Il metodo-Gomorra e l’alitosi della ragione
di Girolamo De Michele
E chisto munno
ca s’è vennuto l’anema e ‘o core
e nun se importa ‘e chi nasce
e se ne fotte ‘e chi more.
Nino D’Angelo
«Non sono affatto un eroe. Non basta esser minacciati per esserlo. Chi vive qui, a sud, nella provincia d’Italia fa semplicemente una scelta. Io ho fatto la mia (23 marzo 2004)» Quando scrive queste parole sul lit-blog Nazione Indiana, Roberto Saviano non è ancora l’autore di Gomorra: è uno scrittore che divide la propria attività tra il lavoro d’inchiesta e la critica letteraria. Ha già ricevuto avvertimenti, minacce: due pagine su “Sandokan” Schiavone, pubblicate sul Diario hanno suscitato l’attenzione della camorra. Non per la risonanza che l’articolo può avere (Diario è una rivista ben fatta, ma quasi di nicchia): per aver nominato Casal di Principe.
Come accadde per Pippo Fava [a destra], colpevole di aver reso noto il nome di Nitto Santapaola. A Roberto si dice già che non vale la cinquemila, il vecchio prezzo in lire di tre cartucce di fucile: un modo per far sapere che invece le tre cartucce se l’è cercate, che prima o poi arriveranno. Il tenente dei carabinieri che lo convoca in caserma “per urgenti indagini” nel marzo 2005 non ha «mai visto un intellettuale conoscere tante “schifezze”». Ha stampato i suoi testi postati in rete: «Lei sa più dei miei ufficiali», dice con fare rabbioso. In una lettera agli amici di Nazione Indiana lo scrittore rivendica il compito che si è assegnato, il senso della propria scrittura: descrivere «l’intero meccanismo e non la singola questione. Affrontando dinamiche di potere, non singoli crimini, di cui sovente non mi importa nulla» (“Scrivere sul fronte meridionale”, 17 aprile 2005). Queste storie non sono banali antefatti: sono corpo e sangue di Gomorra, testo vivo e in progress, cresciuto sulle pagine di piccole riviste o di blog letterari. È importante ricordarlo, in un momento in cui fa comodo a troppi credere Gomorra un “caso” costruito a tavolino. Un libro inutile. A Gomorra si rimprovera di non raccontare nulla di nuovo; di non aver cambiato di nulla la realtà del potere camorristico; di contribuirvi, piuttosto, con l’associare alla camorra il simbolo della “monnezza”, creando l’alibi unanimistico della lotta al binomio camorra-rifiuti. Infine, di essere un libro informe, incentrato su un io narrante in stile noir, un po’ Marlowe un po’ Cid Campeador, che non raggiunge il livello di denuncia di un Romanzo Criminale, come sostiene Alessandro Dal Lago. È un fatto che le vicende personali dell’autore di Gomorra pongano un problema: l’attenzione sul personaggio-autore sposta il centro del discorso dal testo all’autore, toglie luce ai contenuti del libro per illuminare di luce titanica lo scrittore. E se Gomorra fosse un libro non innovativo, inutile ed anche consolatorio, sarebbe vero che tolto il libro, resta solo il personaggio, la cui sostanza sarebbe tutta nel fatto mediatico. Ma le cose non stanno così: quelle critiche, fraintendendo Gomorra, svuotandolo della sua sostanza, del suo significato non solo civile, ma “letterario” (che è altra cosa da “estetico”), contribuiscono alla stessa operazione che vorrebbero demistificare.
