che parafrasa in modo sin troppo esplicito il passaggio del Capitale sui cavilli metafisici e il carattere di feticcio della merce richiamato da Benjamin:
«A prima vista un fucile è una cosa triviale, ovvia, ma, all’analisi, risulta cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e capricci teologici. Tutto può ridursi, in fin dei conti, a un pezzetto di piombo arroventato espulso da una canna a seguito di una piccola esplosione. Ma non è anche, il fucile, una porta spalancata sul mistero, anzi, il più grande dei misteri? […] L’azione comincia nel nostro mondo e termina nell’Aldilà, o nel nulla, o forse sempre nel mondo, ma un mondo che non è più nostro».
Sollecitare una riflessione sul rapporto che passa tra il perdere una funzione (divenire inutile) e ritrovarne una originale (divenire riutilizzabile), come fa l’allegoria, ha una dimensione non solo letteraria, non solo filosofica, ma anche e soprattutto civile. Tutta la riflessione sulla questione dei rifiuti, il problema etico della “monnezza” — questione che non nasce certo in tempi recenti [13], ruota attorno a questi temi. Che, in modo diretto o indiretto, esplicitano una vocazione ecologica dei narratori NIE.
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Quali risposte alla commercializzazione operata dalla tv delle forme della protesta letteraria sembrano allora possibili, oggi? Una possibilità abbastanza ovvia, per lo scrittore, è diventare reazionario, integralista. Proclamare che la televisione è il male, che la cultura contemporanea è il male, voltare le spalle a tutto quel bordello di plastica e strass e invocare, al suo posto, le buone vecchie virtù pre-anni ’60 e la lettura quotidiana dei Testi Sacri…
David Foster Wallace, E unibus pluram: gli scrittori americani e la televisione (1990).
L’allegoria è libertà creativa. L’uomo è nel linguaggio, ma la tempo stesso ne è il produttore: la lingua che parlo esisteva prima di me, ma le parole del mio linguaggio sono prodotte dalla mia penna e dalla mia bocca. Resta da vedere se questa potenza creativa rimane viva, o diventa un oggetto astratto nel quale non riconosciamo più una nostra creatura. Nel quale vediamo un oggetto che si materializza davanti ai nostri occhi: sino a non riuscire più ad interpretarlo se non attraverso la mediazione di un’immagine standardizzata. Quando la nostra potenza creativa ci viene sottratta, la creazione finisce col sembrarci “oggettiva”: il nostro naso urta contro il muro del “la storia c’insegna”, duole contro l’ineluttabilità dello stato di cose esistente, s’illividisce dopo lo scontro con la legge del “fino ad ora”. Il romanzo storico degli ultimi anni è una risposta a questa situazione. Nessuna meraviglia che usi l’arma dell’allegoria, nascondendola dietro quella “fondatezza referenziale” che è indice di rispetto verso il lettore. Un terreno privilegiato di questo lavoro è nella narrazione del Seicento, un secolo che più lo si approfondisce, e più sembra parlarci dell’epoca presente.
Nel romanzo d’esordio di Eliana Bouchard Louise, assistiamo, attraverso lo sguardo obliquo di Louise de Coligny, una donna calvinista a cavallo tra Cinque e Seicento, a un corto circuito tra il Seicento olandese e il tardo Novecento. A renderlo possibile è proprio l’esattezza di questa figura femminile, intrecciata nel tessuto del proprio tempo eppure sempre “fuori dal tempo”, in procinto di guardare noi lettori e parlare a noi, dal suo punto di vista, del nostro tempo [14].
Più o meno negli stessi anni si agita nella Germania ricostruita da Alan D. Altieri le potenti, apocalittiche immagini della trilogia di Magdeburg come allegoria del tempo presente. Una trilogia di grandi dimensioni, ambientata nella Guerra dei Trent’anni, che sfocia nell’immane rogo di Magdeburgo, attraverso la quale l’autore narra del conflitto che insanguinò l’Europa per parlare di Jugoslavia, Irak, Ruanda, Darfur. Il grido del macabro principe Dekken Nessuna carne sarà risparmiata! fuoriesce dalla trama della storia per risuonare nel tempo presente, in cui i dragoni tedeschi piuttosto che svizzeri o svedesi che cavalcavano ieri la terra di Germania cavalcano ancora, come macabri cavalieri dell’Apocalisse [15].
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Nel pretendere l’accesso della letteratura al di là di obiettivi, schermi e titoli di giornale, per reinventare poi quella che può essere la vita normale laggiù, oltre il baratro dell’illusione, della mediazione, delle statistiche, del marketing, dell’immagine e dell’apparenza, la narrativa d’immagine sta paradossalmente tentando di restituire tutte e tre le dimensioni a ciò che viene considerato “reale”, di ricostruire da tanti flussi diversi di visioni piatte un mondo inequivocabilmente sferico.
