di Luca Barbieri

Autonomi4.jpgQui le precedenti puntate.

c) 2002 – Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta.

Nei mandati di cattura non si parla dei ferimenti avvenuti in questi anni a Padova. Ma sempre secondo indiscrezioni alcune delle persone arrestate potrebbero avere responsabilità nella fase preparatoria di almeno un azzoppamento, mentre, sempre a mezza voce, c’è qualcuno che aggiunge: “Per ora di fatti di sangue non si parla perché il magistrato non sarebbe contento”. Per cui ci sarebbero da prevedere molte sorprese. […] C’è allora il sospetto, per ora solo un sospetto non provato da fatti, che si sia in presenza di qualche testimonianza interna, molto circostanziata, tale da poter permettere di ricostruire tutto un lungo e complesso periodo. Insomma che si sia in presenza di un piccolo Fioroni veneto.

E poi un passo che contraddice in parte l’affermazione precedente (cioè che si sarebbe di fronte a organizzatori della fase preparatoria degli attentati). «Di certo il quadro è inquietante: si sarebbe di fronte agli organizzatori o a ogni modo agli esecutori di tutta questa serie di episodi che partendo da piccoli attentati sono sfociati poi nelle “notti di fuoco” che hanno attirato l’attenzione nazionale su Padova e il Veneto».
Il Manifesto questa volta non si fa trovare impreparato e la notizia del blitz di marzo la dà subito in prima pagina: “Altra retata di autonomi a Padova”.

A fine mese Palombarini emette nove mandati di cattura per banda armata richiesti da Calogero. L’Unità esulta: “Ora per nove autonomi l’accusa è di banda armata”. Nell’occhiello: “Palombarini dà ragione a Calogero”. Un titolo corretto per un pezzo che invece estende, forse al di là delle intenzioni del provvedimento (nove arresti), il significato: «Autonomia organizzata è una vera e propria banda armata, guidata tra gli altri dagli imputati del “7 aprile”, finora accusati solo di associazione sovversiva», scrive Sartori.

Il tre aprile a Padova viene scoperto un “covo-arsenale” di Autonomia. Nello stesso giorno a Roma vengono scarcerati due redattori della rivista Metropoli, Virno e Castellano. L’Unità pubblica le due notizie nel taglio alto di pagina 5 venerdì 4 aprile. La prima notizia viene data in un articolo a 6 colonne “Armi e divise CC in un covo a Padova”. La seconda è invece affogata in un articolo dedicato alle accuse a due redattori di Rosso. Della scarcerazione non c’è traccia nel titolo, “Soldi e sequestri per finanziare la rivista dell’Autonomia”, mentre se ne accenna nel sommario: “Gianni Tranchida e Paolo Pozzi (l’uomo-alibi di Negri) interrogati a Roma — Scarcerati due di «Metropoli»”. Stessa proporzione anche per Repubblica. Inversa invece sul Manifesto che dedica un lungo articolo di Tiziana Maiolo alla scarcerazione e solo una breve notizia a una colonna al ritrovamento del covo padovano.

Siamo ormai a un anno dal 7 aprile 1979. Un anniversario importante. Repubblica lo ricorda il 6 aprile ’80 con due pagine interamente dedicate al caso. Il tema comincia in prima pagina con un fondo di Eugenio Scalfari: “Quel 7 aprile di un anno fa…”. Si tratta di un editoriale che mette sul campo molti interrogativi, dubbi che riguardano sia l’inchiesta che la posizione degli imputati. Scalfari prende spunto da una lettera inviata da Negri a Repubblica il 20 febbraio dello stesso anno. Il direttore di Repubblica ritiene legittime le richieste di Negri ma ripropone tutte le domande sul suo ruolo nella costruzione del cosiddetto partito armato. Le due pagine interne sono costruite su tre interviste a protagonisti della vicenda: una ad Aldo Fais (“Fu un lavoro enorme ma Calogero ed io non ci siamo fermati”), una ad Alisa Del Re (“Odio il terrorismo però vennero da me dicendo: brigatista”), e una a Bruno Leuzzi Siniscalchi, avvocato di Negri (“Né testi né prove accusano Toni Negri”). In più un articolo-cronologia intitolato: “Dal blitz padovano alle rivelazioni del professorino”. L’occhiello è dubbioso: “Esiste il connubio Autonomia-Brigate Rosse?”. Nel sommario un riferimento a Nicotri (che anche questa volta non viene indicato, nemmeno nel testo del pezzo, come collaboratore del quotidiano): “Gli arresti di Milano, di Roma e del Veneto. I mandati di cattura e i provvedimenti di scarcerazione — Nicotri scagionato — L’estradizione di Piperno e Pace dalla Francia — Fioroni e il 21 dicembre”. Da notare che le due pagine sembrano in qualche modo sbilanciate a favore dalla difesa. Repubblica, dopo un anno vissuto a fianco e a sostegno dell’inchiesta dà improvvisamente voce alla difesa e sembra esprimere i primi dubbi.
Il Manifesto ricorda il 7 aprile martedì 8 aprile 1980 con due pagine di testimonianze. In prima pagina il fondo di Rossana Rossanda (“A un anno dal 7 aprile”) prova a dare all’evento doti di precursore di un annus horribilis per la democrazia italiana: aumento delle vittime, estensione della legislazione d’emergenza. Tutto fatto risalire (oppure simbolicamente collegato) al 7 aprile, l’operazione con la quale, per la Rossanda, la figura del partito armato è stata ampliata a dismisura. All’interno, a pagina 3 e 4 un articolo di Tiziana Maiolo (“Come si mette fuorilegge, sotto l’accusa di terrorismo, un’area politica che non è il terrorismo”) e tre interventi di tre degli arrestati del 21 dicembre 1979: Alberto Magnaghi, Jaroslav Novak e Giorgio Raiteri. Le due pagine sono illustrate da vignette di Tex Willer.
Il Corriere ricorda il 7 aprile con un po’ di ritardo il 18 aprile del 1980: un’intera pagina a firma di Antonio Ferrari. A cinque colonne, a pagina 6, la cronaca di un anno di indagini “Dentro i segreti del 7 aprile”. In un box a metà pagina la cronologia ”Blitz nel cuore dell’Autonomia”. In una colonna un commento “Ma la lotta all’eversione non è finita” e a fondo pagina “E sullo sfondo il delitto Moro”.

