[Dinamicissimo editore, presenza televisiva su RaiTre, editorialista su “Repubblica Milano”, politicamente impegnato, e anche scrittore un po’ più che talentuoso: Michele Dalai sta pubblicando alcuni racconti su Playboy, rivista che riprende alcune traiettorie delle sue origini, narrativa compresa. Dai racconti emerge una lingua sorprendente per efficacia e brillantezza, un diorama lessicale e ritmico che non dà tregua e che segnala un talento comico mai familiare alla narrativa italiana. Le tracce seguite sono quelle di Sedaris, di certo Palahniuk, della narrativa breve di Wolfe. Con un romanzo in lavorazione, Michele Dalai si segnala come un narratore dalle potenzialità concretamente destabilizzanti, se si pensa la sua scrittura su un arco lungo. Chi può e deve intendere, intenda. gg]
La Danza del Mentre
Beliana Ivanova è nata in un posto in cui i trattori arrancano in salita, tossiscono tutta la loro fatica e, uno dopo l’altro, si spengono per sempre ai margini dei campi di grano, senza pezzi di ricambio né un lenzuolo pietoso a regalargli un po’ di rugginosa pace. La figlia di Ivan Ivanov e di Sonjia Lisic è nata a Gergisk, nel cuore del centro di una terra senza cuore. A Gergisk non ci sono negozi, non ci sono strade e acqua e corrente elettrica arrivano a turno, usando le stesse condutture. In paese c’è solo un piccolo emporio in cui si trova un po’ di tutto e non si rimedia mai nulla di buono e che funge anche da pompa di benzina, stazione degli autobus, scuola elementare, posto telefonico pubblico e corte giudiziaria.
Vi potrà capitare, mentre attendete pazienti che il torpedone diretto a Ularisk e poi a Mosca (19 ore di viaggio, per Ularisk), passi di lì, di vedere un bambino uscire dall’aula, rubare una mela e venire processato per direttissima. Come ovvio l’emporio funge anche da piccola prigione locale, con il risultato di un affollamento continuo e di quella forte alternanza di euforia, tristezza e smarrimento che solo le genti Maliorusse sanno provare e manifestare. Se spingete lo sguardo lungo la linea dell’orizzonte, laggiù, ancora più in là, troverete la casa di Beliana. Dignitosa, piccola, senza vetri alle finestre. Se lo spingete ancora più in là, oltre la piccola casa dagli occhi aperti, troverete lei. Beliana ha i capelli neri, sottilissimi, che arrivano alle spalle e si muovono leggeri al vento. Ha occhi scuri che di vetri ne hanno eccome, quelli di occhiali spessi con la montatura severa, che ti aspetteresti di trovare appoggiati al naso di un professore piuttosto che non a quelli di una ragazza di 18 anni che fissa il tramonto sdraiata davanti ai gradini dell’ingresso. Ma di lenti a contatto qui non se ne parla e Beliana ha dovuto riciclare gli occhiali di papà, trombettista dell’orchestra popolare di Budiniev, e tutti i vestiti della madre, prima ballerina dell’ultimo balletto di Mosca.