Gomorra è, in primo luogo, un libro importante. Certo non il primo libro di denuncia sulla camorra. I nomi di cronisti e scrittori che se ne sono occupati, del resto, li si trova negli stessi scritti di Saviano: basta cercarli. In verità nessuno dei detrattori ha dimostrato l’assunto della non-originalità, o peggio del plagio: come le affermazioni dell’attuale presidente del Consiglio, un’affermazione indimostrata viene reiterata nella speranza che la quantità si rovesci in qualità, che la ripetizione induca a credere nella sua veridicità. Finora non si vede alcuno capace di trarre da Gomorra una lista di indici, ed elencarne sinotticamente le derivazioni da altri studi. Per contro, la sua importanza è stata sottolineata (con buona pace di chi ha rinfacciato a Gomorra di non aver fornito «uno straccio di appiglio per un giudice istruttore») dal PM Raffaele Cantone, istruttore del processo “Spartacus”: «Gomorra ha reso commestibile un argomento che in genere viene trattato solo da addetti ai lavori, o dall’opinione pubblica quando ci sono fatti gravi, omicidi eccellenti o delitti di innocenti che cadono nella quotidiana guerra tra bande che si consuma nel Napoletano per il controllo del malaffare. L’approccio di Gomorra, la sua visione d’insieme, ha invece imposto o attirato lo sguardo di una larga fetta dell’opinione pubblica sul caso Napoli, sulle tante facce del crimine in città e in provincia. Ora la camorra non è più solo argomento per convegni o questione per tecnici o investigatori» (Il Mattino, 13 gennaio 2007: qui).
Gomorra è un testo innovativo nel contenuto e nel metodo, come involontariamente ammetteva il tenente dei carabinieri di Casal di Principe. Connette in un disegno d’insieme sparse membra di un disegno la cui interezza era sconosciuta alla pubblica opinione: guardare un outlet e vedervi una discarica abusiva; scoprire i segni evidenti della penetrazione camorristica non solo in Campania, ma nella grassa Emilia; trovare in una discarica abusiva le stigma della Lombardia, del Veneto, dell’ecologissima Toscana. Capire le relazioni tra il mercato cinese, il crollo del muro di Berlino, le carpe di mare che risalgono i fiumi campani, il boom edilizio: e raccordare tutto questo, con un unico tratto, ai clan di Casal di Principe e Secondigliano. Da Scampia ad Aberdeen, passando per Cengio. Non vale almanaccare i nudi fatti in una parvenza di oggettività se non li si coglie entro uno schema comprendente: «non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso», scrive Machiavelli nella celebre Lettera a Francesco Vettori. La scienza all’opera in Gomorra ha questo lignaggio. E colpisce che attenti conoscitori di Gregory Bateson non abbiano notato come in Gomorra i fatti ritenuti siano sottesi dallo stesso schema col quale il teorico dell’ecologia della mente raccordava dinamicamente corsa al riarmo, devastazione dell’ambiente e hybris umana. Come colpisce che il sociologo sia indifferente al valore della diffusione di una conoscenza, alla sua circolazione, al suo divenire patrimonio condiviso. Casal di Principe o la rete degli outlet, “Sandokan” o i Bidognetti esistevano certo anche prima: ma ora sono noti alla pubblica opinione: è cosa da poco aver acceso l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sul processo Spartacus, una delle più rilevanti inchieste contro la malavita organizzata a livello mondiale, che stava passando sotto silenzio?
