di Rossella Landrini
Gaspare De Caro – Roberto De Caro, Storia senza memoria. Rossellini, Chabod, il Portico d’Ottavia e altri saggi, Colibrì, Paderno Dugnano (Mi) 2008, pp. 304, € 18,00
Il ‘laboratorio dello storico’ da qualche decina di anni si è arricchito di nuovi strumenti — prodotti della cultura materiale, ad esempio, fonti orali, scritti di letterati e illetterati, intenzionalmente ‘storici’ o meno, produzione iconografica — fonti, cioè, che mettono in grado la storiografia di spezzare il monopolio della costruzione del passato detenuto dagli Stati e dalle élite dominanti. Tale allargamento è stato reso possibile e necessario dalla crisi dello storicismo, secondo il quale storia e memoria coincidono, in quanto la storia è costruita su una memoria forzosamente unitaria e, necessariamente, immedesimata con le ragioni dei vincitori, cioè di chi, letteralmente, scrive la storia e la deposita negli archivi, lasciando agli storiografi il compito di divulgarla nell’unica versione possibile a chi si ponga dal punto di vista dei dominatori, ossia apologetica.
L’emergere dei ‘popoli senza storia’, durante la decolonizzazione, e delle classi subalterne come soggetti politici hanno messo in dubbio questo paradigma. Lo storico, allora, o si fa, con Benjamin, «cronista», senza escludere nulla dalla storia, oppure non è altro che narratore di mitografie.
Felicemente, storia e memoria unica si separano quanto più nella ricostruzione storica vengono incluse memorie ‘altre’, di destini singolari e collettivi, capaci di smentire schemi interpretativi delle vicende storiche che occultano invece di spiegare, vedono ordine là dove c’è disordine, sono incapaci di riconoscere il nuovo perché costruiti per negarlo.
È, però, proprio questa vocazione servile a prevalere in molta storiografia, in particolare in quella contemporanea: è ciò che argomentano Gaspare e Roberto De Caro nei lavori raccolti nel volume Storia senza memoria. Rossellini, Chabod, il Portico d’Ottavia e altri saggi, edito da Colibrì. Prendendo in esame alcuni casi «memorabili» di occultamento, amnesia e manipolazione della memoria, individuano i criteri che hanno guidato e ancora inducono non pochi storici volenterosi a scegliere e interpretare le fonti sempre a vantaggio della «riduzione del mondo all’unità».
In tutti i casi considerati, infatti, i criteri rispondono alla esigenza di modellare e preservare l’Ordine costituito, comunque si sia costituito: quello frutto della transizione, più morbida di quanto la memoria ufficiale non abbia detto, dallo Stato fascista a quello democratico; lo stesso operosamente difeso dalla Sinistra italiana al governo con il provvedimento legislativo — numero 78 del 2000, è bene ricordare — che rende autonoma e, di fatto, incontrollabile l’Arma dei carabinieri. Ancora, i criteri selettivi delle memorie hanno privilegiato quelle elusive delle responsabilità della minoranza di ebrei dello Judenrat che ha accettato di collaborare con i nazisti nella costruzione di quel temporaneo, ma esemplare, tragico Stato che fu il ghetto di Varsavia; da ultima gli autori ricordano l’analoga operazione storiografica che, nel ricostruire la storia del golpe argentino del ’76, lo attribuisce alla sola volontà ‘moralizzatrice’ dei generali, ma evita di ricordare quanto e come quel regime terrorista, come del resto i successivi governi, siano stati gli strumenti dell’espansione e del dominio del capitalismo globale.
I De Caro, proprio perché mossi da intenzioni etiche e politiche che alimentano la loro passione di studiosi, articolano spesso le loro ricerche in uno stile sarcastico adatto a sottolineare l’amarezza dei loro giudizi. Ciò è particolarmente vero per il saggio intitolato Il caro estinto: ipotesi di necrologio in margine alla storiografia palatina. Lo storiografo in questione è Valerio Castronovo, il cui volume Fiat. 1899-1999. Un secolo di storia italiana (Rizzoli, Milano 1999) costituisce un esempio di genere storiografico, ossia la «laudatio», nella quale «l’identificazione del soggetto lodato con l’Interesse generale» illustra luminosamente «il senso di opportunità» della storiografia contemporanea italiana. Il «caro estinto» è, naturalmente, la Fiat, morta di inappetenza — almeno così sembrava — dopo un secolo di indigestioni di uomini.
«La storica inadeguatezza della intellighenzia italiana, anche nelle sue espressioni migliori, a dare testimonianza autentica dei drammi della società» è dimostrata, secondo i due autori, da alcuni aspetti fondamentali, che essi scandagliano con raffinatissima analisi storiografica, della produzione intellettuale di due fondatori della cultura e, soprattutto, della rinnovata immagine di sé del Paese, Rossellini e Chabod.
