di Mauro Presini*
Il film Lavagne di Samira Makhmalbaf si apre con una sequenza molto suggestiva, ricca di significati simbolici: in un paesaggio montuoso quasi impraticabile del Kurdistan martoriato dalla guerra, un gruppo di maestri va alla ricerca di scolari, ognuno con la sua enorme lavagna sulla schiena.
Il rumore minaccioso degli elicotteri che si avvicina li mette in fuga ma questi trovano riparo accucciandosi sul terreno, stretti e vicini gli uni agli altri, usando proprio le lavagne per difendersi dai colpi. Si accorgono però che il nero delle lavagne in quel paesaggio di terra secca potrebbe attirare l’attenzione perciò le ricoprono di terra in modo tale da potersi mimetizzare. Superato indenni l’attacco aereo si separano ed ognuno risale la montagna per conto proprio.
È un scena colma di una lancinante allegoria: richiama l’idea di fatica, di passione ma anche di bisogno vitale di percorrere quei sentieri.
È evidente che qualsiasi paragone con la realtà scolastica italiana attuale è improponibile. Ma c’è qualcosa di emotivamente forte in quel viaggio che, seppur lontano, provoca stimoli di riflessione sulla condizione degli insegnanti nel nostro paese in questo preciso momento storico.
Oggi a scuola ci si sente come quei maestri: affaticati, soli ed in cammino alla ricerca di un nuova identità.
La complessità della situazione mi fa sentire un bisogno forte di ricercare qualche ipotesi di spiegazione e contemporaneamente mi rimanda la certezza di non riuscire ad essere esaustivo.
Una prima ipotesi è di tipo culturale. I decenni precedenti questo nuovo millennio sono stati, in vario modo, caratterizzati da un “patto sociale” stabile e forte fra scuola, famiglia e società. Patto cresciuto e reso via via più solido durante le grandi trasformazioni culturali che hanno interessato la società e la scuola.
Sono stati gli anni dei decreti delegati con il coinvolgimento delle famiglie e degli studenti nella scuola, dell’inserimento ed integrazione dei ragazzi con disabilità, della stesura dei nuovi ordinamenti, del rinnovo dei programmi della scuola dell’obbligo, della revisione degli orientamenti della scuola materna, della valutazione formativa, della collegialità, dell’affermazione del concetto di autonomia scolastica.
Sono stati anni di lotte ma anche anni di conquiste.
Anni che hanno coinvolto, in maniera diversa ma sempre continua, gli operatori della scuola.
Poi lentamente, ma inesorabilmente, è arrivata la svolta: un mutamento radicale caratterizzato da lenti ma continui tagli agli organici del personale, dal progressivo aumento del numero di alunni per classe, dall’aumento del precariato, dall’idea di scuola ridotta a “servizio a domanda individuale”, dalla famiglia sempre più protagonista di scelte fondamentali proprie invece di un sistema educativo serio.
Per cercare di capire ho bisogno di cambiare ottica provando ad utilizzare una visione “grandangolare” quindi più allargata.
Penso che ciò che stiamo vivendo in Italia in questo nuovo millennio sia frutto di un disegno ben delineato a livello europeo da strateghi della competizione e non da pedagogisti della formazione umana.
Infatti la nascita di una politica scolastica comune in Europa non si deve tanto agli intellettuali del Parlamento europeo o ai principi del Trattato di Maastricht quanto piuttosto, alle forti influenze della Tavola Rotonda Europea degli industriali (ERT).
Questo gruppo di pressione riunisce, dalla metà degli anni ottanta, una quarantina tra i più potenti dirigenti industriali europei. Il loro compito si fonda sull’analisi delle politiche europee nell’ambito dei diversi settori e nell’esprimere raccomandazioni corrispondenti ai propri obiettivi strategici. Alla fine del 1989 un “gruppo di lavoro educazione” dell’ERT ha pubblicato un rapporto intitolato “Educazione e competenza in Europa”.
Nel dettaglio vi si legge che “l’industria non ha che un’influenza molto debole sui programmi impartiti”, e che gli insegnanti hanno “una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari e della nozione di profitto”, che “non comprendono i bisogni dell’industria”.
La lobby invita gli industriali a “prender parte attiva allo sforzo educativo” e chiede ai responsabili politici “di coinvolgere le industrie nelle discussioni concernenti l’educazione”.
I datori reclamano dei lavoratori “autonomi, in grado di adattarsi ad un continuo cambiamento e di accettare senza posa nuove sfide”.