Ma soprattutto: che idea della funzione dell’intellettuale, del suo mandato sociale ha chi pensa che un libro sia inutile se solo non produce, qui ed ora, una conseguenza di rilevanza penale? «Raccontare dei fuoristrada dei capizona, dei boss che passeggiano a braccetto con i politici, dei tavolini al bar che divenuti uffici dei boss per “pubblicare” l’alleanza con un imprenditore, è divenuta usanza rara, eppure abusata. Sarebbe una narrazione stantia che farebbe appassionare qualche giallista, o semmai qualche torinese melanconico», scrive Saviano in “La parola camorra non esiste” (16 settembre 2003). Gomorra, oggetto narrativo non identificato, non è un giallo, tanto meno un feulletton: condivide gli strumenti linguistici del noir (la paratassi, il linguaggio cronachistico) per dar voce all’inchiesta (all’esperienza vissuta); ma ibrida questo linguaggio col tu impersonale per coinvolgere il lettore nella comunicazione di un’esperienza potenziale, e infine usa l’io dell’esperienza diretta del narratore come una sorta di experimentum crucis che salda i tre livelli nella complessità narrativa richiesta dalla complessità dell’oggetto narrato: «Capire bene il meccanismo-camorra è cosa davvero complessa. Bisogna innanzi tutto sbarazzarsi la mente dai retaggi folkloristici e d’annata. Il camorrista non gira con la lupara, non è ignorante, non vive nelle bettole, non parla il dialetto come unica lingua della carne! Il sistema/camorra è il valore aggiunto di un’impresa, il suo esistere non è ruolo parassitario ma anzi riveste un’attività partecipativa». E davvero non si vede cosa sorregga l’azzardato paragone di Dal Lago con Romanzo criminale, che non è un libro d’inchiesta, ma la riproposizione della dimensione tragica nella cronaca, e per la cui comprensione Brothers di Kitano è più importante della conoscenza della banda della Magliana. La sua importanza, nella narrativa dell’ultimo ventennio (in particolare in quella che afferisce al New Italian Epic, del quale anche fa parte Romanzo criminale) è pari a quella cui assurge come lezione di metodo e come libro di denuncia.
Se così stanno le cose, rimane l’interrogativo sul perché, al di sotto di critiche meritevoli di risposta, Gomorra abbia suscitato un verminaio verbale, una sorta di diffusa alitosi della ragion miserabile, rispetto alla quale «tocca a noi assumerci responsabilità di decostruire le sue menzogne e le sue idiote banalità», come scriveva Saviano all’indomani dell’assassinio di Enzo Baldoni, a proposito di uno dei tanti giornalisti che godevano a sciacallare sulla sua morte. Il motivo è forse nel carattere rancoroso della fase storica in cui viviamo. La profezia di Andy Warhol sulla possibilità per chiunque di essere celebre per un quarto d’ora ha nutrito, in quella palude delle coscienze che sono stati – e sono tutt’ora – i mai terminati anni Ottanta, la pretesa che quei 15 minuti fossero un diritto universale. Un’intera generazione ha ingoiato rospi nelle università, nelle redazioni di piccoli giornali e piccole radio, nelle televisioni. Era l’epoca dei Minoli e dei Red Ronnie, della moda dei pensatori deboli e della riabilitazione dei peggiori reazionari. Dei coltelli sotto le scrivanie, dei portaborse, delle piccole delazioni. È dura avere avuto simili frequentazioni, ancor peggio ritrovarsi sul bordo fangoso della storia che passa: come non provare rancore verso chi, in qualche modo, è sopravvissuto alla selezione malthusiana? E come credere che un ragazzo meridionale, mezzo anarchico e mezzo ebreo, sia riuscito a bucare il muro dell’informazione surfando sui lit-blog della rete? «Impieghiamo la maggior parte delle nostre veglie nel fare a pezzi coll’immaginazione i nostri nemici», scriveva Cioran nella sua Odissea del rancore: «fatta questa concessione, ci plachiamo e, spossati, scivoliamo nel sonno: riposo ben meritato dopo tanto accanimento e tanta pignoleria». La veglia della ragione, nutrita dal rancore che si propaga a macchia d’olio nella società delle passioni tristi, dà un senso a vite altrimenti vuote, incapaci di quel gesto con cui Machiavelli, sull’uscio del proprio scrittoio, si spogliava di «quella veste cotidiana, piena di fango e di loto». Cosa importa se questa perversa eterogenesi dei fini aiuta la sussunzione reale della vita sotto Gomorra? «I caporedattori torneranno ad ignorare le questioni di camorra, torneranno gli amici a dire “Robbè ma lascia perdere sti’strunzate, le sanno tutti”. E qualcuno continuerà a ricevere le pallottole di kalashnikov in busta e le guerre torneranno a circoscriversi a piccoli chirurgici omicidi. E svanirà la camorra, perché esiste solo quando diventa concreta ovvero quando lascia cadaveri per terra, taglia teste e macchia di sangue l’asfalto» (Roberto Saviano, “Qui”, 23 novembre 2004).
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