Questa è la buona notizia.
La cattiva è che, quasi senza eccezioni, la narrativa d’immagine non raggiunge gli obiettivi che si prefigge.
David Foster Wallace, E unibus pluram: gli scrittori americani e la televisione (1990).
Il NIE fa un uso allegorico dell’esattezza storica per scardinare il presente attraverso un cortocircuito tra il reale e il fittizio. L’allegoria svela così il carattere non necessario, eventuale, accidentale della pretesa necessità del reale. Di nuovo, è la potenza espressiva stessa dell’allegoria a rendere possibile questo gioco: «l’affondamento allegorico deve sgomberare l’ultima fantasmagoria dell’obiettività […]. E questa appunto è l’essenza dello sprofondamento melanconico, il fatto che i suoi oggetti ultimi […] si ribaltano in allegorie, il fatto che colmano e negano il nulla in cui si rappresentano» [16]. Quest’uso eversivo dell’allegoria nei confronti dell’obiettività è presente nell’ucronia di Alessandro Zaccuri Il signor figlio, dove il “conte Rossi” (cioè Giacomo Leopardi che, dopo aver simulato la propria morte a Napoli, è rinato nella Londra di Kipling e Rossetti) rimanda allegoricamente, nel suo cortocircuitarsi col Leopardi “storico”, allo scacco del tentativo di padroneggiare il mondo avvolgendolo in una rete di saperi e linguaggi.
In Con la faccia di cera ho espresso il carattere fantasmagorico del “reale” attraverso il genere della ghost-story: mentre la realtà diviene fantasmatica, i fantasmi si impossessano della realtà. In questo caso l’allegoria è resa trasparente proprio dalla duplice natura dei personaggi, posti sul confine tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Lo stesso si potrebbe dire dei va-e-vieni temporali che sottendono le vicende di Eymerich, l’inquisitore creato da Valerio Evangelisti.
Infine, un ulteriore uso eversivo dell’allegoria è nel forzare la dimensione soggettiva di un’autobiografia che, nell’esporre una sorta di discesa agli inferi di un io narrante che non riesce a cominciare la narrazione, si rovescia nell’allegoria morale e politica di un’Italia che bisogna disimparare ad amare: Italia De Profundis di Giuseppe Genna.
– 7 (fine) –
«I nuovi ribelli potrebbero essere artisti pronti a rischiare lo sbadiglio, gli occhi al cielo, il sorriso della sufficienza, le strizzatine d’occhio, le parodie dei fini umoristi, i “Dio mio quant’è banale”. A rischiare di essere accusati di sentimentalismo, di melodrammaticità. Di eccessiva sprovvedutezza. Di debolezza. Di essere ben disposti a farsi fregare da un mondo di spioni e guardoni che temono lo sguardo e il ridicolo altrui più di una condanna ai lavori forzati. Chissà. Oggi gli scrittori giovani più impegnati sembrano davvero arrivati a una specie di ultimo estremo capolinea. Immagino che ciò significhi che dobbiamo tutti trarre le nostre conclusioni. Che siamo costretti a farlo. Non fate i salti di gioia?»
David Foster Wallace, E unibus pluram: gli scrittori americani e la televisione (1990).
Note
[*] Walter Benjamin, I «passages» di Parigi, Torino, Einaudi, 2000. Nel citare da questo libro, le cui vicende editoriali sono piuttosto sfortunate, mi permetto talvolta di ritradurre il testo dall’originale tedesco.
[1] Girolamo De Michele, Il Messico come metafora. Nella prima versione di questa recensione avevo usato “metafora”, e non “allegoria”, per richiamare il libro-intervista di Sciascia La Sicilia come metafora. Ma intendevo l’uso della metafora in sintonia col Günther Anders di Kafka. Pro e contro, Ferrara, Corbo, 1989, dove Anders chiama “fredde allegorie” quelle che per Beniamin (e per me) sono metafore, e “metafore” quelle che per Beniamin (e per me) sono allegorie. Walter Benjamin conosceva, già prima di scrivere il suo saggio su Kafka, la critica di Anders al grande allegorista praghese.
[2] Non a caso la voce “Allegoria” dell’Enciclopedia dantesca Treccani costituisce un’utilissima rassegna dell’uso e della comprensione di questa figura retorica, e non solo rispetto alla Commedia.
[3] È evidente che gli “specchietti retrovisore” di cui mi sto servendo sono quelli di Étienne Gilson ed Eric Auerbach (ed Hegel).