I sistemi educativi organizzati e finanziati completamente dallo Stato, sono giudicati “troppo rigidi per permettere al corpo docente di adattarsi agli indispensabili cambiamenti richiesti dal rapido sviluppo delle tecnologico moderno e dalle ristrutturazioni industriali e terziarie”.
Al Summit di Lisbona, il 23 e il 24 marzo 2000, i ministri nazionali dell’Educazione hanno, di fatto, confermato e sostenuto i progetti rivendicati dalla Tavola Rotonda degli Industriali.
I punti fondamentali del discorso educativo europeo, suggeriti chiaramente da quella lobby, si possono riassumere in poche parole: deregolamentazione, rapporti con le imprese, diversificazione, mobilità, competenze minime di base, formazione permanente, tecnologie informatiche, armonizzazione, cittadinanza, lotta all’esclusione.
In Italia si stanno attuando questi obiettivi e noi stiamo sentendo gli effetti ancor più che in altri paesi visto che alcuni nodi strutturali del nostro ordinamento risultano, ancor oggi, innovativi a livello europeo (vedi, ad esempio, l’integrazione degli alunni con disabilità).
Ecco quindi arrivare, in coerenza con quelle finalità, la liberalizzazione del processo educativo, la precarizzazione del personale, l’insegnamento a distanza (e-learning), i tagli alla scuola pubblica ed i finanziamenti statali alla scuola privata, la scuola del tempo opzionale e delle materie facoltative, gli anticipi scolastici, la riduzione del personale con l’aumento del numero di alunni per classe, i cambiamenti nei programmi senza pluralità di confronto, i modi di decidere imposti dall’alto in totale contraddizione con l’idea di autonomia scolastica. Gli operatori della scuola, che non sono stati minimamente coinvolti, sentono che oggi la conoscenza non è amata e che il loro lavoro è meno importante rispetto al passato.
A mio avviso, ciò ha provocato disorientamento, delusione, rabbia nelle persone che considerano la scuola come una risorsa su cui investire, un luogo di promozione umana e di inclusione sociale.
Molteplici sono state e continuano ad essere le manifestazioni di dissenso a tale scelta politica ma è difficile credere ad un cambiamento di rotta e ciò produce un robusto senso di isolamento.
Una seconda ipotesi è di tipo etico. In questi anni credo si sia annebbiato il senso del far scuola.
La scuola è il luogo dove si sperimenta il gruppo, che può arricchire il singolo e la società: oltre ad essere una delle case della formazione e della conoscenza è una delle dimore dei valori.
Ritengo che i valori siano di natura pratica e quindi debbano scaturire necessariamente da un modo di vivere; a maggior ragione in una scuola che vuol essere comunità educante.
Per dirla con il sociologo Edgar Morin, educare ai valori significa quindi offrire strumenti per conoscere e capire fenomeni diffusi che generano falsi bisogni e dis-valori promuovendo invece attitudini alla comprensione, alla capacità critica, al giudizio autonomo, alla solidarietà, alla responsabilità, alla cooperazione, alla cittadinanza terrestre.
Oggi però non sono sicuro che i valori che stanno alla base di una comunità scolastica siano del tutto condivisi.
Considero valori il rispetto dell’altro, la tutela dei beni comuni, l’agire con responsabilità, la scelta dell’impegno e la fatica di imparare ma sono consapevole che questi trovano forti resistenze a crescere in un contesto sociale che, attraverso l’influenza deleteria dei mass media, condiziona i comportamenti dei più inquinando l’aria che respiriamo di una filosofia basata sulla competizione esagerata, sull’apparire piuttosto che sull’essere, sulla negazione dell’altro, sul conformismo, sul bisogno di possedere, su di un individualismo spietato, sulla furbizia, sulla facilità, sulla fretta e sulla disonestà.
È una società che crea ad arte la mancanza di fiducia nel prossimo affidandosi all’icona del “nemico” ed inducendo una serie di paure: prime fra tutte quelle della diversità e dell’inadeguatezza.
Si spendono più energie alla ricerca di ciò che distingue piuttosto che di ciò che unisce.
Ingiustizie e conflitti ne sono le conseguenze principali.
In una situazione simile occorre essere uguali agli altri e vincenti a tutti i costi e chi non ha gli strumenti per riuscire nei modi e nei tempi “omologati”, non è in grado di sopportare la frustrazione conseguente che spesso genera traumi dagli effetti spropositati.
