di Riccardo Valla
Gli scrittori dovrebbero ormai saperlo, che Hollywood nuoce gravemente alla salute, proprio come una sigaretta del ministro Sirchia. Dopo avere ridotto all’alcolismo Fitzgerald e Woolrich — Hammett si è salvato, ma soltanto perché c’è Bogart; i film tratti dai suoi romanzi brillano per incomprensibilità — adesso è riuscita a rendere odioso Dick. Odioso anche a un suo vecchio estimatore come il sottoscritto.
Dick stesso si è salvato in tempo, morendo con ancora sulle labbra l’ultimo insulto contro gli sceneggiatori, e non ha dovuto provare il dispiacere di dover assistere allo scempio, ma l’inarrestabile trita-tutto californiano ha proceduto ugualmente alla sua demolizione. Dopo il primo film di successo, si è susseguita una spietatissima serie di B-movies a lui ispirati, con dei tonfi che uomini e cavalli di tutti gli uffici stampa non sono mai riusciti a rimettere in cima al muro della classifica.
Un crescendo rossiniano di disprezzo per l’autore, per la fantascienza e per lo spettatore. Principio-base dei registi: “Quando temi che diventi troppo difficile, mettici un’idiozia”.
Ricordate Atto di forza? Ed era ancora il migliore della nidiata. Dopo un primo pezzo dickiano — il protagonista che scopre di avere i ricordi finti — finisce in una cretinata marziana con mutanti horror e super-macchine del vento, copiati da dove vi pare. L’idiozia, questo marchio diabolico di Hollywood.
Anche Paycheck era stato annunciato con grandi rulli di tamburo ed è morto ingloriosamente nelle retrovie del box-office. Quanto a Scanner Darkly, che per un eccesso di finta modernità è stato virato in modo da sembrare un brutto cartone animato giapponese, magari avrà anche dei meriti, ma si perdono nell’inumana fatica di guardarlo.
E, quel che è peggio, niente ha successo come l’insuccesso. Più scendeva l’incasso dei film, più aumentava il numero degli ammiratori di Dick, soprattutto tra coloro che non hanno letto i suoi romanzi, ma solo le recensioni sul “Manifesto”.
Siamo ormai arrivati al punto che se dici in pubblico “fantascienza”, c’è sempre qualcuno che commenta: “Mah, la fantascienza non mi piace. Tranne Dick, naturalmente. Ma Dick non è fantascienza”. Che, tradotto, vorrebbe dire: “Dick lo conosco perché ho visto Bladerunner e quel film non è Guerre stellari”.
A quel punto si potrebbe suggerirgli la lettura de La svastica sul sole, o di Ubik, o di Palmer Eldritch, ma sarebbe tempo perso. Non li leggerebbe mai.
Ed è altrettanto inutile cercar di spiegare i motivi per cui alcune cose di Dick sono attuali adesso ancor più di quando sono state scritte. Per esempio, non abbiamo ancora finito di scoprire i tanti significati di un racconto come Impostore. Oggi Dick è già “il profetico autore che denuncia i media”, che si può volere di più? La macchina hollywoodiana e il giornalismo di giornata l’hanno confinato in una singola definizione prêt-à-porter.
Il guaio — oltre a doversi sorbire un mondo di banalità — è quel che si intravede. Già adesso nessuno più conosce la fantascienza ironica e graffiante di Pohl e Sheckley e si parla solo di Dick con l’esclusione di tutti gli altri scrittori di fantascienza. Passata la moda di Dick, la fantascienza dei suoi anni sarà dimenticata e su tutto dominerà incontrastata non la Morte Rossa di Poe ma la fantasy degli imitatori di Harry Potter.
Siamo ancora in tempo a salvarla? Non so.
In ogni caso, nonostante il chiasso della critica cattiva che scaccia via quella buona, Dick continua a sorprendere chi lo conosce. Ultimo esempio, di oggi-oggi. Second Life, il mondo virtuale online dove la gente fa agire il proprio avatar e vive una vita immaginaria, a ogni lettore dickiano suona come una cosa arcinota, tanto che la prima volta, a sentirne parlare, sorge la domanda: “Hai comprato anche la bambolina di Perky Pat e i suoi oggettini in miniatura?”. Infatti, in Palmer Eldritch, i coloni marziani che vogliono sfuggire alla noia della loro vita quotidiana entrano in un mondo di realtà virtuale in cui ciascuno di loro è una sorta di Barbie o di suo fidanzato. Magari tra un po’ qualche Leo Bulero, il protagonista di Palmer Eldritch, lancerà una linea di mini-oggetti da comprare per Second Life (o li si vende già? oggetti virtuali pagati dall’acquirente reale?)
