“Lei apre i nostri occhi alla realtà, dicono che morire è svegliarsi, io non so se ci sia un paradiso o un inferno, però la unica cosa sicura in questa vita è che solo Lei comprendo.”
(Da una canzone del gruppo rap messicano Cartel de Santa)
C’è chi sostiene che il sacro altare alla Dama Blanca, Santissima Morte, di Tepito nella Calle Alfareria, non sia assolutamente il primo esposto pubblicamente né il più importante. Il Padre David Romo, fondatore e primo arcivescovo della Chiesa Santa, Cattolica, Apostolica, Tradizionale Mex — USA, nel quartiere Candelaria di Città del Messico, rivendica la paternità del culto ma viene vituperato da numerosi fedeli del quartiere Tepito i quali lo definiscono come un commerciante di anime o un venditore di interviste, che fa pagare devoti, curiosi e giornalisti per ogni dichiarazione, video, fotografia o testimonianza che questi vogliano ottenere da lui.
Fin qui arrivano le testimonianze della gente nel barrio bravo ma, in effetti, non possiedo una verifica diretta di quanto affermano. Girano anche storie, non confermate ma realistiche, circa la scomunica che David Romo avrebbe lanciato contro il papa Giovanni Paolo II e contro Norberto Rivera, arcivescovo della capitale messicana, nel momento in cui, nel 2005, il Governo Messicano cancellò la registrazione alla sua associazione religiosa “per avere violato le disposizioni legali”, cioè, arrivando al sodo, per avere diffuso il culto della Santa Morte.
Una cosa è certa. Nell’aprile del 2005, il parroco della Santa organizzò una processione da Tepito al celebre Angel de la Independencia, monumento nel centro della città, per protestare contro tale decisione e, secondo la stampa, accorsero un migliaio di fedeli mentre il vescovo sostiene che furono svariate migliaia a fine giornata. A ogni modo, le frizioni tra i diversi culti e altari della città sembrano persistere anche se, alla fine, la Santa unisce tutti nelle celebrazioni in cui ci si stringe la mano e si recita il rosario in qualche via abbandonata dallo Stato e dalla religione ufficiale.
Don Alfonso Hernandez, ex commerciante e artigiano di stagno e ora rispettato esperto e sociologo anti-accademico del suo quartiere, Tepito, mi ha accompagnato in Calle Alfareria nei primi due pomeriggi in cui ho assistito al rosario della Muerte e, a pranzo, all’ottima taqueria di Don Ramiro, specializzata in tacos di fegato, cervello, occhi, lingua, trippa di bue e di vitello. Tutto offerto dalla casa. Una passeggiata per il mercato e siamo subito inseriti in un’orgia di rumori, odori, grida e caos puro che gestiamo con passo celere e sguardo attento alle bancarelle e ai pericolosissimi tombini scoperchiati disseminati in molte avenidas messicane, come fossero passaggi diretti all’oltretomba in cui raccomando non cadere mai (si rischia di pestare un ratto o un convivio di scarafaggi dotati di lunghe antenne). Intanto, alcuni commercianti regalano ad Alfonso dei calzini e un altro lo ferma in strada per proporgli un losco affare: piazzare un centinaio di materassini autogonfiabili a prezzo stracciato (meno di 8 euro l’uno) e venderli, quindi, al miglior offerente o semplicemente alla gente nel mercato. In realtà, i materassi, di marca svizzera, sembra che siano stati sottratti al pacchetto di aiuti per le gravissime inondazioni che nel 2007 colpirono il sud del Messico, in particolare Tabasco e il Chiapas, e quindi nessuno a Tepito è propenso al commercio di tali oggetti, rubati a una causa umanitaria e non agli odiati camion che vengono giù dagli Stati Uniti pieni di stereo o televisioni. Qua si tratta di una questione sporca, non di un furto comune o di qualche CD copiato, perciò Alfonso lo manda via indifferente.
Il seguente incontro avviene per caso in un nugolo di bancarelle stridenti e grassi poliziotti ripieni di quesadillas di tinga (pollo sfilacciato con sughetto piccante) e al flor de calabaza e huitlacoche (fiore di zucchina e fungo del mais). Le vie di Tepito dall’alto appaiono come un arazzo di colori accecanti e non si riesce a scorgere la strada, tappata com’è da chilometri di tendoni, carrozze e venditori ambulanti. E’ Mary la regina dell’albur, l’arte del doppio senso che ha reso famoso il quartiere e che sta creando praticamente una lingua alternativa allo spagnolo messicano standard. Comprensione possibile per un italo messicano da un decennio qui: forse il 30%; comprensione media di un messicano di Veracruz o di Ciudad Juárez: magari il 40%; infine, comprensione per un messicano della capitale: sfiora il 50% nel caso sia un frequentatore, anche saltuario, di almeno qualche mercato di zona.