A fine mese la Corte d’Appello di Venezia accoglie il ricorso di Calogero contro la scarcerazione di Di Rocco, Bianchini, Serafini, Del Re e Tramonte decisa in settembre da Palombarini. In realtà come spiega Sartori il 23 aprile (“Padova: dovranno tornare in carcere tutti gli imputati per il «7 aprile»”) i ricorsi erano due e quindi le sentenze della corte sono altrettante:

Nella prima stabilisce che tutte e cinque le persone scarcerate da Palombarini devono tornare in prigione, in quanto le prove (documenti e testimonianze) e gli indizi esistenti a loro carico sono più che sufficienti a qualificarli come dirigenti di un’associazione sovversiva, cioè di Autonomia organizzata. Nella seconda sentenza, la sezione istruttoria respinge invece il ricorso di Calogero contro la mancata emissione dei mandati di cattura per banda armata, affermando che — sulla base degli incartamenti a sua disposizione — non può stabilire il rapporto diretto tra Autonomia organizzata ed il terrorismo veneto. Questa seconda sentenza non suona, comunque, come una “sconfessione” delle tesi del PM…

Arriviamo all’unica vera notizia importante del 1980. Un evento che segna una vera e propria frattura nell’atteggiamento della stampa italiana sul procedimento 7 aprile. E’ un punto di non ritorno: o un quotidiano muta atteggiamento in questa occasione oppure rimarrà schierato fino alla fine. Il brigatista Patrizio Peci, arrestato il 19 febbraio a Torino, dall’inizio di aprile sta collaborando con la magistratura. Le sue dichiarazioni, che attribuiscono la telefonata a casa Moro a Mario Moretti, scagionano completamente Toni Negri da ogni accusa riguardante il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro (erano ben 17 i capi d’imputazione connessi all’agguato di via Fani). Il consigliere istruttore di Roma Achille Gallucci lo ha quindi prosciolto dall’accusa «per mancanza di sufficienti indizi di colpevolezza». La notizia viene pubblicata dai quotidiani il 25 aprile. Il giornale più colpito dalla notizia sembra essere Repubblica per il quale si avverte una netta inversione di rotta. La notizia viene pubblicata con enorme risalto in prima pagina: “Toni Negri scagionato dall’assassinio di Moro”. L’articolo principale di Franco Coppola esprime tutti i dubbi che questo provvedimento può suscitare:

Accollare a Negri — scrive il cronista — i 17 reati connessi al caso Moro era solo un pretesto perché la parte più sostanziosa dell’inchiesta sull’Autonomia operaia avviata a Padova dal PM Pietro Calogero venisse trasferita a Roma dove si era formato un pool di magistrati addetti a tempo pieno alle indagini contro il partito armato[…] I giudici hanno tenuto in piedi l’accusa originaria contro Negri fino a che hanno potuto basandola su una discutibile perizia affidata, chissà mai perché ad un esperto americano, e senza tenere in nessun conto le testimonianze di quanti affermavano che il 30 aprile 1978 Negri era a Milano e non a Roma, città da cui proveniva la famosa telefonata […] Le conseguenze del provvedimento di Gallucci in prospettiva lasciano intuire un ridimensionamento, se non uno smantellamento, dell’ipotesi accusatoria.

In prima pagina anche un commento “giuridico” di Neppi Modona “Un errore riparato troppo tardi”. A pagina due e tre gli approfondimenti. Le reazioni da Padova: “Calogero tace, Fais dice «e noi andremo avanti»”. A pagina tre il “giro” dell’articolo di Coppola “Processo Moro senza Negri. In aula soltanto i killer br” e un’intervista all’avvocato di Negri Leuzzi Siniscalchi che dichiara “La nostra battaglia comincia ora, cadranno anche le altre accuse” e chiede per il suo assistito il proscioglimento oppure un processo rapido.
Repubblica è come un barile colmo di dubbi. Il 25 aprile 1980 questo barile esplode liberando interrogativi che finora, negli articoli di cronaca (escludendo quindi i commenti comunque ospitati) non erano quasi mai trapelati. Un comportamento abbastanza schizofrenico se si considera che si arriva a parlare addirittura di “smantellamento” dell’inchiesta.
Profondamente differente l’atteggiamento dell’Unità. Un titolo unico a cinque colonne in prima pagina “Si precisa la mappa eversiva” riunisce due notizie: quella che riguarda Negri di Sergio Criscuoli “Negri esce dal caso Moro. Confermati i collegamenti BR-Prima linea-autonomia” e “In un clima di mistero si costituisce la fidanzata di Peci”. Insomma alla notizia l’Unità dedica un solo pezzo che riporta (esaltando gli indizi a carico un anno prima) il provvedimento di Gallucci. «Toni Negri esce dal caso Moro. Era l’accusa più clamorosa, ma al tempo stesso anche la meno solida, in confronto alle altre che continueranno a trattenere in prigione il docente padovano», scrive Criscuoli. Che fosse l’accusa meno solida però dalla lettura dell’Unità non si era mai ricavato. L’articolo procede sminuendo il fatto con un abile stratagemma, riportando cioè per intero e quindi commentando l’ordinanza di Gallucci che fa una piccola storia della posizione giudiziaria di Negri.