Ma basta con Dick. Per disintossicarsi dal troppo cattivo Dick circolante occorrerebbe passare un po’ di tempo a purgarsi, magari nella crusca come le lumache. Propongo cinque anni di moratoria, tempo che si potrà occupare proficuamente con la lettura di altri autori.
Quali, in particolare? Quelli di oggi o di ieri? Per rispondere mi richiamo a quanto diceva Neil Gaiman in una sua prefazione, ossia
“La fantascienza, più di ogni altra forma di letteratura, è un work in progress e arriva a noi con la data di scadenza: consumare entro un dato termine. Certa vecchia fantascienza è oggi illeggibile. La fama di alcuni autori non resiste all’erosione del tempo. Ma, quando è trascorsa la data di scadenza, quella che desta ancora una reazione emotiva dentro di noi… be’, quella è arte, e forse è anche verità.”
Potrebbe essere interessante rivisitare l’epoca di Dick e controllare quanto contenesse di valido. A quanto mi par di vedere, oggi non si è ancora proceduto a un recupero di quanto c’era di valido nella fantascienza della generazione precedente, operazione che all’epoca era abbastanza comune, con le grosse antologie di Asimov e dell’Associazione degli Scrittori americani di Science Fiction, e con varie storie della fantascienza come quella di Sadoul.
In attesa allora della fondamentale antologia su quell’epoca, ricordo che anche se si ha l’impressione che la scena fosse dominata dalle grandi saghe di Dune e della Fondazione, si trattava di una stagione particolarmente fortunata per la fantascienza, con un buon numero di riviste specializzate, da “Analog”, al gruppo di Frederik Pohl, “Galaxy”, “If” e “Worlds of Tomorrow”, alla coppia “Amazing” e “Fantastic”, a “Magazine of Fantasy & SF”, e con almeno tre serie di tascabili specializzati, gli Ace Books, i DAW Books di Wollheim, i Del Rey Books.
Cominciava allora a sgomitare per farsi largo la Fantasy, con la serie di Darkover della Bradley, apparsa in parte negli Ace Books e rimessa in circolazione e ampliata dalle edizioni di Wollheim, ma la maggior parte della produzione rientrava ancora nella fantascienza, senza troppa differenza tra la produzione avventurosa, quella di “narrativa speculativa” e quella caricaturale.
A me quest’ultima è sempre piaciuta ma non pretendo di segnalarla a nessuno, anche se Douglas Adams e il mondo del disco hanno i loro fan. Personalmente ricordo ancora con piacere la coppia Sam, of de Pluterdag, di Paul van Herck (è olandese, ma ce ne sono edizioni in altre lingue) e The Tsaddik of the Seven Wonders di Isidore Haiblum. Due romanzi offensivi per il loro disprezzo dell’autorità, dei valori, del buon gusto, delle convenzioni, della logica e delle belle lettere, due terribili puttanate… due capolavori. Il primo narra la storia di Sam che scopre come i ricconi godano di un giorno della settimana in più, il pluterdì, e che si arricchisce assicurandosi i diritti del più grande bestseller della storia (no, non è il Codice, è la bibbia), il secondo narra le avventure di uno studioso della cabala magica ebraica (uno tsaddik, appunto).
Tra il serio e l’ironico (una storia “swiftiana”) è da ricordare il romanzo di Sladek, Il sistema riproduttivo, brillante apologo sulla macchina e consumismo, un castigat ridendo mores da non perdere (traduzione col bollino blu di qualità, dato che è di Vittorio Curtoni).
Ma tornando alle narrazioni più svaccate e alla maniera di Rabelais, quelle che sparano contro tutto e tutti, alla “’n do’ cojo cojo” — sempre care al mio cuore — il principe, il re, l’imperatore, il papa è un altro, ossia l’oggi — indebitamente – dimenticato Ron Goulart (detto amichevolmente Gulash), autore delle più pazze storie mai pubblicate da “Urania” (“un genio”, lo definiva Fruttero). Attenzione, però, perché Goulart è come lo spinello. La prima volta dite: “E allora, tutto qui?”, la seconda comincia a piacervi, la terza prendete il vizio. Secondo me è molto meglio di Adams e se li vedete su qualche bancarella prendeteli prima che scoppi la moda e scompaiano (come accadrà non appena si saprà che li ha tradotti Curtoni).