Nel tardo pomeriggio, si arriva nei pressi dell’altare di Doña Queta (diminutivo di Enrichetta) e già a qualche via di distanza le strade sono intasate da venditori di gadget, poster, statue, sigari, dolci, immagini, rosari, ceri, libri, DVD delle messe, volantini con preghiere, magliette, riviste, anelli e collane della Niña Blanca. Nei pressi dell’altare, invece, terminano la confusione e gli affari per lasciare spazio a file di devoti in piedi o inginocchiati, spesso seminudi e tatuati, che si recano ordinatamente verso l’altare per portare un dono alla Santa e, lungo il cammino, riceverne da tutti gli altri fedeli e simpatizzanti che attendono il rosario delle 20. Lo scambio di piccoli doni ha un profondo significato per la gente e “más vale regalado que comprado” è il motto che da subito s’impara e si mette in pratica, offrendo e ricevendo. Alcuni ragazzi si dedicano a purear, cioè inondare di fumo di un puro sigaro cubano le statue della Santa che la gente porta con sé o espone lungo il ciglio della strada insieme ai propri familiari e amici: il sigaro va acceso e stretto tra i denti al contrario, con la parte accesa rivolta verso l’interno della bocca, poi s’inspira e si espira il fumo lungo tutto il costato e il viso della statua.
In fondo alla via, un po’ appartati ma comunque in vista, alcuni teporochos rollano, inspirano ed espirano un delicato churro (canna) di marijuana verde alga. C’è chi passa ore ed ore socializzando e pureando per riprodurre questo rito che, pare, provenga dalle tradizioni della santeria cubana e degli orishas. Altri elementi della ritualità sembrano provenire dal vudù dell’isola di Haiti e trovano riferimenti anche nel candomblé amazzonico. Per quanto riguarda l’immagine della morte con la falce, la tunica dai diversi colori, il mondo tra le mani o sotto i piedi (e, in alcuni casi, la clessidra o una torcia) l’origine si ritrova proprio in Italia, e poi in Europa, con le icone, spesso presenti sulle colonne e sulle porte d’ingresso di antichi cimiteri e ossari di provincia, che presero a diffondersi a partire dal secolo undicesimo e fino alla fine del medioevo.
La versione moderna del culto, come già si è indicato nella prima parte dell’articolo, ha una cinquantina d’anni approssimativamente, anche se alcuni sostengono che il culto alla Santa Morte, spesso confuso con quello messicano e cattolico del Día de Muertos dell’ 1 — 2 novembre, abbia origini nell’epoca della conquista spagnola, oltre 500 anni fa, e che si sia sempre reinventato e nascosto nelle case e nei quartieri popolari per resistere alle persecuzioni. L’origine potrebbe essere, quindi, l’icona del Santo Pascual Bailon, che veniva mostrato morto dai primi missionari francescani in Chiapas, zona in cui, per l’alta presenza di popolazioni indigene, il sincretismo e l’adattamento dei culti alle tradizioni pregresse erano le principali strategie di sopravvivenza spirituale (e fisica) delle genti conquistate. Ricordiamo anche che la Chiesa accettava l’idea della morte nella liturgia e permetteva la cerimonia della Danza Macabra. Infine, un possibile inizio per il culto ufficiale nell’epoca coloniale sembrano essere i tributi che venivano resi all’immagine della morte da parte dei minatori di Zacatecas a partire dal sedicesimo secolo XVI.
Comunque con la Santa non esistono categorie, noi le usiamo per capirci qualcosa mentre la ritualità risulta essere delle più spontanee e varie in tutto il territorio messicano, per la clandestinità e la frammentazione estreme che lo hanno caratterizzato sin dalle origini. Inoltre, i riti e la fede si sono già diffusi in altri paesi e regioni tra cui gli Stati Uniti, per la forte presenza numerica e culturale dei messicani che hanno innalzato alcune statue e altari da Los Angeles a San Diego, l’America centrale e meridionale, e addirittura il Giappone, dove vi sono tracce della Santa ma non per l’immigrazione messicana, pressoché insignificante, quanto per l’importazione del culto realizzata da alcuni fedeli.