Il magistrato ricorda che il mandato di cattura firmato l’anno scorso contro il docente padovano era legittimato da una serie di elementi indizianti […] la fragilità dell’alibi di Negri […] l’uomo che doveva confermare la sua versione, Paolo Pozzi, era poi finito in prigione per banda armata […] e ancora il fatto che Negri “manteneva collegamenti con persone appartenenti ad associazioni aventi finalità di eversione […] In questo quadro incerto la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata proprio la testimonianza di Peci.

L’ordinanza veniva riportata per intero anche da Repubblica ma in un box a parte. Che senso abbia riscrivere per intero all’interno di un articolo gli elementi che sostenevano un anno prima un’accusa poi rilevatasi completamente falsa non è chiaro. Almeno che lo scopo non sia quello di confondere le acque e sminuire la portata dell’avvenimento.
Il giorno dopo, il 26 aprile, quasi a compensare le rivelazioni del giorno precedente, l’Unità titola “Il giudice Caselli sottolinea il ruolo diretto di Autonomia nel terrorismo”. La dichiarazione è stata rilasciata nella conferenza stampa per fare il punto sull’interrogatorio di Peci. L’Unità puntella la sua visione del terrorismo e polemizza a distanza con il Manifesto.
Anche il Corriere della Sera non sembra dare grosso peso alla notizia dell’uscita di Negri dal sequestro Moro visto che la notizia viene pubblicata a pagina sette e l’unico spunto è il commento di Roberto Martinelli intitolato “Un episodio che deve far riflettere”. Il servizio ha solo un minuscolo richiamo in prima pagina.
Di tutt’altro tono, come previsto, il Manifesto che titola a tutta pagina “Toni Negri non ha niente a che vedere con le BR né con l’assassinio di Moro. Cade clamorosamente l’accusa del 7 aprile”. Il commento di Rossana Rossanda è intitolato: “E ora il 21 dicembre”. Un pezzo in cui la giornalista sostiene che sia l’operazione del 21 dicembre ’79 a dover finire ora sotto la lente d’ingrandimento per una riflessione critica. Una curiosità: a pagina sei il Manifesto pubblica una rassegna di titoli apparsi sulla stampa che sostenevano che Negri fosse l’autore del sequestro Moro. Il titolo dell’articolo del Manifesto è “Abbiamo le prove inoppugnabili. Negri è il capo delle BR, le BR hanno rapito Moro, dunque Negri ha organizzato via Fani. L’applauso dei giornali è durato un anno”. Nel suo articolo la Rossanda lancia tra l’altro una specie di scommessa. «Vedremo se oggi i grandi quotidiani colpevolisti avranno il coraggio di scrivere: abbiamo detto che Negri aveva organizzato l’assassinio di Moro, non era vero. Che era il vero cervello delle Brigate Rosse, non era vero. Che aveva ragione Calogero, ad appendere il terrorismo italiano ai leaders di Potere Operaio e dell’Autonomia, ci siamo sbagliati. Eppure sarebbe importante dirlo». La Rossanda, come abbiamo visto, vede giusto. Il giorno dopo il Manifesto bacchetta tutti, salvando solamente Repubblica che come abbiamo visto è uscita molto scossa dalla notizia, con un corsivo in prima pagina, “Che tempi, quando Toni Negri stava ogni giorno in prima pagina”, che descrive il risalto che i quotidiani italiani del giorno prima hanno pubblicato la notizia.

E poi più nulla. Fino all’autunno. A riportare Negri e il 7 aprile sulle pagine dei quotidiani l’interrogatorio di Marco Barbone, uno dei membri della brigata “XXVIII marzo” che uccise il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi e ferì Guido Passalacqua di Repubblica. Una delle storie più allucinanti del terrorismo italiano: ragazzi giovanissimi, figli della Milano bene (Barbone è addirittura figlio di un dirigente della Rizzoli, il gruppo proprietario del Corriere) che decidono di colpire due giornalisti onesti e “progressisti” come Tobagi e Passalacqua, che tra l’altro conoscevano direttamente. Ma del collegamento tra la vicenda e Negri (si parla di un memoriale del giovane) si parla più che altro sui settimanali.

I periodici hanno mano libera — scrive Il Manifesto del 19 ottobre 1980 nell’articolo “E ora sul conto di Negri mettono anche la 28 marzo” — così dopo le “rivendicazioni” di Panorama, che anticipa parte del memoriale di Marco Barbone, il giovane che ha confessato l’omicidio di Tobagi, ecco la risposta dell’Europeo. Panorama svelava i rapporti tra Barbone e Toni Negri, il “maestro” che avrebbe iniziato il giovane alla lotta armata, l’Europeo rincara la dose, rivelando contatti tra il giovane della Brigata 28 marzo e Marco Donat Cattin. I due si sarebbero incontrati nel 1978, quando Barbone era un aderente alle Brigate Comuniste, un’organizzazione clandestina diretta — citiamo sempre il settimanale — da Toni Negri, Corrado Alunni, Franco Tommei e Gianfranco Pancino.