Per le avventure ne ricordo solo una a cui sono particolarmente affezionato, la serie Vicinity Cluster di Piers Anthony, una vasta storia degli incontri tra i terrestri e le altre razze della Galassia, tra confronti, alleanze, rischi di guerra. All’epoca questa serie di tre romanzi per un totale di un migliaio di pagine — chiamata anche Kirlian Quest — era molto apprezzata per la sua galleria di razze extraterrestri, ma va ricordata soprattutto per la capacità di passare a scenari sempre più grandi senza ripetersi e senza prendere nulla in prestito dalla fantascienza precedente. La storia, a grandi linee, è la seguente. I contatti tra le varie stelle possono avvenire anche per trasmissione istantanea di materia, ma è un sistema estremamente dispendioso. Così le razze trasmettono solo la loro “aura” (la mente) entro corpi tenuti appositamente a disposizione su tutti i pianeti civili. L’aura è quella che si vede nelle foto Kirlian e più è intensa è, più lunga può essere la permanenza nel corpo dell’ospite di un altro mondo. Di conseguenza, in ogni razza c’è una grande ricerca di individui con elevato Kirlian. Su vari mondi della Galassia si incontrano i resti, vecchi di centinaia di milioni di anni, di una misteriosa razza che sfruttava campi Kirlian artificiali e disponeva di una tecnologia infinitamente superiore a quella delle attuali razze intelligenti. La serie inizia con l’ingresso dei terrestri nella comunità galattica quando si scopre una di quelle antiche installazioni e la spia di una razza della nebulosa di Andromeda cerca di impadronirsene. L’ostilità con Andromeda dura per secoli ed è descritta nei primi due libri, nel terzo incontriamo la razza degli antichi scienziati Kirlian, e in ciascuno dei romanzi il ruolo principale è affidato a un individuo ad alto Kirlian. In fondo è una storia di super-scienza come quelle degli anni Trenta, ma ben costruita, e queste storie non invecchiano (agli occhi di chi le legge con complicità, ovvio).
In quegli anni, Anthony era molto attivo anche a un livello più sperimentale. Due suoi interessanti testi sono Macroscopio e Onnivora, che erano apparsi anche in Italia (in traduzioni non eccelse), ma il suo migliore romanzo di questo genere è Chthon. Il nome è di una prigione sotterranea in cui viene esiliato il protagonista, e di lì si parte per un lungo percorso di ricerca in vari pianeti. Una storia avventurosa e ricca di simbolismo, con una curiosa struttura su tre livelli (l’oggi, il flash-back e il “flash-avanti”) ben amalgamati tra loro.
Venendo alla narrativa speculativa, bisogna osservare che all’epoca molti riferimenti ci sfuggivano, trattandosi di allusioni a usi tipicamente americani. Oggi, dopo un quarto di secolo di appiattimento mentale sui prodotti della televisione commerciale, ci sono più chiari.
Dick all’epoca era considerato uno tra i tanti, e rispetto agli altri era caratterizzato da una passione per i mondi alternativi e per l’aspetto mentale della realtà. Ma il tutto era sempre narrato in modo vago e allusivo, con un tono da profeta che gli procurava l’antipatia di vari lettori. Di conseguenza, per quanto riguardava singoli aspetti della sua narrativa, vari scrittori erano più efficaci di lui.
Per esempio, come semplice impatto della narrazione, Harlan Ellison era più vigoroso, meno cerebrale nella critica all’America contemporanea, e ormai dovremmo essere in grado di cogliere bene i riferimenti di molte sue storie basate sull’american way of life.
Un altro scrittore, Barry Malzberg, aveva lo stesso tipo di intuizioni di Dick sulla realtà americana, ma senza tutte le divagazioni che troviamo in Dick (e che a volte sono profetiche, come vediamo oggi col senno di poi, ma che allora sembravano gratuite). Solo un numero limitato di sue opere sono state tradotte, ma l’insieme della sua produzione meriterebbe di essere rivalutato come un grande ritratto dell’America Triumphans di quell’epoca.
L’autore più letterariamente consapevole — cioè quello che si rendeva maggiormente conto di quanto scriveva e di quel che voleva scrivere — è probabilmente Delany. Mentre in Zelazny i riferimenti letterari sono spesso abbellimenti superficiali (la citazione erudita, il racconto scritto strizzando l’occhio a Hemingway o al mito di Euridice), in Delany la letteratura è un retroterra che ormai si è lasciato alle spalle e che affiora solo quando ci si chiede le ragioni della sua scrittura e si scartano le spiegazioni banali. Tutto questo lo porta a peccare di troppa intelligenza — a essere “più intelligente di quello che gli converrebbe”, come dicono gli americani — e i suoi romanzi più veri finiscono per sembrare finti. È il caso di Triton, una storia molto importante che all’epoca non venne riconosciuta come tale e che oggi andrebbe riletta con attenzione.
Sotto l’aspetto della comunicazione, il Jack Barron di Spinrad è il testo più famoso di quegli anni, ma l’autore che più si è soffermato sull’argomento è John Brunner, soprattutto ne L’orbita spezzata e in Codice 4GH. Uno parla di un giornalista televisivo specializzato in ricostruzioni scandalistiche (ricostruzioni nel senso che le riprese da lui trasmesse sono create al computer e gli spettatori lo sanno), l’altro è probabilmente il primo romanzo in cui si parla di hacker, prima ancora che esistessero.