La religiosità promossa da Monsignor David Romo presso il suo altare della Calle Bravo, nella centrale colonia Morelos di Città del Messico, tende a cercare l’approvazione della Chiesa di Roma, la registrazione ufficiale del culto, adattato alle esigenze ufficiali della dottrina. Lo sforzo costante di riconciliazione con le istituzioni caratterizza questa parte della devozione alla Niña. Il padre Romo, autonominatosi portatore del culto veritiero, stabilisce arbitrariamente che, oltre al suo, esistono solo altri due centri “autorizzati” al culto, uno a Puebla, a carico del padre Juan Díaz Parroquin, e uno a Chetumal, nello stato di Quintana Roo, al confine col Belize e il Guatemala. Il signor Romo ha addirittura inventato una nuova rappresentazione iconografica per la Santa, che si dovrebbe trasformare nel biblico Angelo della Morte per trovare, così, elementi significativi di compatibilità con il cattolicesimo e rientrare nelle sante grazie delle istituzioni religiose cittadine e sovrannazionali. Il popolo la pensa diversamente e, da Tepito a Iztapalapa, da Zacatecas al gabacho (cioè, in slang, gli USA), prevalgono lo spontaneismo, il senso d’appartenenza comunitario e la religiosità dal basso senza santoni né predicatori.
Anche a Tepito è così: Doña Queta e i suoi figli, che s’incaricano di celebrare la messa o il rosario ogni primo del mese, ci tengono a sottolineare la loro umiltà e onestà, oltre al fatto che si ritengono dei semplici intermediari che cercano di unire la gente intorno alla Milagrosa Muerte. Dice Jessy, guida spirituale del rosario di Alfareria, che “l’abitudine di recitare il rosario è iniziata qui e se ne fa uno al mese mentre la gente dispone i propri altari per la strada. Addirittura succede che lì all’angolo, presso l’altare della Vergine di Guadalupe, cercano di farli uguali ai nostri, una cosa mai vista!”. In effetti, l’altare del culto ufficiale alla Vergine di Guadalupe, a poche centinaia di metri da quello della Santa, appare disadorno e ignorato, a testimonianza dell’importanza rispetttiva che, in queste zone, assumono le due icone che arrivano a dividere coscienze e famiglie intere, nonostante si cerchi di ricondurle alla stessa fede che comprende i classici (Dio, la Vergine, Gesù Cristo, gli Angeli eccetera).
In tal senso, la suggestione e il misticismo legati al rosario in Alaferia sono indescrivibili (ma un po’ ci provo). Il dono, la devozione, i vizi purificati dal fumo e dalla confessione al vicino, all’amico o allo sconosciuto passante, così come la cerimonia, recitata al microfono e amplificata da almeno 5000 watt di casse acustiche collocate sopra l’altare e su alcune finestre degli appartamenti sovrastanti, generano un’istintiva inquietudine condita da una sensazione comunitaria e di liberazione sociale intensa, pura e delirante. E inizia infatti il delirio, un’ora di preghiere sincopate e ripetitive indirizzate alla Vergine, a Gesù e, chiaramente, alla Santa Muerte, divinità principale cui si richiede di lenire le pene dei detenuti, delle prostitute, degli schiavi moderni d’amore e del lavoro in fabbrica e, perché no, anche in ufficio; le si chiede di curarci da tutti mali, ma si specificano le droghe, il narcotraffico, l’omicidio, la delinquenza comune e meno comune, mentre negli occhi sbarrati della gente sembrano apparire ricordi, memorie, nostalgie e rimorsi alla ricerca di una catarsi mentale e di una falce che li estirpi dal loro passato. Alle 9 in punto arrivano i mariachi, una banda di suonatori messicani coi vestiti tipici (ma è inutile che cerchi di descriverli in una riga!), per rallegrare l’ambiente e suonare le canzoni tradizionali che alla Santa e alla gente piacciono immensamente.
La messa o rosario finisce alle nove di sera e tutti ritornano ordinatamente alle loro case con la statua della Santa appoggiata al cuore. Alla fine della tocada (suonata), ci dice Doña Queta che “c’è tanta gente vicino all’altare. Io mi emoziono, ma è una tensione bastarda. Da quando cambio il vestito alla Santa, inizia la mia tensione. Lì comincia e non riesco a rilassarmi fino alla fine del rosario”.
“…ormai non è più una moda e comincia a diventare una forma di vita in più. Almeno non ci guardano più male perché portiamo un’immagine o sanno che abbiamo un altarino per la Jefa (lett. Capo) “.
(Da un’intervista a una casalinga di 29 anni)
Segnalo la Fotogalleria della Santa Muerte.