di Valerio Evangelisti
(da Robot n. 55)
Ho avuto la sfortuna di vedere ben tre Beowulf. Una versione fantascientifica, praticamente inguardabile, con Christophe Lambert protagonista. Un film islandese tutto sommato decoroso, malgrado l’evidente povertà di mezzi, intitolato Beowulf e Grendel. Infine il raccapricciante La leggenda di Beowulf. A questo punto, non voglio mai più sentire parlare di Beowulf in vita mia.
Noto solo una cosa, prima di addentrarmi nell’orrore. Il poema Beowulf, scritto attorno all’anno mille, è ritenuto il più importante testo anglosassone antico. Si pensi cos’aveva già prodotto, a quel tempo, la letteratura latina, e prima ancora quella greca; di lì a poco, quella in volgare. Inglesi e danesi riuscirono solo a partorire questa stronzata. Il che dimostra dove stia la civiltà.
Veniamo al film, precisando che uscì nelle sale in 3D. Non con il sistema classico degli occhialini con una lente rossa e l’altra verde (o blu), bensì in un formato innovativo. Sta di fatto che la versione in dvd è invece in 2D. Lo spettatore deve dunque sopportare frecce, pietre e oggettistica varia scagliate verso di lui, senza che ciò provochi la minima emozione.
La scena iniziale, un festino vichingo, è tratta di peso da un classico del cinema d’avventura: I Vichinghi di Richard Fleischer (1958), con un indimenticabile Kirk Douglas. Non è l’unico furto: se nel film di Fleischer una scena madre era rappresentata da un funerale solenne, con la salma spinta in mare su una nave data alle fiamme, in La leggenda di Beowulf le esequie di questo tipo sono addirittura due. Tanto per battere il modello almeno sotto il profilo quantitativo.
C’è però una novità, rispetto alla filmografia corrente sui normanni. Qui i vichinghi hanno gli occhi strani. Sulle prime non riuscivo a capire il perché (e nemmeno a riconoscere Anthony Hopkins nei panni del re Hrotgarh). Poi mi sono accorto che tutti gli attori avevano le sopracciglia tinte di giallo. Non so se questa fosse effettivamente una costumanza vichinga, non ne ho mai sentito parlare. Comunque doveva essere un’abitudine diffusa al nord, perché quando arriva lo svedese Beowulf ha anche lui le sopracciglia gialle, e così la sua “sporca dozzina” di compatrioti. Mah, sono troppo ignorante per discuterne; prendo atto della stranezza, che dà a ogni attore uno sguardo vagamente idiota, in armonia con l’interpretazione.
Finalmente, subito dopo il festino, arriva il mostro. E’ quasi un sosia gigante di Ezio Greggio, ma dal naso molto più lungo. Colpisce e frigna, frigna e colpisce. Il fatto del frignare ci permette di capire che è una sorta di bambino troppo cresciuto, ma ciò non riesce a ispirare troppa tenerezza. Fa fuori quasi tutti i vichinghi, re e regina esclusi, più qualche dignitario. Poi si ritira.
Per fortuna arriva dalla Danimarca il prode Beowulf, col suo manipolo di guerrieri invincibili. Non è per nulla simpatico. Nessun personaggio del film lo è, e questo potrebbe essere interpretato come trasgressione alle regole hollywoodiane. Temo però che sia del tutto involontario. In compenso, Beowulf urla di continuo, come Leonida in 300 (altro film ampiamente saccheggiato). Grida le lodi di se stesso. Narra storie farlocche di sue battaglie contro mostri marini — di cui, grazie alle regole del 3D, possiamo apprezzare tutta la dentatura. Insomma, il prototipo dello sfigato bugiardo che passa la settimana in palestra, in obbedienza alla presente dittatura salutista, e si sfoga la sera al bar raccontando balle.
Non a caso, il prode Beowulf decide di aspettare il ritorno del mostro tutto nudo, sebbene la neve fuori della baracca vichinga lasci intuire temperature glaciali. Il gigante che frigna, dal nasone alla Cyrano, arriva e fa strage. Beowulf, tra i pochi sopravvissuti, riesce a tagliargli un braccio. Il mostro, squittendo più forte, scappa e si rifugia dalla mamma. Là morirà, in una scena che dovrebbe commuovere, ma capace di emozionare solo gente dal naso molto lungo.
E’ proprio con la mamma che Beowulf dovrà confrontarsi nel prossimo round. Esce da una laguna fumigante nelle sembianze di Angelina Jolie, nuda e dotata di coda lunghissima. Che sia proprio nuda non ci giurerei: l’immagine è un po’ troppo laccata. Senz’altro la scena entusiasmerà i fan della Jolie. Non essendo io fra questi, ho sbadigliato durante tutta la seduzione di cui Beowulf è fatto oggetto. Poi si intuisce che l’eroe e la donna dalla lunga coda scopano, come già aveva fatto Hrotgarh, padre effettivo del mostro pinocchiesco; ma tutto ciò è solo lasciato intuire.
Seconda parte. Sono passati molti anni e Beowulf è adesso re dei vichinghi. Tutti credono che abbia ucciso la madre di Grendel, ma è solo un’altra delle sue balle. Ed ecco che lei ritorna in forma di serpentone alato, decisa a distruggere la tranquilla comunità barbarica (non si sa perché abbia atteso tanto tempo: forse aveva altro da fare).
Segue una lotta interminabile contro il serpente volante, con dovizia di calcinacci che cadono sullo spettatore per valorizzare il 3D. Piroette nel cielo, unghiate, vomito di fuoco, colpi di coda, forse anche qualche scoreggia. Aggrappato al dorso del mostro, Beowulf svolazza e strilla. Tutto finisce bene, nel senso che muoiono sia il drago che l’eroe. E’ a questo punto che c’è il secondo funerale vichingo. Da quel momento gli anglosassoni potranno tornare alla loro attività preferita: tosare capre.
Il regista di questa roba è Robert Zemeckis, che non ha più realizzato nulla di buono dai tempi di Ritorno al futuro. Nel cast c’è anche John Malkovich, nella parte del tutto marginale di cospiratore e di uomo cattivo fin dallo sguardo: le sopracciglia gialle accentuano infatti il suo strabismo naturale, rendendolo losco. Da notare — se c’è qualcosa da notare — una vena polemica anticristiana: un prete prega ma non può nulla contro i mostri, che seguono altra religione (sono fatti probabilmente a immagine e somiglianza dei loro dei).
Dopo averne parlato tanto male, devo adesso citare l’unica qualità del film: è un esemplare unico, dato che non fu mai scritto un Beowulf 2. I poeti anglosassoni si erano sforzati troppo, e si presero qualche secolo di tempo prima di scrivere qualcos’altro di decente.