Brunner è anche autore di due impegnativi romanzi sui problemi dell’inquinamento e della sovrappopolazione, Il gregge alza la testa (il più inquietante romanzo ecologico che sia stato scritto, altro che Dune!), e Tutti a Zanzibar, ma in genere tutti i romanzi di Brunner sono caratterizzati da un notevole impegno civile e meritano di essere riletti. All’epoca varie sue opere davano l’impressione di essere affrettate nel finale, ma oggi ci interessa di più la parte ideologica.
Ma l’autore che maggiormente riunisce tutti questi spunti è Robert Silverberg. All’epoca, la pubblicazione dei suoi romanzi entro le collane di fantascienza portava a vederne solo la parte di “genere”, trascurando il fatto che la narrazione era sempre fatta dal punto di vista di un personaggio che si sviluppa psicologicamente e che c’è sempre una profonda interazione tra ambiente e personaggio (come ci si aspetta in letteratura). A rileggerli oggi si ha l’impressione che la produzione di Silverberg sia molto più unitaria di quanto non appaia, nel modo di presentare personaggi maschili, da un lato, e femminili dall’altro, i primi basati sul potere e le seconde sull’emozione.
Forse i romanzi che ci sono piaciuti andrebbero riletti ogni vent’anni, per scoprirvi nuove sfaccettature. Lo stesso Silverberg osservava recentemente in una lettera privata, a proposito de L’uomo nel labirinto:
“Non riesco mai a giudicare se i miei libri siano buoni, se non a distanza di parecchi anni. Ho sempre pensato che Labirinto fosse una buona storia spaziale, ma circa tre anni fa l’ho riletto per la prima volta in forse 35 anni, per una nuova edizione. Mi ero scordato un mucchio di particolari, e mi sono trovato a leggerlo il più in fretta possibile per scoprire cosa succedeva poi. Se vivi abbastanza a lungo, credo, riesci a vedere i tuoi libri dall’esterno, come ogni altra persona di questo mondo.”
Il più importante libro di Silverberg del periodo è forse Morire dentro, di cui si potrebbe davvero dire che non è un libro di fantascienza, perché di fantascientifico c’è solo l’inizio.
Personalmente, il romanzo di Silverberg che preferisco è Brivido crudele, anch’essa una storia di personaggi: l’astronauta vivisezionato e poi “corretto” dagli alieni con sottili modifiche del suo corpo e la ragazza che ha donato degli ovuli e adesso ha cento figli ma non il permesso di vederli, e il magnate dei media che sfrutta pubblicitariamente la loro storia. E poi c’è il Labirinto…
Neil Gaiman, nella prefazione a L’uomo nel labirinto già citata, sottolinea la modernità del concetto del Labirinto, che è quello del videogame, ma che soprattutto è una ulteriore prova dell’ostilità dell’universo.
Anche L’uomo nel labirinto contiene lo stesso spunto: quando cercheremo di raggiungere le stelle, l’universo ci schiaccerà per mano di alieni che ci resteranno per sempre incomprensibili. Una razza compie esperimenti sul protagonista di Brivido crudele, un’altra costruisce quella lunga compilation di trappole mortali che è il labirinto di Lemnos, un’altra dona a Richard Muller, sempre nel Labirinto, una forma di telepatia che schiude la sua mente a tutti coloro che lo circondano, ma fa loro unicamente sentire il dolore e l’orrore della natura umana. Una visione degli alieni che è l’opposto di quella tradizionale della fantascienza, la quale presume che tutto si possa scoprire e tutto si possa capire.
Il concetto dell’intima ostilità dell’universo è esposto dallo stesso Silverberg attraverso le parole di uno dei protagonisti, quel Charles Boardman che è il primo motore delle azioni degli altri personaggi. Il suo aiutante, un giovanotto destinato a perdere presto le illusioni per diventare come lui, gli chiede:
«Ma tu credi, sinceramente, che ci sia una forza cosmica malevola, dietro i meccanismi dell’universo?»
Boardman accostò le mani e premette uno contro l’altro i polpastrelli delle dita tozze. «Non la metterei in questi termini» disse. «Non esiste, sotto forma di una personalità o entità individuale cosciente, un potere del male a capo degli avvenimenti che succedono, come non esiste un analogo potere del bene: l’universo è un’enorme macchina impersonale. Naturalmente, nel corso del suo funzionamento, tende a sollecitare maggiormente alcune parti poco importanti e queste si logorano, ma all’universo non gliene importa niente, perché può generare parti di ricambio. Non c’è niente d’immorale in questo logorare le proprie parti, ma bisogna riconoscere che dal punto di vista delle parti colpite, la cosa ha l’aspetto di un gioco molto sporco.»
L’universo patrigno, dunque, e la spiegazione di Silverberg è tutt’altro che trascurabile. E dire che voleva essere solo una “buona storia spaziale”!