Sui settimanali, si diceva. E sull’Unità ovviamente, che sul collegamento tra Brigata XXVIII Marzo e Autonomia punta fin dal primo giorno (“Possono venire in piena luce i legami Autonomia-terrorismo” è il primo sommario pubblicato il 13 ottobre). E poi nei giorni seguenti: “Barbone: «Negri, un capo operativo». Sotto, l’occhiello “Nella lunga confessione ricostruito il rapporto tra Autonomia e terrorismo”. Quasi un secondo Fioroni secondo l’Unità del 17 ottobre che titola “Barbone racconta la storia di Autonomia dal ’76 dove l’aveva interrotta Fioroni”. “A Roma una copia della confessione di Barbone” è l’occhiello dell’Unità del 22 ottobre all’articolo “Imputati del 7 aprile di fronte a nuove accuse”. Continuano le rivelazioni di Barbone (sempre Paolucci sull’Unità: “Negri e Alunni divisi solo sulla tattica”) cui Negri risponde, tramite gli avvocati, accusandolo di essere un «militarista duro» e ammettendo quindi l’esistenza di un rapporto tra i due all’epoca di Rosso. Anche Repubblica ne parla ma il tono è meno certo, più dubbioso. Da notare anche che, negli stessi giorni in cui Barbone comincia a parlare, vengono arrestati anche i due terroristi di Prima Linea responsabili dell’omicidio Alessandrini. La stampa dedica loro però ben poca attenzione e soprattutto non approfondisce la correlazione che ne scaturisce (anzi la non correlazione) tra Negri e l’omicidio.

7.1981-1982: il lungo silenzio in attesa del processo

Il 1981 è l’anno delle requisitorie e dei rinvii a giudizio. A Roma come a Padova. I giornali riassumono, si schierano, e lo scontro, in assenza di novità da parte inquirente (questa fase, nel suo impianto principale, oramai è conclusa) diventa di tipo “ideologico” e ricalca le divisioni presenti nella magistratura. L’attenzione dei quotidiani si riaccende solo in occasione della pubblicazione degli atti. La loro lettura (si tratta di documenti di mille e più pagine) non è agevole ed è per questo che, più facilmente, la loro interpretazione ricalca giudizi precedentemente espressi. Quella del 7 aprile non è più una cronaca continuativa. L’articolo (spesso molto lungo ed elaborato) fa’ un sunto del documento per il lettore ricordandogli, non sempre, le puntate precedenti. Sono come finestre che si aprono di tanto in tanto lasciando intravedere un quadro in continuo movimento.
Si è già detto, in precedenza, che il caso 7 aprile sembra intrecciarsi con gran parte degli eventi legati al terrorismo che si svolgono in questi anni. Il 12 dicembre del 1980 le BR rapiscono il giudice Giovanni D’Urso. Il 28 dicembre dello stesso mese nel braccio “politico” del carcere di Trani, nel quale sono rinchiusi sia alcuni brigatisti che i principali imputati del troncone romano del 7 aprile, scoppia una rivolta poi soppressa con la forza dalle forze dell’ordine. Inizialmente la stampa attribuisce proprio agli imputati del 7 aprile la primogenitura della rivolta. Grandi titoloni sui giornali (l’Unità del 31 dicembre titola a cinque colonne: “Toni Negri fra i capi della rivolta in carcere?”) e poi anche questa accusa, con la verifica che la sommossa non li vide partecipi, cade. Sui giornali la rettifica in poche righe solo verso il 10 gennaio. Ritornando al sequestro D’Urso, l’11 gennaio 1981 vengono emessi nuovi mandati di cattura contro Luciano Ferrari-Bravo, Emilio Vesce, Antonio Negri ed altri per aver collaborato, mantenendo contatti dal carcere, al sequestro D’Urso. Il giudice verrà rilasciato dalle BR il 15 gennaio. Queste accuse verranno ritirate il 23 maggio da parte del giudice istruttore Ferdinando Imposimato per «l’assoluta mancanza di qualsiasi elemento di responsabilità». La notizia del nuovo mandato di cattura viene però data in sordina il 12 gennaio. La cronaca è monopolizzata dall’angoscia dei parenti, dai ricatti delle BR che vorrebbero imporre ai quotidiani la pubblicazione di un loro comunicato e dalla tensione che accompagna politica e magistratura per la sorte del magistrato. I dettagli vengono schiacciati. Il Corriere dà la notizia in un piccolo articolo di Bruno Tucci, “Spaccatura nei detenuti incriminati, oltre quaranta si dissociano dai duri”. E nell’occhiello “Interrogatori della magistratura nei penitenziari sotto inchiesta”.

Quattro giudici romani sono arrivati in Puglia per interrogare i 65 imputati coinvolti nel rapimento del magistrato […] L’accusa è precisa e circostanziata. Secondo gli inquirenti, i terroristi rinchiusi in questo supercarcere hanno agito “in contemporanea con i loro complici a piede libero. […] Tra i terroristi di Trani interrogati e colpiti da ordine di cattura per concorso nel rapimento del giudice D’Urso, ci sono diversi nomi noti. Citiamo i più importanti: Toni Negri, Paolo Lapponi, Gino Liverani, Emilio Vesce, Giuliano Naria, Bruno Seghetti, Oreste Strano, Claudio Vaccher, Luciano Ferrari Bravo […] Una specie di gotha del terrorismo italiano sul quale la magistratura fa pendere la sua spada di Damocle.

