di Filippo Casaccia
Lo scippo
Genova, via XX Settembre, diretto verso la Stazione Principe. Sto andando a prendere l’ennesimo treno che, in questa calda giornata autunnale, mi porterà a Milano. Prendo il 18 anche se è pieno: ho abbastanza anticipo sul treno, ma non si sa mai. Meglio che dover aspettare un altro autobus vuoto e rischiare.
Salgo e noto che c’è una tizia con una evidente faccia da idiota. Razzista! – penso – ancora ad insistere con la fascista presunzione di giudicare dalla faccia. La città mi scorre davanti agli occhi, tra salite e discese, Garibaldi a cavallo, sole e gallerie. Una, due, tre fermate: mancano duecento metri alla fermata di Principe, ho quindici minuti per fare il biglietto, obliterarlo e partire. Tranquillo, come piace a me, così mi scelgo un bel posto e posso leggermi in pace Cuore.
All’improvviso uno starnazzo impone il silenzio in piattaforma, dove l’apposita targhetta ricorda che è vietato sputare: “Conducenteee, autistaaaa, mi hanno rubato il borsellinoooo…”
Occazzo! Mi giro e, guarda la coincidenza, ad urlacchiare, quasi divertita, è quella faccia da idiota che avevo notato prima. Il bus si piazza, a porte sprangate, praticamente davanti alla biglietteria della stazione ed in sei interminabili minuti arrivano due vigili e quattro poliziotti. I nostri. Io, allora, inizio a perquisirmi pensando che il borseggiatore mi abbia infilato in tasca la refurtiva. Leggo troppi racconti, Genova profuma d’oriente ma non è Bangkok dove ti infilano la bustina di droga in tasca e poi ti denunciano. L’idiota intanto ammansisce gli altri passeggeri “Scusate, ma da qui non scende nessuno, eh… vorrei vedere se fosse capitato a voi”. A me non è mai capitato e ti dirò di più: se il borseggiatore è così bravo da aprirti la borsa sotto il naso, beh, merita il tuo portafogli. Sento la furbacchiona che pigola: “Prima la borsa era pesante, poi leggeeera!”. Lombroso aveva ragione, altro che io fascista. Troppo comodo chiamare l’autista: hai perso, cara. E poi, detto tra noi, fascista sarà Fini e Berlusconi che invita a votarlo a Roma.
Si crepa dal caldo e cominciano le scene d’isteria; tutti iniziano a lamentarsi che stanno perdendo il treno; una tipa accusa una crisi di soffocamento falsissima cui non crede nessuno: la crisi rientra miracolosamente. Io sono vestito per il gelo milanese, sembro Nanook e sudo. Mancano sette minuti alla partenza del treno: sta a vedere che lo perdo per colpa di quell’idiota. I vigili ed i poliziotti se la prendono comoda, parlottano e, siccome sono molto stupidi, non si capiscono; poi si decidono e fanno scendere i passeggeri dalla porta del conducente, dalla parte opposta a quella dove è presumibilmente avvenuto lo scippo. Io per fortuna sono tra i primi a poter scendere. Mentre sto lasciando ‘sto benedetto carro bestiame capto al volo un imperdibile colloquio tra la derubata ed un’altra passeggera che non vedo, ma che deve anche lei avere una clamorosa faccia da idiota: “Allora lei lo ha visto, eh? Ma braaava! E non dice niente per paura! Non si ci crede…”. Vorrei quasi rimanere sul mezzo per vedere come va a finire, se la testimone avrà il coraggio di testimoniare o se troveranno il borsellino addosso a quello lì, un pensionato perplesso ed indifeso cui l’attesa fa male più che agli altri. O magari il ladro è proprio lui e non quel sudamericano che tutti guardano storto, quel fierissimo indio che non sembra minimamente toccato dalla faccenda e sembra che dica: perquisitemi, fatevi pure la vostra bella figura di razzisti di merda.
Scendo gli scalini ed uno dei poliziotti mi annuncia che deve perquisirmi. Cinque minuti. Nei suoi occhi non brilla la fiamma dell’intelligenza. Lo dimostra palpandomi come se fossimo in un film americano: mi sfiora le reni e le cosce ed io, aderente in pieno alla pantomima cinematografica, alzo le braccia di scatto. Poi mi chiede: “dove tieni il portafogli?”. Non capisco se sia un subdolo trucco per farmi tradire. Invece no, vuole sapere proprio dove tengo il mio portafogli. Forse vuole scoprire un altro furto o darmi dritte per evitarlo. Boh. Indico la tasca dei jeans. Annuisce lentamente. Poi mi chiede di mostrargli l’interno del mio zaino. Gli faccio vedere la Canon, un CD di Nick Drake, il manuale di Teorie e Tecniche del Restauro che questo weekend non studierò mai, un Pasolini che gli accende uno sguardo sospettoso negli occhi (brillano le parole ‘frocio, frocio, frocio’)… finché non arrivo a fargli vedere le mutande. Non quelle che ho addosso, chiaramente. Il patetico siparietto di cui sono complice si avvia al termine, si vede che il poliziotto è improvvisamente stanco ed il suo potere di concentrazione sta svanendo: “Va bene, va’ pure…”.
Schizzo in biglietteria: ho il treno tra quattro minuti. Dovrei farcela. In coda davanti allo sportello ho davanti soltanto una persona. È un tizio strano, con la faccia da sessantenne ed un corpo da adolescente. Chiede con voce chioccia un biglietto per Alessandria. Dietro il vetro la bigliettaia gli chiede se lo vuole via Ovada o via Arquata. “È lo stesso… anzi, via Ovada…”. L’impiegata inizia a digitare sulla tastiera. “No, guardi, faccia via Arquata…”. Lei si blocca, interrogativa. Lui: “Ma no, via Ovada”. Amplificata dal microfono, lei perde le staffe: “Mentre si decide…” e rivolta a me “Lei?”. Milano, con ritorno e senza supplemento, grazie. L’omuncolo: “Via Ovada e non ne parliamo più!”. Due minuti. Lei sta per crollare e Amleto per fortuna non apre più bocca. Fatto il mio biglietto restano meno di sessanta secondi. Il treno però è sempre in ritardo e dovrei avere ancora un patrimonio di due, tre minuti. Vengo sfiorato dal desiderio di tornare all’autobus per vedere com’è andata a finire. Poi penso a quell’astuto poliziotto, intriso di cultura letteraria poliziesca di infimo ordine: crederà sicuramente che sono tornato sul luogo del delitto. E allora corro come il vento, oblitero e salgo sul treno con un minuto di ritardo. Ma ne aspetterò altri cinque prima di partire.
Chissà se quel trust di cervelloni ha trovato il borseggiatore o se è stata quella con la faccia da idiota a trovare il borsellino, ben nascosto nella tasca interna della giacca.
Si parte.
(1 — CONTINUA)