Beliana è magrissima, alta il giusto, bassa il giusto, ha le spalle larghe e un corpo modellato dall’esercizio e dalla danza. Beliana danza e suona la tromba, contemporaneamente. Lo chiamano Maliothon e dopo aver tentato di trasformarlo in disciplina olimpica prima e in attività circense dopo, i Maliorussi si sono rassegnati a suonarsela e ballarsela da soli. Così, tre volte all’anno, i trecentomila Maliorussi abbandonano i trecentomila villaggi Maliorussi e si ritrovano nel centro della steppa, dove danzano freneticamente al suono delle trombe, bevono liquore di patate fino allo sfinimento e poi, felici e soddisfatti, si dichiarano guerra e tornano a casa. Beliana è la più graziosa malioatleta della sua terra, ma coltiva un sogno. Se spingete lo sguardo di nuovo verso la casa, o, se lo avete portato troppo in là, riuscite a richiamarlo indietro e a distoglierlo da nulla ipnotico delle steppe, la troverete là. Sembra ferma, Beliana. Si è alzata in piedi, le gambe leggermente divaricate e le ginocchia piegate. Una posizione innaturale. Sembra ferma ed è ferma. Ma se permettete alle orecchie di raggiungere gli occhi (e poi basta con tutto questo mulinare di sensi, lo promettiamo), sentirete che Beliana canta a bassa voce, sussurra al vento una canzone strana e dolcissima. A ogni strofa, piega e distende le ginocchia. Se capiste la lingua, potreste raccontare anche a noi cosa sta cantando Beliana. Noi l’abbiamo dovuto chiedere al gestore dell’emporio, che prima ci ha fatto arrestare e incarcerare e poi, in segno di stima, ci ha regalato una mela. Ma di sapere cosa canta Beliana non c’è stato modo. Un mistero. Poi però, dopo lunghe osservazioni da lunga distanza, abbiamo capito. Che non avremmo mai capito. Ci ha aiutato il Professor Lenkua, l’unico etnologo a conoscere davvero gli usi e i costumi di questa gente ritrosa e diffidente. Lenkua si è seduto e ha bevuto molto, in silenzio. Ha quasi finito una bottiglia di vodka. Poi, all’improvviso, si è alzato e ha rovesciato il fondo sulla terra brulla di Gergisk e ha osservato la macchia umida, la sabbia impastata dall’alcol, gonfia e scura. Lenkua ha sospirato e ci ha guardati dritto in faccia. E poi ha chiesto dove fosse il bagno. Abbiamo risposto che il bagno avrebbe dovuto stare, come tutto il resto, nell’Emporio, dove Lenkua è stato arrestato pochi minuti dopo. Da dietro le sbarre però è riuscito a darci un indizio. Beliana fugge. Beliana canta per fuggire e fugge da ferma. Si allontana dalla sua casa gelida, dal padre miope e senza più occhiali e dalla madre che mangia come un uccellino, cammina come un uccellino e parla come un uccellino. Beliana si allontana dalle trecentomila baracche e dalla corriera senza sedili, dal pavimento torrido della sua stanza e da quell’enorme serpente di metallo che passa a poche centinaia di metri da lì e prosegue, di tubo in tubo, la sua marcia velenosa verso posti lontani e colorati che Beliana non vedrà mai. E allora la piccola Ivanova decolla in verticale e prende il volo e lo fa con la danza del Mentre. Che non è sensuale e non piace a chi la guarda. Ma che permette a chi danza di star bene mentre tutto intorno non succede nulla, mentre cerca un modo per fuggire, mentre le finestre ingoiano foglie secche. Beliana ha imparato la danza del mentre, che è molto meglio di quella dell’anche, un ballo rassegnato che si fa pure quando tutto il resto va male, va a rotoli. Ora che lo sappiamo, mentre la ragazza mora con gli occhi grandi balla immobile, anche noi pieghiamo le ginocchia e proviamo ad allontanarci da questo posto senza aeroporti ma pieno di mele e bottiglie rotte, stanchi di chiederci se il torpedone prima o poi passerà o se l’autista è stato anche lui arrestato dal droghiere-maestro anni fa e mai nessuno lo ha sostituito e reclamato. Beliana balla, noi balliamo e tutto il mondo scorre, nell’oleodotto laggiù.
Nota
Beliana Ivanov non è la ragazza della foto, che si chiama Tomaia Jenkins, è nata nel Wisconsin e a tre anni aveva una quarta di seno e ballava la lapdance aggrappata al girello. Beliana, a dire il vero, non c’entra nulla con la foto, non fosse che parte di lei, dei suoi pensieri e del suo rito immobile hanno attraversato il pavimento, sfondato le pareti metalliche dell’oleodotto e si sono mischiate al greggio dell’oleodotto di Pusnik, hanno attraversato il mar verde e il mar nero, sono passate sotto l’oceano, sono state raffinate e ora stanno lì, in quella pompa di benzina, nel serbatoio nascosto proprio sotto la gonna svolazzante di Tomaia. E ballano. La danza del Mentre, mentre Tomaia aspetta che qualcuno l’aiuti e le regga la frutta, perché le sono all’improvviso cadute mutandine troppo larghe e vestito senza bottoni. Mentre…
* * *
La Donna Immobile
Lan Tian cammina veloce, a testa bassa. Le braccia abbandonate lungo i fianchi, il cappuccio della felpa verde come microonde per pensieri caldi. Il cancello di ferro battuto del parco è a pochi metri quando nella tasca destra dei suoi jeans larghi vibra un cellulare. Lan Tian lo impugna saldo, lo osserva senza però leggere il nome che lampeggia sul piccolo monitor e con un gesto secco lo scaglia lontano, a scaldare e avvelenare l’erba in perpetuo con la sua batteria inesauribile. Passa sotto l’arco decorato da spaventosi leoni rossi e accelera il passo. Lei lo aspetta, Lan non vuole che nessuno la disturbi e la carichi di pesi
inutili. Deve essere sua. Fin dal primo momento, l’attimo in cui i suoi occhi hanno incrociato le linee decise del corpo di lei, il rigore del suo abito verde, le gambe sottili e ben piantate, Lan ha pensato che finalmente il momento era arrivato.
