di Alberto Prunetti
Sono a Bangalore, nel Karnataka meridionale, a 24 ore di treno da Mumbai, che in India sono poche. Mi trovo in un ristorante con alcuni mumbaiti, in una sera d’un inverno tropicale che assomiglia a un giugno italiano. Le mie dita sprofondano nel thali, un piatto locale servito su una foglia di banano. A tavola dicono che devo venire presto a Mumbai, rispondo si vedrà. Per tornare in albergo divido il risciò con Maya, una ragazza indiana. Per strada, mentre l’autista centra tutte le buche col suo apino giallo e nero, lei continua a parlarmi di Mumbai, dove fa più caldo che a Bangalore e la vita notturna per fortuna non finisce alle 23. Si vedrà. L’India è grande e non si può girarla tutta, e io non amo le metropoli. Chissà, forse ci passerò.
Sulla strada verso l’albergo l’autista prende una scorciatoia che attraversa una zona derelitta della città. Da un lato stamberghe in lamiera e mattoni fuori piombo, dall’altra un campo pieno di detriti. Ovunque sacchi di spazzatura aperti da branchi di cani randagi, qualche sandalo, e le pozze di un ciclone che ha lavato la polvere d’un autunno secco. Maya non parla più, mi chiede solo di tanto in tanto se questa è la strada giusta. Le dico di sì, ma la sua paranoia, alimentata dal misero spettacolo illuminato dai fanali del risciò, contagia anche me. Quando il driver svolta nella strada congestionata che porta all’albergo, tiro paradossalmente un sospiro di sollievo. Colpa di Maya: una strada che ho già percorso di notte una dozzina di volte mi ha fatto per una volta davvero paura. La paranoia crea la paura e la alimenta, in un gioco di specchi. Forse, a forza di pensarci, davvero questa strada diventerà pericolosa. Per Maya lo è di già, e infatti mi dice che non vede l’ora di tornare a Mumbai, dove le strade sono meno buie.
Le strade di Mumbai si sono illuminate delle raffiche delle esplosioni di un commando di guerriglieri addestrati per distribuire la morte a caso, poi si sono di nuovo spente quando l’esercito indiano ha chiesto il blackout nella zona sud della metropoli. Chissà cosa deve aver pensato Maya, rimasta bloccata dentro all’aeroporto, di ritorno a Mumbai da Bangalore. Forse si sarebbe sentita più tranquilla in quel risciò scassato che attraversava una strada puzzolente senza lampioni, di notte. O forse si sarà sentita più al sicuro in uno scenario di guerra, nella garanzia di avere almeno dalla sua parte i detentori del monopolio della violenza, intenti, in maniera forse non proprio brillante, a garantire quel loro primato sull’uso delle armi che altri balordi stavano mettendo in discussione.
Quanto a me, in quello stesso istante ho cominciato a metabolizzare un’overdose di spettacolo del terrore. Mumbai mi è venuta addosso dallo schermo del televisore della mia camera, tra footage di videocamere e riprese di giornalisti che si lanciavano a terra a ogni colpo di mitraglia. Il porto, il Taj Mahal Hotel, il café Leopold, il Cama Hospital e la stazione di Chhatrapati Shivaji, giustapposti nel montaggio che alterna foto di giovani terroristi, corpi insanguinati, turisti in fuga, reparti speciali travestiti da ninja e militari sikh col turbante blu. Il tutto tagliato dalle breaking news sempre uguali a se stesse, diverse ogni mezz’ora nell’aritmetica dei morti e dei feriti, in crescita lenta e ritmata.
Poi è cominciato il solito balletto della politica, immutabile a ogni latitudine. Le polemiche, le dichiarazioni, le smentite. Il Pakistan, Al Qaeda, il Kasmir. I Mujaheddin del Deccan — peraltro mai sentiti —, i fondamentalisti islamici, i sauditi, i pirati somali e forse qualche frangia estremista indù, peraltro al ribasso sulla piazza delle scommesse: il nemico è sempre meglio che sia un altro.
Ma è proprio qui, tra il noi e l’altro, che sorge il fuoco che ha devastato Mumbai. Un fuoco che è stato innescato dal gioco di specchi tra identità in opposizione, dalle finzioni delle etnie, delle identità, dei credi assoluti e incompatibili. É l’identità che in un gioco di specchi genera l’altro, sono gli stati che si creano quei nemici che poi permettono loro di mantenere la presa del potere, nell’escalation tra racket in competizione per l’uso della violenza, nello spettacolo dei terroristi e dei reparti speciali d’attacco, che chissà perché si assomigliano così tanto.
A Mumbai si è raccolto quel che è stato seminato altrove. Negli ultimi anni, in ogni continente la vulgata ufficiale di politici, preti e imprenditori morali della paura è stata quella dell’enfatizzazione dei processi identitari, del noi contro gli altri. Riducendo le molteplici affiliazioni che ogni persona in svariati momenti della propria giornata può decidere o meno di valorizzare, gli individui vengono definiti da media e leader locali come esponenti di una cultura, di una religione, di una civiltà. Le identità vengono congelate — in un processo che è stato ben spiegato dall’economista indiano Amartya Sen — e si potenziano in un gioco di specchi contrastivo con altre polarità, definite come alterità: il diverso, lo straniero, il nemico, l’extracomunitario. In genere l’affiliazione religiosa (cristiani contro musulmani, musulmani contro ebrei) è quella che va per la maggiore, ma non mancano altri tipi di valorizzazione selettiva ed enfatica dell’identità, quali quella per civiltà (occidentali contro orientali) o per culture (mediterranei contro balcanici) o quella addirittura più fantasmagorica che procede per etnie, non chiaramente definite o a volte ampliamente misconosciute e mistificate (hutu e tutsi, tamil e cingalesi, per arrivare poi al ridicolo quando si parla di “individui di etnia indiana” o “cinese”). Su questo scenario si agita il fantasma dello “scontro di civiltà”, un’invenzione teorizzata dal neocon Samuel Huntington e ampiamente volgarizzata dai media, che ha prodotto — come suo rovesciamento spettacolare, così lo chiamerebbe Debord— il fondamentalismo antioccidentale, di cui gli attacchi di Mumbai potrebbero essere considerati un corollario sanguinoso. Questo gioco di specchi tra identità viste in antagonismo sta favorendo l’irrigidimento, la politicizzazione del discorso religioso e la riduzione degli individui a esponenti di una cultura. Il risultato è che un rifugiato politico iraniano sfuggito alla repressione teocratica del suo governo viene considerato un fondamentalista islamico da chi gli vende il pane in Europa, mentre un anarchico italiano a passeggio per le strade di Bangalore può apparire agli occhi della gente del posto come un colonialista privo di scrupoli. Un mondo alla rovescia, un mondo spaventato è un mondo che si governa meglio. Ci aspetta un autoritarismo del terrore, che governerà un mondo allo sbaraglio attraverso la paura, con la pretesa mistificatoria di difendere la gente da quei fantasmi che contribuisce ad alimentare. Al confronto, le strade di Bangalore che spaventano Maya sono poca cosa.