[4] Per comprendere lo sguardo dell’architetto, che è una delle forme dello sguardo obliquo della narrativa neo-epica, sono imprescindibili (oltre che stilisticamente godibilissimi) gli scritti “di mestiere” di Biondillo Metropoli per principianti, Parma, Guanda, 2008.
[5] Giulio Tremonti, Il passato e il buon senso, Corriere della Sera, 22 agosto 2008, p. 37.
[6] Dante Alighieri, Convivio, iv, 4, 11-12: «è da sapere che più ampi sono li termini de lo ‘ngegno [a pensare] che a parlare, e più ampi a parlare che ad accennare. Dunque se ‘l pensier nostro, non solamente quello che a perfetto intelletto non viene ma eziandio quello che a perfetto intelletto si termina, è vincente del parlare, non semo noi da biasimare».
[7] Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1980, pp. 194, 180.
[8] Romano Luperini, commento a 54.
[9] Ci sarebbe molto da dire anche sul postmoderno come categoria in Luperini, che è tutt’altra cosa sia dal postmoderno francese, sia dal postmoderno americano con cui fa i conti David Foster Wallace: l’impressione è che per Luperini “postmoderno” finisca col diventare una categoria residuale, una sorta di grande cassetto in cui mettere tutto quello che non si riesce a catalogare in altro modo. Quanto allo «scenario ontologico»: non sarà che il romanzo italiano si sta avviando sulla strada della descrizione fenomenologica? Che, al posto del discorso sulla “vera natura” delle cose, stia prevalendo (a partire da Tondelli) una riflessione sul modo in cui le cose si manifestano, si presentano, appaiono?
[10] Girolamo De Michele, a proposito di Havana Glam.
[11] Walter Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., J 80.2, J 80a.1.
[12] Walter Benjamin, Kafka, in Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1982, p. 297. Odradek compare nel racconto kafkiano Gli affanni del padre di famiglia. Il paragone tra gli oggetti kafkiani e il carattere di feticcio della merce è presente in tutte le letture kafkiane che sto utilizzando: Anders, Benjamin, Adorno. Prima ancora che nel saggio su Kafka, Benjamin discusse in uno scambio epistolare con Adorno del carattere di feticcio di Odradek.
[13] Una sommaria bibliografia, per ricordare come la questione sia coeva del NIE: è del 1994 Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà (Milano, Feltrinelli) di Guido Viale; del 1993 il capolavoro di Francesco Orlando Gli oggetti desueti nelle immagini letterarie. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti (Torino, Einaudi), libro che a distanza di quindici anni sta a tanta critica laureata come un Verdicchio di Jesi Stefano Antonucci o un Riserva Metodo Classico Luigi Coppo stanno al Tavernello. Nel 1995 avevo letto in un convegno di studi questo intervento, poi rifluito in Felicità e storia, Macerata, Quodlibet, 2001.
[14] Girolamo De Michele, recensione di Louise.
[15] Girolamo De Michele, Sulla necessità del romanzo storico per la vita della mente.
[16] Walter Benjamin, Il Dramma barocco tedesco, cit., p. 250.
LINK, ANNUNCI, NOTIZIE SUL DIBATTITO NIE
DA OGGI IN LIBRERIA NEW ITALIAN EPIC. Il libro è (dovrebbe essere) sugli scaffali. In occasione dell’uscita, stanno apparendo articoli e interviste, su carta e sul web. Segnaliamo:
1. L’articolo di Loredana Lipperini pubblicato su La Repubblica di sabato 24 gennaio e riproposto due giorni dopo sul blog “Lipperatura”.
In calce, dibattito. E trollaggio. Ma più che altro dibattito, sì.
2. L’intervista rilasciata da Wu Ming 1 e Wu Ming 2 al sito di “Panorama”.
Là sopra scrive il collega Jadel Andreetto (Kai Zen J), in questa occasione intervistatore ma a suo tempo artefice di uno dei testi sul NIE più deliranti e ipnagogici finora apparsi.
La redazione di Carmilla coglie l’occasione e ringrazia il celebre settimanale per l’attenzione e la dedizione con cui segue questo sito.
DALLA FRANCIA, UNO SGUARDO SUL DIBATTITO ITALIANO. Sul sito L’Italie à Paris, un articolo sul NIE che abbiamo trovato molto interessante.
In buona sostanza, fa notare che nella letteratura francese non sta accadendo nulla del genere.
A proposito, a chi è a Parigi ricordiamo questo evento:
“Une nouvelle épique italienne?”, con Valerio Evangelisti e Massimo Carlotto.
Sabato 7 febbraio 2009, h. 18, Fête du livre et des cultures italiennes, Parigi, Espace d’animation des Blancs Manteaux, 48 rue Vieille du Temple 75004. Ingresso libero. Per saperne di più, visita il sito ufficiale.