Anche per lui. Avere qualcuno, amare qualcuno, possederlo.
Lan si ferma, in equilibrio sul piede destro afferra con entrambe le mani il sinistro e toglie la scarpa da ginnastica nuova, immacolata. La lancia tra i cespugli e così fa con la destra, poco dopo. A piedi nudi riprende la sua corsa. Urta una coppia che cammina avvinghiata, stesso passo e stesso ritmo. Lan sa che loro, solo loro possono capirlo, capire la sua voglia e l’urgenza del desiderio.
Non sa come si chiama o non riesce a ricordarlo, ha provato a sbirciare la targhetta che lei portava sul retro della veste verde, quando l’ha vista per la prima volta, ma nulla. In realtà Lan non sa nemmeno se la ritroverà lì, ferma nello stesso punto come una che non può essere messa, cuore pulsante di tutta
una vita nuova. Inciampa, rotola sul fianco e si ritrova sdraiato sulla schiena, il ghiaino sottile che graffia i gomiti. Da terra Lan guarda il cielo grigio e immobile, poi con un colpo di reni si mette a sedere e toglie la felpa e la maglietta, le posa accanto a sé, si alza e ricomincia a correre. A vederlo da
lontano lo si potrebbe scambiare per un jogger, un corridore da parco, magari giusto un po’ più nudo e trafelato degli altri. Ma è da vicino che Lan tradisce la vera natura della sua fretta. Le pupille dilatate, gli occhi rapiti e assenti, il passo incerto ma frenetico. Lan inciampa di nuovo e stavolta fa cadere in terra un anziano signore. Lan non si ferma, non si gira e non si accorge che il signore ha preso in mano un cellulare piccolo, moderno e funzionale e sta componendo
un numero. C’è uno spiazzo circolare da cui si diramano tre sentieri, Lan prende quello di mezzo ma dopo pochi passi si ferma e con uno strappo deciso si leva i pantaloni e i boxer.
Ora è nudo in mezzo a una piccola radura. Ora corre veloce e nel momento in cui la vede comincia a urlare a squarciagola, un suono che non è un suono ed è mille parole, tutte insieme e tutte piene di colori, di intenzioni, d’amore e di passione. Gli ultimi due passi e Lan è su di lei, che è rimasta lì immobile, senza nemmeno dare a vedere di essere emozionata, contenta, spaventata… Nulla, fredda e composta lei riceve l’abbraccio forte, quasi violento di Lan, che tra le lacrime la bacia, le si getta sopra, cerca in tutti i modi di vincere la sua resistenza.
Lan si agita e non si accorge che una sirena suona sempre più vicina, non sente i passi pesanti nel vialetto. Perché Lan ora sente di averla convinta, sente di averla rassicurata, conquistata. Così quando i poliziotti arrivano di corsa nello spiazzo e vedono la scena, Lan non si cura di loro e continua a muoversi dentro di lei, finalmente un corpo solo, anche se fa male, anche se fa freddo, anche se per lei dev’essere tutto nuovo e spaventoso, perché resta immobile, sotto di lui.
Lan non sente le voci concitate e non intercetta le parole di un agente giovane, che dopo aver deglutito impugna la trasmittente, si mette in comunicazione con la centrale e dice: “Sissignore, lo abbiamo trovato. Sta… Sta… No Signore, non balbetto, è che è un po’ difficile da spiegare… In che senso?”, l’agente guarda il suo collega, che annuisce e lo incoraggia a proseguire con un gesto della mano. “Signore, il sospettato sta facendo l’amore con una panchina”.