Rossellini a buon diritto entra nel novero degli storici perché il suo cinema, come del resto tutto il neorealismo, «non vuole essere semplice registrazione e mimesi dell’esistente», come scrive Gian Piero Brunetta, ma «invenzione capace di perlustrare le realtà visibili e di spingersi oltre a esplorare il sogno […] a percepire gli spazi che stanno al di là dei confini posti dalla ragione e dall’esperienza». Insomma, l’importante «storiografia per immagini del presente» di Rossellini si è configurata già come «interpretazione», capace, come e, forse, meglio di altre arti, di plasmare «memoria e sentimenti» di alcune generazioni di italiani. Ma in tale memoria Rossellini non ha sentito il bisogno di includere una riflessione sulle colpe del fascismo a cui nessuno in Italia poteva ritenersi estraneo: «gli italiani avevano visto la sciagura e non l’avevano fermata». Non a caso, notano gli autori, nella trilogia sulla guerra, Roma città aperta, Paisà e Germania anno zero, non c’è alcuna menzione della tragedia degli ebrei. «Una tale ammissione di responsabilità richiedeva una più addestrata e rigorosa coscienza di sé e consuetudine meno secolare alla facilità delle assoluzioni».
La medesima ‘smemoratezza’ ha dimostrato Federico Chabod, per il quale la politica razziale del fascismo fu un «episodio» causato dall’influenza nazista. Ne L’Italia contemporanea (1918-1948), che tanta parte ha avuto nella formazione della generazione del dopoguerra, scrisse, infatti, a proposito delle leggi razziali, che «l’opinione pubblica insorge» e l’opposizione si manifesta «specialmente attraverso la voce della Chiesa cattolica».
I fatti sono lì a smentire il giudizio dello storico valdostano, che dimenticò che l’Italia ebbe una politica razziale ben prima dell’alleanza con Berlino e che ogni italiano poteva attingere «al giacimento culturale dell’antigiudaismo cattolico» e ai nazionalismi imperialistici «esibiti nella macelleria patriottica della prima guerra mondiale» e nel colonialismo.
Sostenitore di una visione così depurata della nazione, Chabod si propose come traghettatore dal vecchio a un nuovo che del vecchio molto mantenne.
Del resto, emerge dall’analisi dei due autori una continuità negli interessi di studio che gli permise di mantenersi fedele a se stesso più di quanto lui stesso non abbia dichiarato o, forse, sospettato. Il nazionalismo coniugato al militarismo sabaudo, l’empatia con l’imperialismo crispino, l’interpretazione del Principe di Machiavelli, in nome dell’autonomia del politico, come autorità «regolatrice di un popolo che è non unità sociale», ma «folla dispersa» e, ancora, l’indifferenza, sua e del ceto politico che era suo riferimento, verso le storie del popolo — i migranti, ad esempio — e la convinzione che fosse «la classe politica unica vera attrice della storia», ragion per cui scelse di studiare la politica estera italiana: tutto ciò fa della sua storiografia una storiografia politica, molto legata alle necessità del presente, al contrario di quanto lui stesso affermava, interpretandosi come uno storico «realista» e «senza aggettivi». Esigenze del presente che su di lui agirono anche alla caduta del fascismo.
Il suo nazionalismo, che fin dal ’39, meritoriamente, volle ben distinguere da quello nazista, «non aveva ragioni se non etico-educative», mutuate da Mazzini e Cuoco, perciò, avendo la ‘sua’ nazione i caratteri di una «unità mistica in cui si ricomponevano la pluralità di forme della società civile», essa «trasferiva ogni determinatezza nello Stato, unico suo interprete». Nel dopoguerra il suo programma si discostò di poco: era necessario salvare l’«idea di nazione dal naufragio dei nazionalismi e dall’abiezione del razzismo» e dunque bisognava preservare le istituzioni dello Stato, che, d’altronde, riassume Leo Valiani, «è rimasto solidamente in piedi, malgrado una crisi senza precedenti». Così Chabod partecipò all’erigendo ‘nuovo’ Stato, all’epoca della Ricostruzione, garantendo «la “coscienza nazionale” innocente dal peccato di razzismo».
Ciò conferma, come molti storici oggi dicono, fra questi Marco Cuaz, citato dagli autori, che la coscienza nazionale è «creazione di un potere politico che inventa le tradizioni, manipola la memoria, piega alle necessità del presente sentimenti primordiali di radicamento e di identità presenti nella coscienza di ogni essere umano».
Con quali conseguenze non è difficile leggere nella storia recente e nel presente di questo Paese.