I mass media, sempre meno pluralistici e sempre più condizionati da pochi gruppi industriali che hanno un evidente vantaggio nel non sviluppare una scuola del sapere autonomo e critico, mettono alla ribalta la scuola soprattutto attraverso gli stereotipi dell’insegnante fannullone e per i fatti di cronaca di bullismo e violenza.
Più che il diritto all’informazione ne traggono vantaggio i detrattori della scuola, in particolare di quella pubblica.
Questo può far sentire ancor più faticosa la propria azione educativa.
Una terza ipotesi è di tipo sociale. Chi ha governato la scuola negli ultimi anni l’ha ridotta ad una sorta di supermercato in cui lo scopo essenziale sembra essere quello di creare nuovi consumatori.
In tal modo ha illuso le famiglie di poter scegliere quando, per quanto tempo e per quali materie far frequentare i propri figli, creando una sorta di pericoloso familismo che concede un falso potere e di conseguenza toglie autorevolezza alla progettualità e alla vera autonomia degli istituti scolastici.
Nella realtà odierna, in cui l’esagerazione diventa modo semplice di pensare e occasione deresponsabilizzante, avviene che a scuola si senta il peso della parte educativa sbilanciato proporzionalmente.
Avviene ancora che, dal canto suo, la famiglia sembra vivere una crisi singolare poiché se da un lato delega alla scuola ciò che per essa appare quasi inaffrontabile, dall’altro difficilmente riconosce autorevolezza alla scuola stessa.
La famiglia sembra sopperire alla mancanza di tempo per stare insieme ai figli con beni materiali e consumi di superfluo; sembra mascherare la propria incapacità di pronunciare dei “no” e dei “perché?” con una facciata esteriore di libertà ma, in pratica, abbandona deliberatamente il proprio ruolo educativo.
Gli insegnanti, di fronte alle nuove responsabilità di questo mondo complesso e sentendo la pesantezza del compito, come “donchisciotte” del nuovo millennio contro i mulini a vento, si trovano talvolta ad tuffarsi a capofitto in queste nuove sfide, altre volte a dover rincorrere rimedi piuttosto che progettare soluzioni, altre ancora a rimanere immobili facendo del disimpegno il proprio modo di camuffarsi e di resistere.
In definitiva è come se si creasse uno bizzarro circolo vizioso il cui meccanismo fa in modo che buona parte dei docenti, si sentano intaccati nelle proprie passioni e nel piacere di insegnare.
Nel tempo quel “patto sociale” fra scuola, famiglia e società, fondamentale negli anni precedenti per la buona riuscita del processo formativo, si è indebolito.
Queste tre ipotesi da me tratteggiate schematicamente non hanno la pretesa di essere esaustive; la complessità della realtà richiede approcci molteplici e diversificati.
Non ho la presunzione di delineare soluzioni ad un problema multiforme ma sono un maestro e credo in una scuola che promuova fiducia e consapevolezza negli allievi di poter intervenire positivamente sulla realtà.
Come persona e come maestro credo in una scuola come istituzione indipendente svincolata dalle influenze politiche che sviluppi una capacità critica e responsabile.
Credo che ci sia un bisogno vitale di dialogo, di confronto, di rivolte intellettuali.
Credo che la scuola abbia bisogno di idee e di utopie per costruire una visione del mondo diversa da quella attuale.
Credo che le persone siano fatte di sogni e di bisogni.
La scuola deve essere il luogo dove i bisogni possano essere ascoltati ed accolti e dove i sogni possano trovare il sentiero per una loro realizzazione.
L’educatore ha un ruolo fondamentale perché è un fondatore di mondi possibili come direbbe Ruben Alves, la cui virtù è la bellezza, non in senso fisico, ma come la capacità di cogliere il “bello”, “l’utile” degli altri (come ha splendidamente sintetizzato Paulo Freire).
L’educatore può far emergere nei propri interlocutori la consapevolezza del loro valore e delle loro potenzialità nella costruzione di un sistema sociale alternativo.
I maestri del film Lavagne hanno trovato nella terra la soluzione per riuscire a resistere agli attacchi aerei mimetizzando le loro lavagne.
Durante il cammino le hanno usate per farle diventare riparo, barella, porta, perfino pegno di matrimonio.
Quei maestri hanno usato la terra come elemento del proprio ambiente per difendere se stessi, la propria identità e dignità.
Hanno resistito continuando a camminare e a percorrere faticosi sentieri quasi tutti in salita.
È su quella stessa terra che hanno voluto continuare il loro percorso.
Soltanto la passione, la determinazione ed il coraggio nell’agire quotidiano ha permesso loro di mantenere inalterato l’orizzonte ideale.
* maestro elementare