La notizia c’è tutta, ma il Corriere non “spinge”. Dopo questo primo accenno negli ultimi giorni del sequestro il nome di Negri e degli altri imputati del 7 aprile non comparirà mai né nei titoli né nei sottotitoli dedicati al rapimento D’Urso.
Anche L’Unità inserisce il nome di Negri solo di sfuggita all’interno del testo dell’articolo in prima pagina. La Repubblica, che titola “Anche Renato Curcio e Alunni incriminati per il sequestro”, mette addirittura il nome di Negri e Ferrari Bravo tra parentesi in fondo all’elenco degli incriminati, come fosse un particolare di poco conto. Solo Il Manifesto evidenzia il fatto con un corsivo di Rossana Rossanda, pubblicato in prima pagina e intitolato “Naturalmente è lui, Negri”.
Da mesi brigatisti e autonomi sono rinchiusi nello stesso carcere: l’operazione, riuscita, mira evidentemente ad identificare attraverso la detenzione nello stesso luogo brigatisti e imputati del 7 aprile, istituendone un ideale collegamento. Ma questa volta bisogna registrare una certa refrattarietà della stampa a seguire la magistratura. Forse, anche ai quotidiani, l’incriminazione per i 65 detenuti di Trani sembra più una mossa disperata che una vera ipotesi investigativa. Da segnalare comunque che non si è trovata traccia del ritiro dell’accusa avvenuto nel maggio del 1981.

Il primo atto giudiziario riguardante il processo 7 aprile che entra nella cronaca dei quotidiani del 1981 è la requisitoria del procuratore generale Giorgio Ciampani che riguarda il troncone romano dell’inchiesta. Si tratta di un documento di trentamila fogli. Nella requisitoria grande peso e spazio è stato dato alle testimonianze sia di Fioroni che di Barbone. “La storia del partito armato nel racconto dei disertori” titola Repubblica che presenta, per mano di Franco Coppola, la requisitoria a pagina due del numero di domenica 25 gennaio. Oltre al lungo articolo di Coppola, Repubblica con Bianchin registra anche le «reazioni soddisfatte di Padova» in un box titolato “Ora bisogna colpire i fiancheggiatori”, frase riferita alle dichiarazioni del professor Angelo Ventura che commenta molto positivamente la requisitoria. «A due anni dall’inchiesta il “teorema Calogero” resiste. Questa l’impressione che si coglie a Padova nei primi commenti dopo la richiesta di rinvio a giudizio di Toni Negri e di altri 78 esponenti di Autonomia operaia organizzata», scrive Bianchin. Il giornale di Scalfari dà la notizia del ritorno in carcere di Bianchini, Di Rocco, Serafini, Tramonte e Del Re, decretata in seguito al rigetto da parte della Cassazione del ricorso presentato dai loro avvocati alla Corte di Appello di Venezia, in poche righe all’interno del pezzo da Padova (senza alcun riferimento né nel titolo né nell’occhiello). Solo il Corriere dedica alla notizia un articolo intero il 25 gennaio (“L’inchiesta su Autonomia ha riportato in carcere cinque docenti di Padova”). Il pezzo, a firma di Antonio Ferrari, registra la nuova puntata dello scontro Calogero-Palombarini e il surriscaldarsi dell’ambiente universitario patavino.
Tornando a Roma il lavoro dei quotidiani è sicuramente aiutato da alcuni passaggi, molto polemici, della requisitoria Ciampani, con i quali vengono difesi a spada tratta i testi portati a sostegno dell’accusa. «Queste stesse persone — scrive Ciampani (riportato sempre dalla Repubblica) — che hanno in tante occasioni propugnato la funzione emendatrice della pena, hanno gettato e getteranno fango su questi uomini e calpesteranno e derideranno le drammatiche, profondamente umane motivazioni del loro comportamento: tutto è scontato e previsto, ma soprattutto logico poiché in luogo del fango e della derisione non hanno che una sola alternativa: ammettere i fatti contestati». L’argomentazione, si può notare, è scritta in modo tale che se gli imputati contesteranno i testi (e, se essi sono innocenti, questa, trattandosi di un processo basato principalmente su prove documentali e testimoniali, è l’unica cosa che possono fare) questa altro non sarà che un’ulteriore prova della loro colpevolezza. Chi fa un uso molto largo di citazioni dirette dalla requisitoria Ciampani è l’Unità che negli stessi giorni compone una specie di collage, firmato da Sergio Criscuoli e da Bruno Miserendino, intitolato “Un lungo dossier di violenze e delitti”. Queste le prime righe del pezzo: «Violenze, crimini atroci, attentati. E ancora: accuse da ergastolo, reati comuni per decine di anni di carcere, ottanta imputati e un protagonista assoluto e onnipresente: Toni Negri. […] Il quadro dei fatti è complesso, a volte ingarbugliato, ma di fatti, appunto, si tratta». All’opposto, Paese Sera usa pochissime citazioni dirette e ricostruisce (“L’accusa: insurrezione armata, ma anche delitti”) dieci anni di terrorismo con parole proprie traducendo la requisitoria per il lettore. Paese Sera pubblica anche un commento di Giuseppe Rosselli: “Per il PM ben pochi dubbi. Autonomia è una banda armata”.