Enzo Traverso, in margine alle commemorazioni del sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, scrive che il rischio dei nostri tempi non è più quello dell’oblio della Shoah ma, semmai, quello di sacralizzarla e «neutralizzarne il potenziale critico». Di fatto «l’Olocausto fonda una sorta di teodicea laica che consiste nel commemorare il male assoluto per convincerci che il nostro sistema incarna il bene assoluto».
È il consapevole rifiuto di questa prospettiva deformante che i De Caro, nell’importante saggio dedicato a Il Pianista di Roman Polanski e alla memoria della Shoah, riconoscono nel film che il regista ha tratto dall’autobiografia del pianista polacco Wladyslaw Szpilman, sopravvissuto del ghetto di Varsavia.
Polanski, sottolineano gli autori, ha preso partito per una interpretazione dello sterminio, nient’affatto consolatoria, come «catastrofe della modernità». Sulla scorta di Bauman, essi concordano con Traverso quando spiega che non c’è nessuna ragione ineffabile nel genocidio, che, invece, è spiegabile con le strutture costitutive della civiltà moderna: «la tecnica, l’industria, la divisione del lavoro, l’amministrazione burocratico-razionale».
Pensare il rapporto della Shoah con la nostra modernità, dunque, conduce a rimettere in discussione il nostro presente, come infatti indicano gli autori del saggio, analizzando alcune delle questioni poste dalla ricostruzione di Polanski della storia del ghetto di Varsavia.
Carcere a cielo aperto per gli ebrei della città, che vi furono stipati fino all’inverosimile, autogovernato da un Consiglio ebraico, fu uno «Stato di cartapesta» ma più vero del vero, dove rapidamente si replicarono le note forme di dominio burocratico, economico e militare. Governati e governanti erano destinati allo sterminio, tuttavia ciò non bastò a farli «uguali davanti alla legge e al potere».
Il regista, così come lo scrittore, realisticamente non rappresenta la comunità del ghetto come una «massa indistinta di innocenti», secondo la consuetudine di molta storiografia, ma insiste sulle sue articolazioni e conflittualità interne. Le vittime non sono tutte uguali.
Come scrivono alcuni testimoni, Michel Mazor ed Emmanuel Ringelblum su tutti, mentre la grande maggioranza degli abitanti, infatti, si rifiutò di collaborare con i tedeschi, anzi, si adoperò, autorganizzandosi, per trovare forme cooperative solidali con i più disperati, altri, la minoranza che formava il Consiglio e la polizia ebraici, scelsero di garantire l’ordine per conto dei nazisti. Sperando di assicurarsi il futuro — inutilmente, per altro — e per evitare le indicibili sofferenze della vita del ghetto e del lavoro coatto, fecero la scelta del «male minore».
Gli autori ricordano con le parole di Hannah Arendt che «chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male». Nella società tedesca solo chi mantenne la capacità di un giudizio personale e «si fece legislatore a se stesso», tenendosi «totalmente al di fuori dalla vita pubblica», non si compromise con un regime che aveva legalizzato delitti contro l’umanità.
Dunque, «l’assunzione di responsabilità personale di fronte al terrorismo di Stato e all’espansione del potere totalitario» prese la forma dell’«astensionismo radicale».
È il medesimo comportamento, suggeriscono gli autori, che nel tempo presente è opportuno tenere — se si vuole fare buon uso della memoria — di fronte alle richieste, che gli Stati democratici periodicamente fanno, di legittimazione di politiche diversamente ma altrettanto feroci che quelle ripugnanti degli Stati razzisti e terroristi dell’Otto e del Novecento, compreso lo Stato italiano. Politiche di esclusione e di guerra per le quali nelle democrazie è abitudine coltivare il consenso, quasi mai informato ma sempre raccolto, degli elettori e contro le quali è doveroso esercitare la «facoltà secessionista di giudizio personale».
Intorno ai temi della responsabilità individuale, del rapporto tra le memorie plurali e la memoria collettiva e della natura dello Stato si sviluppa anche il saggio sull’Argentina, di cui i De Caro ricostruiscono la storia a partire dal golpe del ’76 fino agli ultimi accadimenti, il fallimento dello Stato, la rivolta popolare, la ‘normalizzazione’ del governo Kirchner.
La versione ufficiale delle ragioni del golpe, ricordano gli autori, assegnava la responsabilità ai «dos demonios», il radicalismo della protesta politica e sociale e la conseguente reazione dei generali. I successivi regimi democratici dei Menem e Alfonsín, infatti, offrirono un osceno «simmetrico perdono ai carnefici e alle vittime».
