Dal 21 al 29 novembre il Torino Film Festival ospita la prima retrospettiva completa dedicata al cineasta francese Jean-Pierre Melville, a cura di Emanuela Martini e Mauro Gervasini. Un regista importantissimo, Melville, che influenzò pesantemente gli esponenti della Nouvelle Vague ma che resta tuttora misconosciuto in patria e fuori. In questo articolo tracciamo brevemente il suo percorso.
Mauro Gervasini ed Emanuela Martini – JEAN-PIERRE MELVILLE – Il Castoro – € 20
Il 2 agosto 1973, dopo una carriera fulminante, ad appena cinquantacinque anni se ne va uno dei più grandi cineasti francesi. Jean-Pierre Grumbach diventa Melville durante la guerra, è il nome di battaglia come partigiano gollista, scelto in onore del suo scrittore preferito. Si porta dentro la passione per il cinema sin da piccolo, convinto che quello dello spettatore sia il mestiere più bello del mondo. Ma guardare non gli basta, cosi passa dietro la macchina da presa dirigendo la trasposizione di un libro di culto di Vercors, Il silenzio del mare (1949).
Il suo stile è insolito, antiretorico, quando una storia come quella, votata al pacifismo, creava aspettative di enfasi “politicamente corretta”. Qualche lavoro di routine salutato dai “Cahiers” con un certo fervore e finalmente, nel 1955, il primo polar, Bob il giocatore. Dialoghi da “scuola dei duri” di Auguste le Breton, che il regista non ama, però ha bisogno di un nome grosso da sbattere sulla locandina. Il trucco riesce e il film incassa. Si delinea il Melville Touch: storie realistiche ma non reali, stile bressoniano («È il contrario! È lui che melvilizza!» dirà Jean-Pierre, un caratteraccio..) che vuole dire messa in scena non solo trasparente ma trascendente, il cui significato va dunque al di là dell’evidenza.
Un film di pura messa in scena è Lo spione (1962) con Jean-Paul Belmondo e Serge Reggiani, il primo gangster in odor di doppio gioco e il secondo malavitoso tutto d’un pezzo. Alla base una storia di amicizia sincera, per onorare la quale il personaggio di Belmondo (lo spione del titolo) manipola la realtà in una direzione precisa, quella che porta all’illusione, alla finzione, al cinema insomma. È il primo personaggio-regista dell’opera di Melville, per il quale la settima arte è soprattutto un grande inganno. In termini metafisici: non è con noi spettatori che gioca a rimpiattino ma con gli elementi narrativi, i deus ex machina delle storie. La Morte, per esempio, che arriva a prendersi la sua rivincita. Oppure il Destino, che nei noir è per definizione cinico e baro, ma imprevedibile (per esempio a Bob il giocatore non solo salva la vita ma lo rende ricco). Più melvilizza e più Jean-Pierre diventa sublime. Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide! (1966), con Lino Ventura e Paul Meurisse, è un’opera di clamorosa bellezza, dove si delineano i ruoli non in funzione sociale (sbirri di qua, gangster di là) bensì etica (tigri da una parte — Gu, Manouche, Blot, Orloff —, sciacalli dall’altra — Manuel, Jo Ricci, Fardiano —, non importa chi indossa il distintivo). È un apice poetico in attesa di toccare le vette linguistiche di Frank Costello, faccia d’angelo (1967, in originale Le samuraï: Melville definisce farabutti i titolisti italiani). Un film in bianco e nero nonostante il colore, la stilizzazione che passa attraverso il rigore della macchina da presa, la rarefazione dei corpi, la laconicità dei dialoghi. Di fatto la storia di un seppuku, il suicidio rituale dei samurai, ad opera di un killer che sfida la solita Morte (che fa la cantante in un night) e il solito Destino (che invece è un commissario di polizia). Alain Delon, splendido guerriero, è quasi un fantasma.
La critica, dopo gli elogi dell’esordio, pian piano abbandona il regista. Non ne capisce lo spessore, neppure i “Cahiers”, che si perdono in discussioni inutili circa l’irrealismo dei suoi film. Nessuno si accorge che Melville è solo Melville: un mondo a parte, uno stile che non si accoda a nessuna tendenza e non si crogiola nella nostalgia cinefila di un tempo che fu. È un cinema che sta al di sopra. Ma Le samuraï è veramente troppo avanti, e neppure il divo Delon assicura il successo commerciale. Il film successivo, L’armata degli eroi (1969) ha come sfondo gli ambienti della Resistenza gollista, a Marsiglia, dove anche Melville operò in tempo di guerra. Cenni autobiografici, dunque, e un omaggio al Generale che fece un po’ storcere il naso. Ma il ritmo e la struttura sono sempre da noir d’alta classe, inoltre tra i personaggi maschili spicca una partigiana, Simone Signoret, difficile da dimenticare. Si torna al polar nel 1970, con I senza nome. Cast di prima grandezza: Delon, Bourvil nella sua ultima interpretazione, Yves Montand in una performance da brivido e Gian Maria Volonté. Melville aveva apprezzato il fattore italiano in Banditi a Milano di Carlo Lizzani ma il loro rapporto sul set fu travagliato. In ogni caso il film ha momenti decisamente alti (lo studio dei tempi della rapina, la redenzione del personaggio di Montand) in mezzo ad altri di routine. Il successo di pubblico finalmente arriva: la gente comincia ad apprezzare il marchio di fabbrica di Melville e affolla le sale che proiettano I senza nome. Il polar successivo, sempre con Delon, Notte sulla città (1972), denuncia qualche segno di stanchezza, è meno entusiasmante nonostante lo stile, più stereotipato. È l’ultimo film di un regista veramente anomalo, imparagonabile, molto francese anche nel trattare, sullo schermo, un immaginario desunto dal cinema americano classico. I suoi polizieschi, comunque, non assomigliano a nulla di quello che è stato fatto prima e dopo. Per questo vanno visti, rivisti, ricordati.