Il secondo anniversario del 7 aprile è sicuramente meno “intenso” rispetto alla prima ricorrenza. Eppure i giornali si danno da fare per creare attesa intorno alla data. A fine marzo circolano timori per alcune minacce degli autonomi partite in seguito all’emissione di nuovi mandati di cattura per banda armata da parte della sezione istruttoria di appello che, su parere della Cassazione, ha così risolto uno dei tanti contrasti tra Palombarini e Calogero dando ragione a quest’ultimo. Siamo a pochi giorni dall’operazione nota come il “blitz della quaresima” che avrebbe individuato i responsabili di aggressioni e gambizzazioni. “L’autonomia ora minaccia rappresaglie in risposta alle nuove incriminazioni” titola l’Unità del 27 marzo. «Autonomia organizzata replica minacciosa alle nuove incriminazioni per banda armata piovute l’altro ieri su molti suoi leaders. L’ultima volta che promise “una risposta di massa”, nel dicembre ’79, scatenò a Padova una paurosa guerriglia urbana. Tenterà di “riprendere la piazza” anche il prossimo 7 aprile?» si chiede Michele Sartori. Nonostante le nubi minacciose intraviste da qualcuno, tutto si svolge in relativa tranquillità come racconta Antonio Ferrari sul Corriere dell’8 aprile 1981. “A Padova presidiata dalla polizia gli autonomi rinunciano ai cortei”, titola il Corsera a pagina sette a quattro colonne. «Tutto il fronte dell’eversione è in crisi», ne deduce Ferrari. «E così il 7 aprile, data ormai storica, se ne è andato senza traumi, senza manifestazioni, quasi in silenzio. Doveva esserci un meeting, al Palasport, organizzato da Democrazia proletaria, radicali e dal gruppo “Padova Democratica”, con l’adesione dell’Autonomia. Prima si sono ritirati DP e i radicali. Il segretario di “Padova democratica”, Mario Levante, ha scritto una lettera di rifiuto, l’altro ieri. E il comune ha deciso: “Niente palasport per il 7 aprile”». Il fatto che a Padova l’anniversario si sia svolto in tutta calma è una prova ulteriore del fatto che Calogero aveva visto giusto:

Da un volume cento si è passati ad un volume uno (nelle violenze). Vuol dire che il sostituto procuratore della Repubblica Pietro Calogero non aveva sbagliato due anni fa, mettendo in galera i grandi capi dell’Autonomia operaia organizzata: Toni Negri, Oreste Scalzone, Luciano Ferrari Bravo, Emilio Vesce, gli altri. Una fetta della facoltà di scienze politiche in prigione. E dopo la cattura, la fine — o quasi — degli atti di violenza. “E’ la realtà” dicono perfino i superscettici, quelli che fino nel ’79 gridavano istericamente contro il processo alle idee e alle opinioni. […] Il processo chiarirà i dubbi, probabilmente placherà le polemiche. Bisogna però dire che non ci sono più gli attacchi furibondi all’istruttoria, non ci sono più le illazioni gratuite.

L’Unità celebra invece l’anniversario pubblicando stralci della sentenza di rinvio a giudizio del giudice Francesco Amato. “L’imputazione di omicidio a Toni Negri:«così gli autonomi uccisero ad Argelato»”. A fianco un fondo di Ibio Paolucci, “Criminalizzazione? Ora a sostenerlo sono rimasti in pochi” che spiega come, a due anni dal 7 aprile, l’impianto processuale sia stato rafforzato da prove e testimonianze. Di spalla un articolo a una colonna, “Il magistrato: «cieche talpe della eversione»”, che riporta i migliori stralci dell’Amato “storico” tratti dalle ultime pagine della sentenza di rinvio a giudizio:

“Ben scavato, vecchia talpa”, amano dire, ripetendo un’antica frase di Marx, i fautori della lotta armata. Ma le cieche talpe dell’eversione, scavando, invece di sbucare nel Palazzo d’Inverno sono andate a finire nell’immondezzaio della storia”. Con questa frase, un consapevole appello a tutti i cittadini, il giudice istruttore Francesco Amato chiude la sentenza di rinvio a giudizio per gli imputati dell’inchiesta 7 aprile. Ha scritto poco prima il magistrato: “Il devastante crescendo della violenza e della criminalità politica è avvenuto nel corpo di una società che dalla Liberazione ad oggi ha avuto ampi e positivi sviluppi. Il nuovo rapporto classe operaia-Stato, frutto della lotta antifascista prima, di tante battaglie democratiche dopo, ha rotto i vecchi equilibri di potere e ha aperto la possibilità, nella definitiva scelta democratica, di conquistare diversi e migliori assetti economico-sociali. Le grandi masse — prosegue il magistrato — non più oggetto, ma protagoniste delle vicende politiche attraverso i tanti strumenti di partecipazione che costituiscono la realtà della nostra Repubblica, hanno dato l’avvio a processi democratici di trasformazione sociale e di rinnovamento delle strutture.

La Repubblica invece il 7 aprile dedica alla ricorrenza tutta pagina 11. Un articolo di Franco Coppola, “I pentiti del 7 aprile, «Disertate, la lotta armata è fallita»”, e una enorme, spropositata tabella, “Nomi e fatti del processo ad Autonomia”, che associa ai principali imputati l’elenco delle imputazioni, le richieste del PG e l’ordinanza di rinvio a giudizio. Dall’articolo di Coppola ci si attenderebbe, non dico un’intervista ai pentiti, ma almeno un documento comune che abbia questo intento (invitare cioè alla diserzione). Invece l’articolo è costruito riportando brani della sintesi che il giudice Francesco Amato ha fatto, nella sua ordinanza di rinvio a giudizio, dei motivi che hanno spinto gli otto pentiti a parlare.