La verità è che il golpe, ricordano gli autori, fu voluto dalla finanza internazionale, che chiedeva un radicale cambiamento di orientamento economico, e dai ceti dirigenti del Paese, sostenuti dall’«oltranzismo cattolico in versione nazionalista e militarista», che formò i militari e fornì loro «una mistica, l’ossessione di una crociata, l’allucinazione di una lotta contro il Male».
Non pochi in Argentina si resero complici del «terrorismo di Stato»: alcuni ne condivisero obiettivi e metodi, riconducibili a un «archetipo nazista»; altri, i più, preferirono non vedere, né allora, né dopo, accettando la fondazione di un ‘nuovo’ Stato sopra una bugiarda memoria collettiva che, occultando le responsabilità, consentì l’impunità degli assassini. È la medesima maggioranza che strinse un patto elettorale con lo Stato che nei vent’anni seguenti avrebbe provocato il «genocidio economico», fino alla rivolta del dicembre 2001.
Ci furono eccezioni: le Madres di Plaza de Mayo, soprattutto, che seppero — gli autori usano le parole di Bauman — «comportarsi moralmente», cioè «assumere un atteggiamento definito per decreto antisociale e sovversivo». La loro ostinata presenza in piazza per rammentare i figli, i nipoti, i mariti desaparecidos e «l’inesaudibile richiesta» di riottenerli indietro vivi hanno indicato «una nuova forma di impegno e solidarietà», lontana dalla ‘politica’, incapace questa di rispondere ai «veri bisogni degli esseri umani, a cominciare dal diritto alla vita».
Secondo i due storici, proprio «questa rivendicazione di identità che non ha più nulla da chiedere alle istituzioni» è la più feconda eredità che le Madres hanno lasciato all’Argentina. Infatti alla loro esperienza si richiamavano i figli dei desaparecidos che, dalla seconda metà degli anni ’90, hanno proclamato «la loro identità misconosciuta», smascherando pubblicamente gli assassini dimenticati, con trasgressiva insolenza e senza ricorrere alla giustizia dello Stato. Analogamente, durante la devastante crisi economica e sociale sfociata nella rivolta, i piqueteros, espulsi non solo dal lavoro ma da qualunque forma di assistenza sociale, non hanno potuto trovare istituzioni che li rappresentassero perché per loro essi non esistevano. Contro la ‘non esistenza’, per respingere la condizione di nuovi desaparecidos, hanno praticato nuove ed efficace forme di lotta e si sono organizzati in forme orizzontali e assembleari, marcando in questo modo la distanza non solo dalla «disumana alterità delle ragioni di Stato» ma anche da quelle organizzazioni, come i sindacati e i partiti, devote «alla mitologia della razionalità economica, della partecipazione e del progresso sociale».
La ‘normalizzazone’ di questa eccezionale esperienza ad opera di Kirchner e seguaci è iniziata e tutto fa pensare che proseguirà efficacemente.
Con il saggio dedicato a La Sinistra e l’ordine pubblico gli autori contribuiscono a disseppellire dalla dimenticanza in cui è caduto il decisivo aiuto dato dalla Sinistra al «nuovo orientamento politico nella gestione dell’ordine pubblico» con la concessione dell’autonomia all’Arma dei carabinieri. Il provvedimento ha creato un monstrum incontrollabile che assomma la funzione militare, di ordine pubblico e giudiziaria e, contemporaneamente, ha liquidato le aspettative della Polizia, ormai smilitarizzata, che si riteneva uno degli indispensabili poteri adibiti, insieme con magistratura e politica, alla gestione dell’ordine, concezione «concertativa» ormai obsoleta.
La Sinistra, infatti, optando con la riforma dell’Arma per la «soluzione militare», ha dimostrato di essere in perfetta sintonia con le esigenze delle moderne — o postmoderne — democrazie, che, diversamente dal passato, non prevedono alcuna «mediazione dei processi sociali». Gli esclusi dalla tutela della legge, perché poveri o stranieri o nomadi o socialmente sconvenienti, sono nemici e in quanto tali da eliminare, come in guerra.
Coerentemente i governi Prodi-D’Alema hanno risposto alla «superiore esigenza di controllo» che il «nuovo ordine democratico» mondiale richiede, ingaggiando una «guerra securitaria» interna, di cui la legge Turco-Napolitano, con i suoi campi di concentramento, è stata strumento essenziale, e una «guerra umanitaria» esterna in Kossovo. Feroci scelte di fondo che l’ultimo governo Prodi ha confermato.
Nello smascheramento di questa ferocia e della natura violenta dello Stato, nella restituzione della memoria dei vinti, nella denuncia dei miti che occultano la verità storica, nel richiamo alla necessità di mantenere salda la capacità di giudizio sta il senso etico e, quindi, politico del lavoro di Gaspare e Roberto De Caro.