di Giuseppe Pensabene Perez
A Sana’a i ristoranti si dividono principalmente in due categorie: quelli popolari e quelli “di lusso”. Nei primi si mangia la vera cucina yemenita e sono frequentati dal popolo. Quelli lussuosi offrono cucina fusion o pietanze di tipo siro-libanese e gli avventori sono quasi solo yemeniti ricchi, arabi del golfo ed occidentali. Esistono giusto un paio di posti “di classe” che propongono piatti locali tipici.
Nelle abitudini yemenite il menù del pranzo è completamente diverso da quello della cena. Il pasto di mezzogiorno è quello principale e fondamentale perché premette alla rituale masticata pomeridiana di qat e non si può masticare il qat senza la pancia piena. Il qat in Yemen è assunto quotidianamente dal novanta per cento della popolazione, il venti per cento del reddito familiare viene speso per acquistarlo e la maggioranza delle superfici coltivabili sono occupate dai suoi alberi, tanto che gran parte dei beni alimentari sono importati. Il mio caro amico Shafìq, medico dirigente della Mezzaluna Rossa (l’equivalente islamico della Croce Rossa), mi ha detto di aver provato a smettere ma dopo un mese ha ricominciato: senza qat si stancava molto di più e la sera, a casa, la moglie si lamentava…
A pranzo regna incontrastata la salta, una spumosa poltiglia verde a base di verdure varie e brodo di carne. Buona ma un po’ amara, anche se dicono che permetta di gustare meglio le foglioline verdi dell’imprescindibile masticata digestiva di sappiamo noi cosa. Viene servita in ciotole di terracotta che arrivano al tavolo direttamente da una specie di fornace (non appoggiateci mai le dita!) e si mangia servendosi dell’ottimo pane locale. Io preferisco la variante fahsa, la stessa minestra con l’aggiunta di carne bovina spezzettata e pomodoro. La migliore la trovate da Al-Faqih (Al-Faghih nella pronuncia sananita), ristorante che per prepararla vanta di macellare cinque mucche intere ogni giorno. Si trova un po’ fuori città, sulla strada che porta a Wadi Dahr, ma qualsiasi tassista lo conosce. A pranzo è sempre strapieno e se non c’è posto ai tavoli, i camerieri stendono volentieri delle stuoie sul marciapiede, dove si può comodamente mangiare seduti con le gambe incrociate.
Di secondo generalmente vi viene servito il pollo arrosto. Buonissimo: la pelle bruciacchiata e croccante di cumino e altre spezie, la carne morbida e saporita da prendere con le mani e intingere nella salsina a base di yogurt. Il tutto accompagnato dal marag, brodo di carne servito in simpatiche ciotoline, e dall’onnipresente bisbàs, peperoncini verdi piccantissimi da mangiare a morsi. Un gesto gentile è disossare la coscia e offrirla, rigorosamente con la mano destra, al proprio ospite.
A cena invece ci si mantiene più leggerini: l’effetto del qat non lascia molta fame. Il menu varia e si può scegliere tra kebda (fegato tagliato a listellini), lahme mafruma (carne macinata), ful e fasuliyya (fave e fagioli) e beyda (frittatine piccanti di uova e cipolle).
Assolutamente da non perdere è l’esperienza del pesce: si va allegramente in macchina nel quartiere di Buleyli chiedendo del suq al-samak (mercato del pesce) dove arrivano ogni giorni camion carichi da Hodeida, città sul mar rosso, e da Aden. Dentro degli enormi secchioni ottimi giàmbari, gamberoni, e sul bancone del mercato pescioni di tutti i tipi: squaletti, cernie, oratone. Il padrone ti accoglie mostrandoti quelli più freschi alzandogli le branchie, tu scegli il tuo pesce e lui te lo pesa per poi darlo ai ragazzetti addetti a pulirlo, ai quali si lasciano un centinaio di riali di mancia.
Dopo aver pagato un prezzo che è un po’ caro per lo Yemen ma ridicolo in confronto a quanto costa da noi, con il pesce incartato ci si avvia al ristorante prescelto. Io consiglio Filastin (Palestina) della via Zubeyri vicino a Bab Al-Yemen. L’ambiente è anonimo, uguale a quello di tutti gli altri ristoranti popolari, ma il cuoco è bravissimo. Prepara i gamberi con un delizioso sughetto di pomodoro e bisbas e altre spezie, da provare assolutamente con il pane rateb (umido).
Il pesce lo cucina facendone quasi carbonizzare la pelle e lo si mangia strappandolo con il pane e intingendolo nel sahhawik, salsetta piccantissima di formaggio, pomodoro, cetrioli.
Queste ottime cene si concludono bevendo il solito tè al cardamomo o un frullato di mango, un po’ malinconici per l’assenza di vino bianco ma sazi e soddisfatti.
Pranzo o cena nei ristoranti popolari non vi costeranno comunque più di duecentocinquanta riali, cioè meno di un euro. Clientela rigorosamente maschile.
Una nota sul Deja Vu, uno dei ristoranti moderni di Hadda, il quartiere ricco. Il locale potrebbe stare tranquillamente a Londra o Parigi per arredamento, colori e atmosfera, con l’immancabile contrassegno dei “posti fichi”: lo schermo gigante al plasma che trasmette video musicali muti. Le cameriere sono ragazze filippine, senza velo, carine e sorridenti, il proprietario è un bel ragazzone libanese senza baffi e parlano tutti solo inglese. Di antipasto ho preso degli involtini primavera molto più buoni di quelli dei comuni ristoranti cinesi di Roma; di secondo l’ottimo filetto al pepe verde servito con patate, carote e zucchine. Prezzo totale circa dodici euro. Sul tavolo c’erano dei piccoli menù con scritto “cocktails”: Heaven, Haway, Puertorico. Ma l’illusione è durata poco: erano succhi di frutta mista.