Il 7 aprile torna ad avvicinarsi alla prima pagina a fine maggio in occasione della consegna della lunghissima requisitoria del PM Pietro Calogero che riguarda il troncone padovano dell’inchiesta. La stampa dimostra una evidente attesa per questo atto del magistrato dal quale è partita tutta l’inchiesta 7 aprile. Già dal 19 maggio i giornali cominciano a parlarne formulando le prime ipotesi. “Cento rinvii a giudizio per l’Autonomia?” si chiede l’Unità. Quello di Calogero è un «librone» (il termine ricorre ovunque) di 1455 pagine. Il quotidiano del PCI parla della requisitoria come della «più completa e nuova ricostruzione del terrorismo italiano». Paese Sera il 20 maggio anticipa in un lungo articolo di Giulio Obici il tema forte della requisitoria, che sugli altri quotidiani emergerà solo più tardi, ovvero il ricollegamento dell’inchiesta con il caso Moro (“Autonomia e BR in contatto durante e dopo il caso Moro”, è il titolo). «Come vuole la tradizione padovana, anche sul librone scritto da Pietro Calogero, il pubblico ministero del 7 aprile, è calato il mistero […] Intanto, le voci che già circolano, poiché vogliono che Calogero abbia suggellato la sua ipotesi iniziale finiscono per tradurre l’attesa in acuta suspence». Ci sarà pure il mistero, come scrive Obici, ma è certo che il giornalista di Paese Sera ci ha visto giusto. «Se, come pare, esso riapre l’intero discorso sul partito armato in Italia, può anche incidere su inchieste già concluse, come per esempio quella sul rapimento-omicidio di Aldo Moro […] quella storia segreta di Autonomia può reimpaginare altre istruttorie. Un esempio: cosa può accadere dei grandi leader autonomi, prosciolti a Roma per il caso Moro, se risultasse consolidato che Autonomia e BR operarono in tandem anche durante i cinquantacinque giorni del sequestro del leader DC, e dopo?». Repubblica (anch’essa il 20 già titola “Tra Autonomia, Negri e BR c’era un’alleanza tattica”) parla della requisitoria di Calogero come di un vero e proprio libro da mandare in libreria: «Forse qualche editore si farà avanti per pubblicare. Un libro pieno di nomi e fatti, analisi e ricostruzioni». Il protagonista, anche in questa requisitoria, o almeno nelle ricostruzioni che ne fanno i quotidiani, è sempre e solo uno: “Negri autentico motore delle trame eversive di questi anni” (Unità del 26 maggio). E le accuse, come è già capitato, anche quelle che sembrano oramai accantonate, riemergono all’improvviso. Il 26 maggio i cronisti la requisitoria non l’hanno ancora letta, ma il suo contenuto oramai è dato per assodato. “Nuove accuse per Toni Negri: «C’è lui nel sequestro Moro»” titola Repubblica il 26 maggio. Da sottolineare che Repubblica, ma anche altri giornali, dimenticano di citare il precedente proscioglimento per la stessa accusa. Anche il Corriere, lo stesso giorno, con la rinnovata accoppiata (come nei primi giorni dell’inchiesta) Ferrari-Pertegato, punta su questo tema: “Secondo Calogero coinvolti nel sequestro Moro i massimi vertici dell’Autonomia organizzata”. Di tutt’altro tono il Manifesto che titola “Calogero, l’ostinato, si ripete”. Con il testo della requisitoria ormai pubblico i giornali imbastiscono, così come avevano fatto per l’analogo documento di Ciampani, delle cronistorie del terrorismo italiano. Da notare che mentre nei titoli si parla di collegamenti e attività che arrivano al 1979 (“Autonomia e Br in contatto durante e dopo il caso Moro”) nel testo degli articoli le ricostruzioni e gli esempi specifici arrivano al massimo al 1975. Poi c’è solo l’asserzione del collegamento ma nessun esempio specifico che aiuti il lettore a giustificare la tesi di Calogero. Così anche sull’Unità del 27 maggio in un articolo di Michele Sartori: “Così Negri è diventato accusatore di sé stesso” (nel sommario: “La violenza armata ha due facce che devono essere portate avanti con eguale decisione — Non teorie, ma direttive politico-organizzative — Da Macchiarini a via Fani”). I documenti citati nell’articolo di Sartori partono dal 1972 e arrivano al 1975. Si tratta di testi sequestrati a Negri (gran parte tratti dal famoso archivio Massironi) e che, secondo il magistrato, comproverebbero il collegamento operativo tra Autonomia e le BR. «E’ proprio vero — commenta Sartori — come ha detto Calogero, che Negri è miglior testimone contro sé stesso…». L’articolo di Sartori è illustrato da due foto: una di Idalgo Macchiarini e una di Aldo Moro entrambi nel periodo della prigionia. Il Corriere è invece maggiormente cauto. Il 27 maggio punta su altri particolari. L’articolo di Antonio Ferrari si intitola “Il PM Calogero: possibili, dietro l’eversione «complicità, sostegni e coperture autorevoli»”. Nell’occhiello: “Nel mondo della cultura, dell’economia, della finanza, della politica interna e internazionale”. A leggere l’occhiello si potrebbe scommettere che l’articolo parli della P2, e invece è il 7 aprile. Tornano a galla collegamenti internazionali e trame di non meglio specificata natura: «Improponibile, sempre secondo Calogero, la tesi delle “situazioni di crisi e di emarginazione” come motore delle scelte eversive. Plausibili invece, “la complicità, il sostegno e la copertura di autorevoli e influenti personaggi, gravitanti nel mondo della cultura, dell’economia, della finanza, della politica interna e internazionale, e forse anche di settori non secondari dell’apparato statale». Sull’ipotesi Moro invece il Corsera va cauto tanto da registrare in un colonnino la “Cautela dei giudici romani sulle accuse a Negri”.
Sembra un giro di valzer. Moro o non Moro?

I mesi passano e tutto, fino alla risposta di Palombarini che arriva in settembre, tace. Il quattro settembre viene depositata in tribunale la sentenza istruttoria di Giovanni Palombarini. Su 134 richieste di invio a giudizio avanzate da Calogero, Palombarini ne autorizza solamente 69. Tra gli altri, lasciano immediatamente il carcere Bianchini, Del Re, Tramonte e Serafini. Sul piano della consistenza del “libro” Palombarini perde (le pagine scritte sono 1200 contro le 1455 di Calogero, come notano tutti i quotidiani) ma l’effetto è quello di un terremoto. “7 aprile: prosciolta la metà degli accusati” titola Repubblica il 5 settembre. Il quotidiano di Scalfari parla ormai di «guerra ideologica» tra i due magistrati padovani. E l’Unità, “E alla fine si processerà solo la bassa forza di Autonomia?”, nell’occhiello informa di un imminente ricorso della Procura alla Corte d’Appello di Venezia. Il giorno dopo, il ricorso, dall’occhiello, conquista addirittura il titolo: “La procura ricorre contro la sentenza di Palombarini”. Il sommario annuncia “nuovi ritardi per il processo”. A chi vanno imputati? «Non è dunque difficile prevedere che il nuovo ricorso della Procura padovana, che con ogni probabilità riproporrà le argomentazioni di sempre e già accolte, possa ricevere soddisfazione. Solo che, nell’attesa, il processo è destinato a bloccarsi, e ad essere celebrato chissà quando. E’ un risultato non da poco per chi chiede giustizia rapida ma, come gli imputati padovani hanno ampiamente dimostrato in precedenza, in realtà desidera l’opposto». Come sempre per l’Unità, per dimostrare di essere innocenti e di voler veramente un processo rapido bisognerebbe di principio rinunciare a tutte le garanzie della difesa.
Ma nonostante il quadro negativo il quotidiano del PCI riesce a scovare un fatto positivo anche nella sentenza di Palombarini:

Il capo d’imputazione scritto da Palombarini può essere giudicato in due modi. Innanzitutto con una certa soddisfazione: finalmente questo giudice rovescia letteralmente quanto diceva e scriveva fino a poco tempo fa, ed ammette che Autonomia organizzata era una banda armata, che compiva attentati, che aveva un programma e dei mezzi, che disponeva di un volto pubblico e clandestino e così via. D’altronde questo riconoscimento — che ad un qualsiasi osservatore esterno può apparire persino ovvio — giunge tardivo ed arretrato rispetto ad altre inchieste condotte da varie sedi giudiziarie sullo stesso argomento. Molti processi sono andati ben oltre e hanno dimostrato, punto per punto, ciò a cui il giudice una volta non credeva.

A parte che ciò che afferma Sartori riguardo il reato di banda armata riferito ad Autonomia è piuttosto dubbio (e basta leggere la lunga intervista a Palombarini pubblicata da Repubblica il 30 ottobre dello stesso anno), è interessante il tentativo di “tirare per la giacchetta” il giudice istruttore. Tanto che, mentre in altri quotidiani si utilizza l’espressione “Palombarini smonta il teorema Calogero”, l’Unità nel sommario arriva a dire: “giudicato tuttavia positivamente il riconoscimento del reato di banda armata”. Ma più si legge (il 6 settembre in realtà i cronisti avevano a disposizione solo il dispositivo finale della sentenza) meno equivoci ci sono: la sentenza Palombarini è proprio una negazione del teorema Calogero. Tanto che, il giorno dopo, il giornale del PCI torna a titolare “Colpo di spugna sul 7 aprile? Nuovo ricorso del PM Calogero”. E l’Unità, più legge più rimugina. Il 10 settembre se ne parla ancora: “La tesi di Palombarini: spontaneismo”. «Con il PM Pietro Calogero il contrasto è di fondo non marginale» ammette l’Unità. Sembra quasi che Palombarini a emettere la sua sentenza abbia fatto uno sgarbo personale. Nel suo documento infatti «ovunque ricorrono, oltremodo esplicite e personalizzate, le differenze profonde di analisi e di conclusioni fra il giudice istruttore e il PM». E infine emerge chiaramente un giudizio nettamente negativo sulla sentenza da parlare di «analisi assai poco suffragata da citazioni convincenti». «L’interpretazione del terrorismo che viene offerta è ancora quella della totale ed assoluta spontaneità, e quasi casualità, di tutta la costellazione terroristica e della sua tragica attività» conclude l’Unità. Anche questo non è vero ma oramai lo scontro si è trasformato in puro fatto ideologico.

(13-CONTINUA)